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Autore: _Ella_    13/08/2012    4 recensioni
Axel Baker non credeva alle predizioni, neppure ai sogni premonitori, perché di fatto non ne aveva mai avuti, e quindi si affidava solo al suo sesto senso. Non aveva mai creduto al Destino, mai che ad ogni singola persona fosse affidato un disegno più o meno complesso su cui basare l’intera propria esistenza, che ad ogni decisione ne seguisse un’altra che non avrebbe interferito nei binari costruiti dal Fato stesso.
Per lui non c’era una limitazione, non c’era niente, solo un interminabile foglio bianco che aspettava di essere sporcato da una mano, esperta o meno che fosse.
Ma avrebbe dovuto sapere che per gli umani, scioccamente, un limite deve sempre esserci: è impossibile per loro tentare anche solo di immaginare l’Universo senza che impallidiscano, perché infinito è un concetto davvero troppo complesso per poter essere racchiuso tra le pareti del cervello.
E allora, per quanto distante e sottile ed invisibile ed inconscio, anche il foglio di Axel Baker aveva una forma, ed il Destino avrebbe giocato proprio su questo: era arrivato il momento di fermarsi ed andare a capoverso.
Genere: Generale, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Axel, Roxas
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun gioco
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La mano del Fato.

 

 

Atropo;
 che non si può evitare, l’inflessibile, poiché è colei che recide con lucide cesoie il filo della vita.

 

Non aveva mai smesso di guardarlo, dal primo giorno che i loro occhi si erano incrociati.
Quando gli aveva sorriso per dirgli che, ehi, non ti stavo guardando per caso, e l’istante dopo il suo viso sempre serio era diventato un po’ rosso, ed aveva afferrato velocemente i libri sul banco e li aveva sistemati, anche se erano già in perfetto ordine, solo per distrarsi. In quel momento, mentre lo vedeva cercare qualcosa di inesistente dal borsello rosso, si era trovato a pensare che magari quella sensazione di caldo al petto non l’avesse sentita soltanto lui, ed era proprio da questa che quel ragazzo voleva sfuggire, come se l’avesse turbato.
Aveva continuato ad osservarlo, giorno dopo giorno. Aveva catturato ogni singola espressione e l’aveva messa da parte, assieme alla consapevolezza di essere capace di riuscir a capire cosa stesse pensando o provando solo guardando la piega morbida delle labbra irrigidirsi; aveva dato un nome a tutte le sfumature dei suoi capelli che immaginava morbidi al tatto e profumati, al colore degli occhi che scivolava dall’azzurro intenso al verde acqua al blu, a seconda della luce che lo illuminava. Lo osservava mordere il tappo della penna durante i compiti in classe, mangiarlo e succhiarlo quando era teso e concentrato, e una volta finito lanciargli un’occhiata di sufficienza e stringersi nelle spalle, prima di buttarlo, ormai completamente distrutto, nel cestino. Aveva osservato i movimenti precisi delle sue dita sottili, quelli nervosi quando sapeva di essere osservato, quelli delicati quando lo sguardo vagava nel nulla ed era così terribilmente lontano da tutto e tutti che aveva quasi paura sparisse ad un battito di ciglia.
Per questo raccoglieva ciò che poteva, assimilava, perché sapeva che era un’entità così eterea che prima o poi sarebbe svanita, cambiata, sarebbe stata corrotta. Era come un presentimento annidato nello stomaco, era la paura – forse infondata, chissà – che quel che più amava gli venisse portato via con la facilità che ha il vento di portare via i minuscoli petali dei denti di leone, fini come fiocchi di neve.
 
Axel Baker non credeva alle predizioni, neppure ai sogni premonitori, perché di fatto non ne aveva mai avuti, e quindi si affidava solo al suo sesto senso. Non aveva mai creduto al Destino, mai che ad ogni singola persona fosse affidato un disegno più o meno complesso su cui basare l’intera propria esistenza, che ad ogni decisione ne seguisse un’altra che non avrebbe interferito nei binari costruiti dal Fato stesso.
Per lui non c’era una limitazione, non c’era niente, solo un interminabile foglio bianco che aspettava di essere sporcato da una mano, esperta o meno che fosse.
Ma avrebbe dovuto sapere che per gli umani, scioccamente, un limite deve sempre esserci: è impossibile per loro tentare anche solo di immaginare l’Universo senza che impallidiscano, perché infinito è un concetto davvero troppo complesso per poter essere racchiuso tra le pareti del cervello.
E allora, per quanto distante e sottile ed invisibile ed inconscio, anche il foglio di Axel Baker aveva una forma, ed il Destino avrebbe giocato proprio su questo: era arrivato il momento di fermarsi ed andare a capoverso.
 
