Ma
il Paradiso è chiuso e sbarrato…
Dobbiamo
viaggiare intorno al mondo
Per
vedere se un uscio è rimasto aperto.
-
Heinrich Von Kleist, “Sul teatro di marionette”
Era una
sensazione strana, nuova. Nemmeno tu avresti potuto darle un nome,
definirla a parole,
nemmeno tu che la provavi in prima persona. Perché un
sentimento tanto forte e
tanto violento non si può costringere in un ammasso di
lettere. Stupidi segni
grafici che, messi insieme, formano un discorso più o meno
compiuto. Tutto
avrebbero potuto esprimere, ma non quell’emozione che ti
aveva travolta come un
fiume in piena. Non conoscevi parole adatte a questo scopo,
perché, forse, non
ce n’erano. Eri assolutamente passiva, incurante di come il
mondo cambiasse
intorno a te. Non t’importava più di niente ormai,
perché l’unica cosa di cui
ti fosse mai veramente importato ti era stata strappata via, senza
alcuna
pietà.
Quel
sentimento ti aveva travolta, corrodenti piano, da dentro. Ma tu non
reagivi,
da un po’ non lo facevi più. Perché,
piccola Ran? Be’, forse perché quella,
ormai, era l’unica emozione che riuscivi a provare.
•••
La tua
vita era ormai monotona e grigia. Il grigio non era un bel colore, non
ti era
mai piaciuto, così freddo e monotono. Ti eri sempre
impegnata perché la tua
vita fosse a colori, ricca di tante sfumature sconosciute. Avevi sempre
lottato
contro quel grigio, per impedire che colonizzasse le tue giornate.
Adesso non
era poi così importante che la tua vita fosse grigia o meno,
anche perché la
tua non era vita. E anche la Natura sembrava essersi adattata al tuo
umore: in
tutto l’anno non si era visto il minimo raggio di sole.
Giornate nuvolose e grigie.
Ogni
mattina evitavi di guardarti allo specchio, perché sapevi
benissimo cosa
avresti visto. I tuoi capelli avevano perso la loro consueta
lucentezza,
diventando ispidi e spenti. I tuoi occhi, contornati da profonde
occhiaie,
avevano assunto il colore di una nube temporalesca; la tua pelle era
spaventosamente pallida. Sembravi proprio un fantasma!
E come
tale ti muovevi: sgattaiolavi fra la folla, totalmente ignorata. Era
proprio in
quei momenti, quando eri circondata di gente che ti sentivi davvero
sola. Tutta
quella gente, che non aveva altri pensieri se non quello della spesa
che
avrebbero dovuto fare entro la serata, o i compiti di algebra, o
l’appuntamento
dall’estetista. Per te ormai era tutto così
insignificante, che a volte ridevi
per quanto la gente desse importanza a cose così futili. Non
sapevano cosa
significare perdere la cosa più importante della propria
vita. Non sapevano
niente.
•••
Una
piccola folla si stava velocemente radunando intorno alla gioielleria,
visi
curiosi e sguardi preoccupati.
Glielo
leggevi negli occhi: stava impazzendo dalla voglia di andare a vedere
che stava
succedendo.
“Shinichi...”
Ti
intrappolò nella morsa dei suoi occhi azzurri. Avrebbe
potuto chiederti
qualunque cosa in quel momento.
“Ran,
è il mio lavoro.”
“Lo
so, lo so bene. Ma preferirei che tu non andassi. Non voglio perderti
di
nuovo.”
Sorrise
tristemente mentre ti accarezzava una guancia. Avvicinò il
suo viso al tuo e le
fece scontrare le sue labbra con le tue nel bacio più dolce
che ti avesse mai
dato.
“Andrà
tutto bene, vedrai!” ti rassicurò, con quel suo
sorriso mozzafiato.
“Non
so, Shinichi. Ho un brutto presentimento...”
“Sta’
tranquilla.”
Ti
baciò ancora una volta, prima di sparire fra la folla.
E
tu lo seguisti, nonostante ti avesse detto
un’infinità di volte che non dovevi
farlo. Be’, se tu gli avessi dato retta, forse ti saresti
risparmiata lo
spettacolo.
Si
era voltato per guardarti negli occhi, c’era panico sul suo
viso. Poi il
proiettile che, inevitabile e letale, affondava nel suo petto,
all’altezza del
cuore. E Shinichi che cadeva, avvolto da una pozza scarlatta che aveva
corrotto
il marmo bianco del pavimento.
Tutto
quello che era successo dopo era una nube confusa: le sirene della
polizia e
dell’ambulanza, la corsa in ospedale e le domande
dell’ispettore. Poi, solo
lacrime.
•••
Nella