Si faceva chiamare Ventus Moore, e con un sorriso amaro Axel si chiedeva come Roxas fosse potuto arrivare a questo punto, e soprattutto senza che se ne accorgesse nessuno.
Si chiedeva, senza trovare alcuna risposta, dove fossero finite tutte le sue espressioni e le sue sfumature ed i suoi modi di fare, ma ormai di Roxas non era rimasto niente, neppure il nome. Non c’era il sorriso gentile spesso seccato, non c’era il tono calmo e momentaneamente saccente, non c’era più niente, niente.
Non c’era Ventus e non c’era neppure Roxas, Axel si chiedeva se anche se stesso non fosse sparito nel nulla, senza lasciare traccia esattamente come avevano fatto loro.
Ventus era il suo migliore amico, lo era stato per tre anni. Lo aveva conosciuto lì in quella classe all’inizio del primo anno scolastico, ed avevano stretto amicizia un attimo dopo che gli si era seduto di fianco, visto che gli altri banchi erano tutti occupati; c’era voluto solo il tempo di presentarsi ed Axel lo aveva trovato simpatico – “Io sono Ventus, chiamami Ven”, “Io sono Axel, chiamami Axel. E memorizzalo”, ricordava ancora le risate di quel momento.
Ad oggi, pensandoci, tre anni non gli sembravano poi così tanti. Ed era strano come ogni santa estate tutti non facessero che ripetere “Ehi, però se ci pensi l’anno e volato”, mentre nel suo corso non facevano altro che lamentarsi, sperando che passasse al più presto.
Lui era stato così, un tempo. Aveva fatto il conto delle ore sperando che passassero quanto prima, aveva cercato di trattenerle quando erano più piacevoli, ma inutilmente, ovvio. Aveva pregato ed invocato quegli dei in cui non aveva mai creduto quando i giorni di Ventus avevano iniziato davvero ad essere contati, e sbarrarli sul calendario con l’inchiostro indelebile di un pennarello rosso faceva solo male, malissimo, e non dava alcun sollievo.
Gli sembrava così banale ammetterlo, ma da quando Ven era morto per la leucemia cui era affetto sin da bambino aveva seriamente cominciato a non dar più peso alla velocità con cui si muovessero le lancette dell’orologio, ed ogni  singolo giorno aveva acquisito un valore tutto proprio. Aveva accettato il dolore, il sollievo, la felicità e ne aveva fatto tesoro, non si era mai più lamentato di qualsiasi cosa gli fosse accaduta, l’aveva solo assimilata.
Erano passati poco più di quattro anni da quando aveva conosciuto Ven e Roxas, uno dalla morte del suo migliore amico.
Ricordava ancora il senso di smarrimento che l’aveva investito quando aveva messo piede in classe e la sedia accanto alla propria era vuota, e per un mese anche quella di un banco avanti e a sinistra rispetto al proprio non era stata occupata da nessuno. Non aveva mai davvero compreso il dolore di Roxas, nonostante non avesse fatto altro che osservarlo per tre anni e credere di aver capito ogni singola cosa di lui. Quando aveva visto la sua faccia bianca e l’espressione inesistente sul suo volto il giorno del funerale, si era reso conto che probabilmente c’era un dolore così intenso che non arrivava né agli occhi né al volto, probabilmente neanche al cuore, e distruggeva dall’interno, divorando e lacerando ogni altra cosa.
Da quel giorno, esattamente come aveva temuto, di quel Roxas che tanto aveva amato non era rimasto più niente, neanche una briciola. Quando si era presentato in classe ed aveva detto “Io sono Ven, non Roxas” e tutti si erano scusati immaginando di aver capito il contrario, Axel gli aveva rivolto un’occhiata così affranta che il ragazzo non era riuscita a reggerla, ed aveva distolto subito lo sguardo.
Aveva capito che il dolore può non arrivare né agli occhi, al volto, tantomeno al cuore, ma la sua anima l’aveva fatta in pezzi così piccoli che Roxas aveva sentito la necessità di non essere più se stesso per sentirsi meglio, per non soffrire. Probabilmente l’eventualità di essere morto, piuttosto che aver visto morire il suo adorato fratello gemello gli faceva meno male, e gli rendeva più semplice continuare a vivere.
Axel l’aveva capito, l’aveva accettato, e allora anche lui aveva iniziato a chiamarlo Ventus, anche se rivolgersi a lui con quel nome probabilmente faceva male ad entrambi.
 

 

Lachesi;
che distribuisce la quantità di vita di ognuno, colei che ne decide il destino.

 
Axel si grattò il naso, guardando affascinato la fitta pioggia primaverile che batteva contro i vetri delle finestre chiuse di camera sua. Quel mattino si era alzato prima, svegliato dall’assordante rombo dei tuoni che quella notte gli avevano reso difficile addirittura addormentarsi. Sbadigliò, infilò da sopra la felpa il giubbino impermeabile, perché anche se non faceva freddissimo non aveva voglia di arrivare a scuola zuppo fino alle mutande, e spero che dentro la cartella i suoi libri non s’inzuppassero troppo: aveva già dovuto buttare via il quaderno degli appunti di scienze, la settimana scorsa.
La TV aveva detto che quella era la primavera più piovosa degli ultimi dieci anni, ed Axel aveva pensato che, davvero, se n’era accorto pure lui e senza una laurea di alcun tipo in merito. Il massimo del divertimento era quando ti avvisavano che nelle prossime ore avrebbe piovuto quando già diluviava dal mattino, ed il vento era così forte che iniziavi a pensare potesse arrivare un tornado.
Mandò un’occhiata all’orologio e si decise ad uscire nel vialetto, perché di certo quel simpaticone di Vexen non avrebbe neppure fatto una sola suonata di clacson e sarebbe corso via, lasciandolo a piedi in metto alle intemperie. Dannato autista del cazzo.
«Ma’, io vado!» urlò.
Lasciando completamente da parte l’idea di prendere l’ombrello, che altrimenti si sarebbe come minimo distrutto visto il ventaccio che c’era, alzò il cappuccio della felpa e ci calò sopra quello del cappotto lucido, afferrando la cartella e sperando che i suoi anfibi riuscissero a tenergli i piedi asciutti almeno fino all’entrata in classe. Così, come un gladiatore che sta per entrare in arena e pronto ad affrontare la morte anche quel giorno, Axel spalancò la porta ed uscì di casa, accompagnato dall’urlo d’acclamazione del vento.
Mentre fermo sul ciglio della strada fissava i rami degli alberi dibattersi orribilmente, pensò che sarebbe seriamente arrivato un tornado, tra qualche giorno. L’ultima volta che ne aveva visto uno era bambino, aveva all’incirca dieci anni, e mentre sua sorella minore piangeva spaventata, lui era sgattaiolato vicino la finestra sbarrata, e dal piccolo spazio che c’era tra una tegola di legno e l’altra aveva guardato fuori, ed aveva osservato con stupore e meraviglia tutti gli alberi abbattersi per terra, sradicati dal vento, le cassette per la posta sparire in un battito di ciglia e gli idranti distrutti, ma il vento e la pioggia erano così intensi che il getto d’acqua che ne usciva di mischiava a tutto il resto, e non si notava neppure.
Axel da quel giorno era rimasto intimorito ed affascinato dalla potenza distruttiva della natura, che prima crea e poi distrugge scatenando la stessa identica meraviglia.
Pensandoci, sarebbe stato davvero felice se nei prossimi giorni fosse accaduto lo stesso.
Il suonare sgraziato del clacson gli fece girare il viso verso il terminare della strada, e i fari del pulmino della scuola furono un po’ come la luce che immaginava ci fosse all’entrata di un fantomatico Paradiso; fortunatamente quel vecchio di Vexen rallentò prima di frenare, e non lo inzuppò come aveva fatto molte altre volte. Salì sul bus, gli augurò meccanicamente il buongiorno – una ramanzina di mezz’ora sul fatto che “Anche i muli quando entrano nella stalla dicono ee-oh” non aveva proprio voglia di sentirla – e si lasciò affondare contro il primo sedile che lo ispirò, schiacciandosi contro il finestrino.
La sua casa era una delle prime cui Vexen si fermava, e così sapeva più o meno dove abitavano tutti quelli che prendevano l’autobus come lui, anche se doveva subirsi quindici minuti di viaggio all’andata e altri quindici al ritorno. Tutto sommato era piacevole, i viaggi in auto – o pullman, o bus che fossero – lo rilassavano sempre molto, ed erano un ottimo momento per pensare, rilassarsi, osservare le altre persone e lasciarsi assorbire dal chiacchiericcio o, chissà, dal silenzio rotto solo dallo sfrecciare degli altri mezzi sull’altra corsia.
Come ogni mattina, bastarono giusto altre quattro fermate perché l’annoiato viso di Roxas facesse capolino dalle porte spalancate del veicolo. Come al solito aggiustò meglio la tracolla sulla spalla coperta dal giubbino inzuppato d’acqua, gli lanciò un’occhiata gelida, ed andò a sedersi dove avrebbe potuto vederlo di meno.
Per qualche motivo che Axel non capiva, Roxas aveva iniziato ad odiarlo, tanto che solo la sua vista gli faceva nascere sul viso una nota d’irritazione acuta, che lui aveva persino iniziato ad ignorare, perché faceva male, malissimo, e allora preferiva far finta che non esistesse, per quanto gli risultasse difficile: volente o nolente, il suo sguardo andava sempre a posarsi su di lui, come se non ci fosse altro posto migliore in cui potesse essere.
Sbuffò, concentrandosi sul solito paesaggio di case ed auto che lo accoglieva ogni mattina, cercando di ignorare il senso di amaro che iniziava ad opprimergli il petto quasi ogni giorno alla stessa ora, almeno fino all’arrivo in aula e al cominciare delle lezioni, così ci avrebbero pensato i professori a riempirgli la testa con altro.
 
«Moore, dai, alla lavagna».
Involontariamente, Axel alzò il naso dal libro degli esercizi di matematica, puntandola sulla schiena minuta di Roxas. I professori ormai evitavano di nominare il suo nome, e da quando si faceva chiamare Ventus nessuno in classe aveva mai visto in giro l’elenco degli alunni, né aveva mai potuto metterci mano, anche chiedendo che gli fosse consegnato.
Aveva pensato che magari i suoi genitori avessero esplicitamente chiesto ai docenti che il suo desiderio fosse accettato, magari per evitare turbe emotive, o qualcosa del genere. Sta di fatto che nessuno tra i suoi compagni di classe sembrava importarsene troppo: per tutti lui era Ven, il vecchio e caro Ven, cambiato perché scioccato troppo dalla morte del gemello Roxas. La verità era che nessuno avrebbe notato il cambiamento, se Roxas fosse rimasto Roxas. Nessuno si era mai interessato a lui, non perché fosse noioso o perché non avesse un buon carattere, semplicemente non l’aveva mai visto sforzarsi per avvicinarsi a qualcuno, come se stesse bene con se stesso. Immaginava che adesso non lo fosse a priori, altrimenti non avrebbe avuto alcun senso cercare di cambiare identità.
Si ritrovò a fissare ogni piega della sua felpa grigia, che arrivava a coprirgli quasi tutto il sedere, come fosse più grande. Effettivamente anche le maniche ricadevano fino a metà palmo, e senza difficoltà aveva afferrato il polsino tra la mano destra per lasciare che l’avvolgesse del tutto, mentre quello sinistro era diventato in parte bianco, sporco di gesso.
Una cosa che nessuno aveva notato, segno che i ragazzi che lo circondavano non erano altro che una banda di stupidi, era il fatto che Ventus non fosse mancino. Quella era una delle poche cose che Roxas non era riuscito a cambiare, anche se i primi tempi ci aveva provato a cambiar mano, ma senza successo.
Dal suo secondo banco della fila centrale lo vide mordersi il labbro, aggrottare la fronte, e ripercorrere con lo sguardo l’esercizio che aveva appena finito di scrivere. Axel dimenticò persino di ricopiarlo sul proprio quaderno.
Il professore tossì, con la mano sempre sporca di gesso si grattò appena il capo coperto da capelli cortissimi, e con la voce roca di un fumatore accanito gli indicò come poter cominciare, e allora lo sguardo azzurro s’illuminò, e cominciò ed eseguire con sveltezza e senza più alcun tentennamento.
Axel delle volte si chiedeva, su una scala da uno a mille, quanto fosse stato codardo: da quando Ventus era morto non aveva rivolto la parola a Roxas neppure una volta, non seriamente, seppure ci fossero state mille e mille occasioni per farlo e altre centinaia di cose da chiarire. Magari aveva sbagliato sin dall’inizio, tenendosi un po’ in disparte perché timoroso di distruggere la bolla di cristallo che aveva attorno, ed si rendeva conto di aver distrutto la possibilità di avere qualsiasi altro contatto con lui quando aveva iniziato a chiamarlo Ven.
Spesso si sentiva in colpa, per questo: non c’era stato nessuno che avesse dato a Roxas la necessità che fosse rimasto se stesso. Né amici, né parenti, tantomeno lui, che ne era innamorato segretamente da una vita e che era stato migliore amico del suo gemello.
No, Axel non si sentiva in colpa: ne era semplicemente schiacciato, ed era per questo che non gli aveva mai chiesto perché ce l’avesse con lui, perché non la smettesse con questa stupida farsa. Non ne aveva il diritto, li aveva persi tutti completamente un anno prima, e in quei mesi la bolla di Roxas era diventata una specie di fortezza che non lasciava entrare nessuno e che, soprattutto, lo teneva prigioniero.
Si sentiva così meschino a riguardo che non voleva pensarci.
Passò una mano in volto, lasciandola scivolare tra i capelli e sul collo, prima di riportarla sul banco. Sentì le risatine divertite degli altri, alle sue spalle, e si chiese quanto tempo era passato dall’ultima volta che aveva riso di cuore, fino a sentire i muscoli della pancia far male, tanto che ne fu quasi infastidito.
Lasciò cadere la penna nell’astuccio quando finalmente anche l’ultima campanella suonò, e si lasciò sfuggire un mezzo impreco delle labbra quando guardando fuori si rese conto che stava ancora diluviando: se non si affrettava il bus si sarebbe riempito fino a scoppiare, e lui sarebbe finito seduto vicino a qualche ciccione puzzolente con cui nessuno avrebbe voluto avere a che fare. Si sbrigò ad infilare tutto in cartella, ed afferrò velocemente il cappotto, uscendo dall’aula senza neanche abbottonarlo: se fosse arrivato a casa zuppo d’acqua, non sarebbe stato di certo un vero problema.
«Ehi, Baker, fermo lì!».
Gli ci volle qualche secondo per capire che lo stavano chiamando, e fermare la corsa. Si girò, incontrando gli occhi chiarissimi del professore, che gli porse il blocco di fogli che aveva tenuto sulla cattedra tutte le due ore precedenti, mentre facevano lezione.
«Cosa devo…?».
«In segreteria, lì porti lì, dici che ti mando io e metti la firma. E firma, eh, non ti dimenticare».
Trattenne lo sbuffo tra i denti ed annuì, girandosi e cominciando a correre velocemente giù per le scale: la segreteria era al primo piano, e per lui che si trovava al secondo non era un grande problema teoricamente, ma il fatto era che all’ora di uscita c’era il caos più totale, e quindi non si sarebbe spicciato molto in fretta.
Ah, che palle! – pensò, mentre scivolava tra la marmaglia di ragazzi che si intrattenevano sulle scale, svoltando l’angolo e bussando impaziente alla porta, prima di aprirla. «Mi manda…».
«Quello sfaticato di Luxord, chi altri» si lamentò la donna, e ad Axel ci volle un po’ per capire che stesse parlando del suo professore; nessuno lo chiamava spesso per il nome di battesimo, tra l’altro. La vicepreside ci fece cenno di avvicinarsi, passò una mano tra i biondi capelli corti e gli porse un registro ed una penna, spiccia. «Dai, firma, veloce».
Probabilmente era uscita una cosa alquanto incomprensibile, ma non se ne curò, ed augurando una buona giornata corse via, la scuola svuotata nel giro di un attimo, ed immaginò che Vexen l’avrebbe scuoiato vivo, poi l’avrebbe lanciato in una pozzanghera e gli sarebbe passato sopra col bus.
Con un balzo si aggrappò alla maniglia del pulmino giallo sporco e si tirò su in un lampo, e gli occhi verde sporco furono subito nei suoi, fulminandolo.
«Cinque minuti di ritardo, teppistello! Cinque!».
«Ehi, ehi, dai vecchio, sono sempre puntuale! Colpa dei prof!».
«Trovati un posto a sedere» gracchiò. «Potrei partire più veloce del solito, e se ti rompi quell’orribile naso non è colpa mia».
Ma sentitelo, tsk.
Axel si scostò una ciocca umida dal viso completamente bagnato, e mandò un’occhiata in giro; superò i primi posti, tutti occupati da due o tre persone, e quando raggiunse l’ultima fila sospirò pesantemente: bene, ci mancava solo sedersi di fianco a Roxas, per completare la giornata a meraviglia. Poggiò prima lo zaino sul sedile, come per creare un distacco, e lo vide schiacciarsi di più contro il finestrino, mentre lui rimase più esterno che poteva, rischiando persino di cadere un paio di volte.
Era seriamente una situazione ridicola, poco ma sicuro. In quasi diciotto anni di vita non si era mai sentito così a disagio, probabilmente, e tutto perché era seduto accanto ad un ragazzo con cui non parlava da un anno e passa.
Beh… mai troppo tardi, no?
«Hm… per caso hai il mio libro di matematica?» provò. Pessima, pessima scusa, Axel.
Roxas gli puntò addosso gli occhi, scollandoli tre secondi contati dal finestrino giusto per poterlo guardare, poi lo ignorò di nuovo, un mezzo sorriso sulle labbra. Sembrava divertito, ma anche incredibilmente irritato; probabilmente era entrambi. «‘Sta zitto, Axel».
Sì, sicuramente era troppo, troppo tardi sul serio.
Si morse la lingua, e gli scappò un sospiro tremolante, mentre puntava gli occhi sui pugni stretti contro il tessuto zuppo dei pantaloni. Egoisticamente, non aveva intenzione di sentirsi in colpa di nuovo per non averci provato l’ennesima volta. «Ven…».
«Risparmiami, non ci credi neppure tu quando lo dici».
Axel ringhiò. «Perché non lo sei!» sibilò, ed alzò lo sguardo furioso dalle proprie gambe, sgranando gli occhi quando incontrò quello spiazzato e lucido di Roxas, ferito; si pentì improvvisamente di averlo detto con tanta cattiveria, come se avesse voluto rinfacciargli di non esserlo davvero, come se fosse una sua colpa essere Roxas piuttosto che Ventus. Aprì la bocca, non ne uscì suono. Riprovò. «Scusa» mormorò, non riuscendo a dire altro; fu l’ultima cosa che riuscì a dirgli prima che il biondo si ritirasse in un silenzio tombale, ignorandolo fino a che non dovette scendere di fronte casa.
Axel lasciò sbattere la nuca contro il vetro, e si passò le mani sul volto: non ne faceva una giusta, cazzo. Come se non bastasse, si era reso conto che era stata la prima volta da quando Ven era morto che aveva avuto il coraggio di guardare Roxas correre per il vialetto verso casa: il contrasto di vedere una sola schiena allontanarsi rispetto a quando ne erano due, fu capace di fargli venire le lacrime agli occhi.
Ci sono volte in cui il dolore e la sorpresa sono così forti che ci si trova a reagire in modo piuttosto strano.
Viviamo come se la cosa non ci riguardasse, estraniando il problema, ed automaticamente l’inconscio rinchiude i pensieri ed i sentimenti che ne riguardano altrove. Sembra di aver superato ogni cosa, sembra di essere forti ed aver dimenticato. In realtà non abbiamo mai nemmeno riflettuto per un solo attimo, perché viene spontaneo concentrarsi su tutt’altro, come un meccanismo di difesa immediato.
Ma l’animo umano ha un limite, proprio come la capacità che ha d’immaginare l’infinito. Ed è in quel momento che esplode.
La mente richiama ricordi e sensazioni contrastanti tutte assieme: amore, odio, delusione, tutti legati ad un singolo pensiero.
Axel non aveva mai accettato di aver perso ben due persone nel giro di un attimo, e si era comportato come se non gli fosse mai importato, come se non avesse avuto importanza, come se fosse stato forte abbastanza da poterlo accettare. Ma in quel momento, quando si era quasi aspettato di vedere sia Ventus che Roxas camminare sotto la pioggia spalla contro spalla, ed aveva visto una persona che non era né l’uno né l’altro, aveva finalmente capito quanta sofferenza aveva tenuto dentro per un anno intero.
Guardò fuori dal finestrino, sperando che nessuno rivolgesse neppure uno sguardo al suo volto: ai rivoli di pioggia primaverile che scivolavano contro il vetro come piccoli serpenti luccicanti, sen’erano aggiunti altri due, ma non erano altro che il riflesso delle sue lacrime.
 
Da una settimana alla tv non facevano altro che ripetere e ripetere che da un momento all’altro sarebbe arrivato un tornado di media potenza, e che era necessario soltanto chiudersi bene in casa e non lasciarla per alcun motivo, mettere le auto in garage perché il vento non le portasse via almeno finché tutto non fosse ritornato calmo.
Axel trovava abbastanza stupido che lo ripetessero ad ogni pubblicità, visto che non era la prima volta che lui e gli abitanti di quella città si trovavano a vedersela con una tromba d’aria, ed inoltre trovava alquanto inverosimile che parlassero di “Fenomeno non distruttivo, in quanto non raggiungerà i centri abitati”, visto che per definizione era  un fenomeno distruttivo e pericoloso. Sperava solo che qualcuno non ci rimettesse la casa, o chissà che altro – anche se erano tutti attrezzati per queste eventualità.
Non sapevano precisamente quando sarebbe arrivato, né i danni che avrebbe provocato, ciò che era certo era che quel giorno sarebbe stato l’ultimo di scuola, che poi sarebbe rimasta chiusa finché non fosse passato il pericolo.
Prima di uscire di casa, quel mattino, sua madre gli aveva fatto decine e decine di raccomandazioni, nonostante dovesse stare fuori casa con sua sorella Kairi solo fino all’ora di cena: sua nonna le aveva chiamate per essere aiutata a pulire casa e buttare tutto ciò che non serviva più, e poi li avrebbe raggiunti ed avrebbe dormito lì fino alla fine dello stato di allerta.
In realtà tutti speravano che il tornado non arrivasse affatto, Axel invece non vedeva l’ora che arrivasse e spazzasse via tutto, come aveva fatto l’ultima volta che lo aveva guardato dalla finestra.
Nel frattempo non poteva fare altro che guardare la fitta pioggia contro i vetri delle finestre della classe, il rumore del ticchettio che faceva da sottofondo alla spiegazione meccanica della professoressa, che sembrava più una lenta litania, come un mormorio sommesso durante un rito religioso.
Il rombo di un tuono fece sobbalzare tutti, non lui, che aveva notato il fulmine che l’avrebbe anticipato. Il tornado sarebbe arrivato più in fretta del previsto, sentiva l’aria carica di umidità e di elettricità, ed inoltre le fronde degli alberi iniziavano a dibattersi orribilmente, come corpi in preda al delirio.
«Baker!» il richiamo della sua professoressa lo fece sobbalzare, riportandolo alla realtà. «Se hai finito di contemplare il panorama, puoi anche prestarmi attenzione, se non ti disturba».
In realtà mi disturba, mi disturba davvero. «Mi scusi» disse in automatico, provando a fregarsene qualcosa della storia dell’arte.
Non vedeva l’ora che la tempesta distruggesse tutto, persino i residui di quella routine che aveva scoperto stargli troppo stretta.
Sospirò e abbassò il viso sul libro fingendo di seguire la spiegazione, mentre in realtà posò i suoi occhi su Roxas, che sembrava ancora meno interessato di quando fosse lui. Aveva paura di parlargli e combinare qualche altro casino: il solo pensare al primo approccio che aveva creato dopo un anno che non si erano parlati lo faceva sentire un irrimediabile coglione. A quanto pare era stato possibile bruciare in niente anche le più piccole possibilità rimastegli, come se niente fosse. Non era mai stato bravo a trattenere la lingua, del resto.
Roxas mosse la testa, e lui abbassò lo sguardo sul libro un momento prima che incrociasse quello del biondo, che probabilmente aveva iniziato a sentirsi osservato.
Sei un coglione, Axel. Coglione, coglione, coglione.
La professoressa rimase a metà con le parole, quando senza neppure bussare alla porta la vicepreside fece irruzione nella stanza, e la guardò con la bocca socchiusa, mentre tutti loro alzarono lo sguardo su di lei.
«Prendete le vostre cose e subito a casa, il tifone arriverà nel giro di qualche ora» e senza nemmeno aspettare una risposta filò via, lasciando la professoressa nel panico più assoluto mentre urlava di restare calmi, ovviamente nessuno l’ascoltava.
Axel si rese conto di essere febbricitante, mentre infilava il cappotto e metteva la cartella in spalla, sbrigandosi per uscire dall’aula e raggiungere lo scuolabus. Non vedeva l’ora che il tifone arrivasse, e se fosse stato a casa da solo sarebbe stato anche meglio, così sua madre non l’avrebbe ripreso se si fosse avvicinato troppo alla finestra.
Per la fretta dimenticò persino di coprirsi i capelli col cappuccio, e l’acqua li appesantì fino a farli scivolare sulle spalle, inzuppandolo fino all’osso nel tratto dall’uscita della scuola al parcheggio, dove un Vexen più irato e nervoso del solito continuava a chiedere se ci fossero tutti, lanciando maledizioni contro il tergicristalli che non si muoveva abbastanza velocemente da poter togliere tutta l’acqua che ormai cadeva in fretta.
Quando anche l’ultimo fu a bordo, Vexen partì, imprecando contro gli automobilisti che sfrecciavano sorpassandolo, ed i semafori rossi.
«Dannazione! Muoviti, dai!» e giù una slittata di clacson; ad Axel stavano per venire i nervi, seriamente, era inutile agitarsi tanto dopo una settimana di avvertimenti e soprattutto con ore di anticipo dalla tempesta vera e propria. Non immaginava come si sarebbe agitato durante la tromba d’aria…
Il bus fermò l’ennesima volta con uno sgradevole suono metallico, e vide poco più avanti Roxas alzarsi dal posto, scendendo velocemente.
Non aveva mai guardato, quella settimana. Aveva preferito incassare la testa nelle spalle e starsene sulle sue, ignorare completamente il fatto che giorni prima quella vista era riuscito a farlo piangere, ignorare tutto, tutto, sperando che passasse il malumore quanto prima.
Non seppe cosa l’avesse portato a guardare oltre i vetri posteriori, ma in futuro avrebbe ringraziato la sua decisione. Ironicamente, il Destino aveva calato su di lui il proprio volere.
Roxas suonava il campanello, ma era probabile che non ci fosse nessuno in casa: tutte le luci erano spente, persino quelle all’ingresso, ed il fatto che avesse appena smesso di battere il pugno contro la porta e si fosse lasciato scivolare sul gradino tolse ad Axel ogni dubbio.
Senza neanche il tempo di pensarci saltò in avanti, cercando di non scivolare contro il pavimento bagnato e sporco di fango, e «Vexen!» urlò. «Fermati, devo scendere!».
«Non ci penso proprio! Torna al posto tuo» lo rimproverò agitando la mano per scacciarlo via, esattamente come avrebbe fatto con un insetto.
«Diamine, se non ti fermi sfondo il vetro, Vexen! Cazzo apri la porta, tanto c’è il traffico!».
Il vecchio lo fissò palesemente incazzato, ma non gli importò neanche un po’. Se fosse arrivata una lettera a casa con scritto che non avrebbe più potuto usufruire del pulmino di scuola gli sarebbe andato bene, avrebbe fatto a piedi l’isolato tutti i giorni, ma adesso doveva scendere.
Quando le porte si aprirono con un gemito, Axel saltò giù dal pulmino con un solo balzo, finendo con gli anfibi nell’acqua sporca, che si ritrovò sui pantaloni già fradici. Lasciò cadere lo zaino nell’erba zuppa con un tonfo ovattato, e cominciò a correre verso la villetta dei Moore, due prima di quella dove si trovava adesso.
«Roxas!» urlò, il fiato corto e le gambe che tremavano.
Il biondo alzò la testa dalle ginocchia che aveva rannicchiato al petto, e lo guardò sconvolto, senza capire. «Cosa…?».
Axel gli afferrò la spalla e con uno strattone lo tirò in piedi, facendoselo cadere addosso. «Non puoi stare qui fuori! Tra poco arriverà il tornado e__».
«Ma cosa diamine ti interessa?» ringhiò, sfilando via dalla sua presa e spingendolo.
Deglutì, e si morse le labbra, abbassando lo sguardo. «Te lo dico. Ti dico tutto… ma vieni a casa mia, è pericoloso se resti qui».
Roxas si strinse nelle spalle. «Tanto nel giro di un’ora i miei sono a casa» ribatté.
«Diamine!» sbuffò, chinandosi per raccogliere la sua cartella dal gradino all’ingresso. «Adesso muovi il culo e vieni con me, Roxas. Veloce» e senza aspettare che dicesse altro, se lo caricò in spalla ed incassò i calci nella schiena ed i pugni contro lo stomaco.
Non lo avrebbe lasciato lì con una tempesta del genere – che, tra parentesi, ormai li aveva inzuppati entrambi fino all’osso – e con una tromba d’aria che sarebbe arrivata chissà quando. Afferrò il proprio zaino e caricò in spalla anche quello, mentre Roxas aveva ormai finito di colpirlo, e si era arreso all’evidenza che non l’avrebbe lasciato andare.
«Fammi scendere».
«Così scappi via…»
«Non scappo, diamine! Ma quanti anni hai, Axel, cinque? Mettimi giù!».
Dopo l’ennesimo colpo alla schiena lo tirò a terra, rivolgendogli uno sguardo facendogli capire che non avrebbe accettato nessun altro tentativo di resistenza.
Però Roxas gli tirò via la tracolla dalla spalla e «Muoviamoci» disse, cominciando a correre in avanti.
Axel sorrise contro la pioggia, e lo raggiunse, superandolo e facendogli strada.
La tempesta era diventata praticamente disastrosa, quando arrivarono zuppi ed infreddoliti di fronte casa sua. Axel tirò fuori dalle tasche la chiave, che anch’essa bagnata più volte scivolò dalle sue dita tremanti, e dopo qualche secondo finalmente riuscì ad infilarla nella toppa, ed aprire la porta.
Il silenzio e l’asciutto di casa sua furono una benedizione, anche se gocciolavano entrambi contro il pavimento lucido del parquet.
«Dobbiamo chiudere tutto» lo avvisò Roxas, lasciando cadere il giubbino e la tracolla per terra.
Si trovò ad annuire meccanicamente, ed intimandogli di seguire le sue indicazioni iniziarono a sbarrare al meglio porte e finestre.
 
Il fischiare del vento era incredibilmente acuto, e la porta d’ingresso e le finestre non facevano altro che battere impazzite, come se volessero sgusciare via dai cardini.
Roxas accese anche l’ultima candela, e sospirando rilassato accettò volentieri la maglia ed i pantaloni asciutti che Axel gli stava porgendo assieme al telefono.
«Avvisa i tuoi che sei qui, prima che vada via anche la linea telefonica, oltre che la corrente» disse, e quello annuì, il viso ancora umido leggermente illuminato dalla luce tremolante delle fiammelle.
Axel si asciugò i capelli meglio che poteva con un’asciugamani, cercando di calmarsi.
Cos’avrebbe detto? Cos’avrebbe fatto? Aveva le mani che gli tremavano dal nervosismo, ed in più la consapevolezza di essere chiuso in casa soltanto con Roxas gli faceva seccare la bocca.
Sospirò profondamente, il battito del cuore si regolarizzò, andando tuttavia al ritmo veloce del vento che picchiava forte all’entrata.
I passi di Roxas non facevano che il minimo rumore contro il legno del pavimento, forse solo perché la tempesta ovattava tutti i rumori. «Grazie mille» disse, porgendogli il telefono ed accomodandosi a terra, la schiena contro il muro, rannicchiato esattamente allo stesso modo in cui l’aveva trovato di fronte la porta di casa.
Mordendosi il labbro gli si accomodò di fianco, portando per terra tutte le candele, per fare più luce. Dopotutto c’erano solo loro, non aveva senso illuminare il resto della casa. Sentì il suo respiro regolare, appena percettibile; gli sembrava di vederlo tremare, ma forse era solo un’impressione giocata dalla luce fioca e tremante.
«Immagino che… dev’essere snervante essere qui, con me» sussurrò, giocando con la molla dei calzini puliti che aveva indossato da poco.
Roxas alzò appena il viso, e si strinse nelle spalle mentre si lasciava sfuggire una mezza risata amara. «Meglio che trovarmi lì fuori».
Axel annuì e si grattò il collo nervosamente mentre osservava il suo profilo delicato.
Era assurdo quante volte l’avesse guardato, catturando ogni suo momento, probabilmente molte più di quanto gli aveva parlato in tre anni, nonostante passasse molto più tempo a casa Moore che nella propria. Sospirò l’ennesima volta nell’arco di una giornata, e si disse che era inutile rimuginare su ciò che aveva fatto o meno e sentirsene in colpa, non era certo la priorità nel bel mezzo di una tempesta che avrebbe potuto stradicare il tetto della casa da un momento all’altro…
«Ti odio, dannazione» la sua voce sembrò un singhiozzo, mentre nascondeva un’altra volta il volto tra le ginocchia, come se volesse sparire.
Gli rivolse lo sguardo un’ultima volta, prima di alzare gli occhi al soffitto. «Beh… io non odio te».
«Perché?» sibilò, ed Axel lo sentì tremare violentemente contro la propria spalla. «Non c’è un solo motivo per cui non dovresti odiarmi».
Axel abbassò lo sguardo sui propri piedi, e con la coda dell’occhio tenne sotto controllo i movimenti di Roxas, che tuttavia sembrava essersi fossilizzato in quella posizione. «Io… solo per un motivo ti odio» cominciò, senza il coraggio di guardarlo. «Da quando Ven è morto, tu… sei cambiato. Per tre anni ho avuto paura che succedesse, ed è successo».
Lo sentì tremare più forte, e questa volta non poté trattenersi dal puntargli contro i propri occhi verdi. Le braccia che fino a prima avevano abbracciato le gambe, adesso vennero piegate contro lo stomaco, e Roxas nascose il viso tra le mani; quando tremò ancora, capì che stava piangendo. «Odio il buio» sussurrò, la voce spezzata. «Lo odio, lo odio».
«Ehi, ehi» si tirò su e gli si inginocchiò di fronte, impacciato: non aveva davvero idea di che fare di fronte ad un diciassettenne in preda al panico per una fobia che di solito passa dopo i cinque anni. «Non è buio, ci sono le candele» da che ricordasse, tuttavia, prima di allora non aveva mai sentito nulla sul fatto che fosse acluofobico.
«E quando si consumeranno?».
«Allora… beh, guarda, ne lasciamo solo una accesa, ok? Così durano di più… e poi magari cerchiamo qualche torcia, non so, ma in realtà è mattina, sembra buio perché fuori piove ma__».
«Era tutto buio quando Ven è morto».
Axel si bloccò, le parole gli morirono in gola. Non aveva idea di cosa dirgli per consolarlo, perché si sentiva così male che il cuore era diventato un macigno, e la gola sembrava voler esplodere, come se avesse trattenuto per troppo tempo infinite parole non dette. Così fece la prima cosa che gli venne in mente: afferrò il suo braccio e se lo tirò contro, abbracciandolo in una posizione un po’ scomoda, ma aveva paura che se l’avesse lasciato andare via sarebbe scomparso, esattamente come si era spenta la fiammella di una candela in quel movimento. O magari sarebbe sparito lui stesso, non poteva saperlo. Roxas sembrò rilassarsi, e sciolse quella posizione penosa in cui si era costretto; gli strinse così le braccia attorno la vita, affondò il volto umido nel suo petto.
«Non vale la pena essere me» disse.
Axel gli lasciò un bacio accennato tra i capelli, che gli stavano solleticando il volto; non poté fare a meno di sorridere quando si rese conto che erano morbidi e profumati come aveva sempre immaginato, e si chiese quanto potesse essere stupido notare una cosa così in un momento come quello.
«Vale la pena essere te solo perché sei vivo» sussurrò, e quando Roxas alzò il viso per guardarlo negli occhi gli venne quasi da piangere, perché non c’era più niente di quello sguardo sempre vitreo e distaccato che l’aveva caratterizzato per un anno: adesso c’era la fragilità e la dolcezza che aveva sempre tentato di mascherare sotto le sopracciglia aggrottate per l’ironia. «Il primo giorno che vi ho conosciuti, ho pensato che fosse in possesso di qualche potere strano».
Il biondo accennò un sorriso divertito. «Perché?».
«Mi siete piaciuti subito, insomma, Ven è diventato il mio migliore amico, tu…» Roxas continuava a fissarlo, gli occhi lucidi che iniziavano finalmente a calmarsi, lo sguardo che si stava intensificando mentre intrecciava il suo.
«Ho sempre notato che mi guardavi» cominciò, allungando una mano sul suo volto, seguendo la linea dello zigomo; Axel si rese conto solo in quel momento quanto fossero vicini, e gli mancò il respiro. «Mi piaceva, perché non lo facevi allo stesso modo con cui guardavi lui».
Axel rise, e raggiunse la mano che ancora gli carezzava il volto. «Questo non potevo immaginarlo» osservò, e il volto di Roxas si colorò di rosso, se ne accorse anche se la luce delle candele s’era fatta ancora più flebile, e dal fatto che l’attimo dopo abbassò lo sguardo.
«Quando ho chiesto a tutti di chiamarmi Ven, tu continuavi a guardarmi allo stesso modo di prima… ti odio per questo, davvero».
«Ma tu non sei Ven. E quando tentavi di esserlo non eri neppure te stesso… è stato come se due delle persone che amavo di più fossero sparite assieme in un lampo».
Axel Baker non aveva mai creduto al Destino, mai che ad ogni singola persona fosse affidato un disegno più o meno complesso su cui basare l’intera propria esistenza, che ad ogni decisione ne seguisse un’altra che non avrebbe interferito nei binari costruiti dal Fato stesso. Non ci aveva mai creduto ma, realizzando che fuori il tornado sembrava spazzar via tutto, eppure lui cominciava a tremare e sentire il cuore battere all’impazzata per tutt’altro, si disse che qualcosa doveva pur esserci da qualche parte, perché affidare tutto al caso gli sembrava stupido.
Non era stato un caso che avesse trovato il coraggio di ammettere le proprie paure giusto pochi giorni prima, in contemporanea alla notizia di un tornado imminente. Non era un caso che si fosse girato a fissare la strada proprio quando Roxas probabilmente imprecava perché in casa non c’era nessuno, non era per caso che aveva deciso di portarlo a casa con sé.
Roxas sarebbe potuto andare dai vicini, dai nonni, da chiunque ma non da lui, eppure aveva deciso di seguirlo, perché per un anno intero non avevano fatto altro che aspettarsi, osservandosi da lontano con finto disinteresse senza avere il coraggio di muovere un solo dito.
L’assordante rombo di un tuono sembrò far tremare la casa, tuttavia furono solo le fiammelle a muoversi, non loro, le fronti che ormai si toccavano, i respiri più pesanti, quasi palpabili.
Roxas socchiuse gli occhi. «Vale la pena essere me solo per questo» sussurrò, ed afferrandogli la maglia tra le mani lo tirò più in basso, finché Axel non trovò la morbidezza delle sue labbra sulle proprie, ed il sapore salato delle lacrime che aveva inghiottito nella bocca.
Le carezzò ancora ed ancora con le proprie, stampandone nella mente ogni singolo millimetro, e lo strinse più forte tra le braccia, mentre Roxas gli allacciava le braccia attorno al collo e si inginocchiava a cavalcioni del suo bacino, lasciando che i petti aderissero, che le labbra si schiudessero e finalmente potessero rendere quel dolcissimo bacio più umido, intenso.
Fuori il tornado spazzava via tutto, non gli importava, anche se probabilmente un altro sarebbe arrivato tra altri dieci anni, e lui non aveva potuto guardare l’imponenza del vento e della pioggia, ma non gli importava. Perché la verità era che in quel momento, mentre Roxas l’aveva spinto a stendersi sul pavimento tirandoselo addosso, mentre si baciavano e le mani percorrevano febbrilmente i rispettivi corpi, sperava che tra dieci anni sarebbe stato come in quel momento, e così tra altri quindici, venti, cento anni.
Il vento e la pioggia battevano forte contro le finestre, la porta, gli alberi crollavano e tutto era nel caos, ma non importava. Perché alla luce tremula delle candele lì c’era armonia, anche se gli ansimi erano scoordinati e le parole confuse, anche se il cuore gli batteva all’impazzata quando lo baciava, e lo baciava e lo baciava ancora, mentre spingeva tra le sue gambe nude che gli stringevano possessivamente la vita, e gemevano assieme, il freddo del pavimento che si scioglieva contro il calore delle loro pelli sudate.
Non c’era pioggia, non c’era vento, non c’era buio, non c’era niente. Solo le loro anime che si ritrovavano, i loro corpi che godevano assieme.
Il rombo di un tuono coprì i loro gemiti più alti, e anche l’ultima fiammella si spense, la cera ormai completamente consumata, cancellando le figure delle loro ombre tremolanti sulla parete bianca dove fin’ora erano state proiettate.
Roxas lo abbracciò, stringendoselo contro il petto tremante, ed Axel gli lasciò un bacio sulla guancia bollente, incrociando i suoi occhi. Nonostante il buio, in quel momento era azzurri e luminosi come non li aveva mai visti, come non avrebbe mai immaginato di vederli.



Cloto;
che fila lo stame della vita, colei che ne è tessitrice.

 

Roxas Moore aveva sempre immaginato che il Destino fosse parte integrante della vita di un uomo.
Non era certo un progetto preciso, né una strada da percorrere seguendo corridoi con alte mura che sbarravano la vista a qualsiasi altra cosa ci fosse attorno, ma in ogni caso qualcosa di inevitabile: come un labirinto che, dopo mille strade intrecciate, ti porta in un unico enorme spiazzo, che avresti comunque raggiunto qualsiasi fosse stata la strada che avresti scelto. Immaginava continuasse così, dopo aver percorso e percorso tra chilometri di verdi siepi, dopo aver visto tanti spiazzi uno diverso dall’altro, finché non arrivava quello finale.
Per Ventus gli spiazzi non ne erano stati molti, per lui ne sarebbero stati sicuramente di più. Perché quel mattino di primavera, quando si era arreso e si era seduto sul gradino di casa sua aspettando che l’ultima fermata arrivasse più in fretta possibile, Axel Baker l’aveva preso per mano e l’aveva condotto allo spiazzo successivo, che non era l’ultimo.
Roxas Moore aveva sempre immaginato che il Destino fosse parte integrante della vita di un uomo, ma che non interferisse mai nelle scelte che ognuno si decideva a prendere. Eppure, quel giorno, la mano del Fato era stata quella di Axel, e lui non aveva potuto far altro che accettarla.
Non aveva idea di quanto lungo fosse il viaggio, né quanto articolato sarebbe stato il labirinto, ma era certo che da ora in poi parte del suo percorso non l’avrebbe fatto da solo, perché spesso i Destini di due persone non potevano fare altro che incontrarsi, fondersi, e diventarne uno solo.







 




... BUON AKUROKU DAY! *esplosione di coriandoli*
Allora, prima di tutto: questa storia è stato un mezzo parto. Non perché non sia stata facile da scrivere, anzi, ma diciamo che mi sono imbattuta in - per citare - "una serie di sfortunati eventi".
Prima di tutto, ho il medio della mano destra bloccato, perché l'ho sbattuto contro il mobile ieri sera ed è rimasto così, atrofizzato. Sempre ieri sera ho dovuto combattere contro una bambina odiosa che mi distraeva, contro zanzare che mi hanno punto sull'occhio, che si è gonfiato, quindi non vedevo. Word si bloccava, il file era quasi perduto, ho scritto parole come "sQuola" e ci sono stati dolori mestruali con conseguenti mestruazioni, e problemi con l'html.
Pensavo fosse la sfiga, ho pensato fosse una sfida perché "DAI ELLAH DIMOSTRA CHE L'AKUROKU VINCE CONTRO TUTTO", poi ho capito che era il Karma, perché qualche settimane fa ho avuto dubbi sul pairing, dubbi considerevoli.
Accetto la mia punizione divina e non fiato, me lo sono meritata <3
Ad ogni modo, spero che la storia sia piacevole, spero che non sia venuto fuori così schifosa, insomma, spero sia piaciuta, perché la mia avventura farebbe impallidire quel cazzone di Ulisse, tsk. Nabbo.
Ho finito qui, miei prodi moschettieri (?), fatemi sapere :3333

See ya!


 

   
 
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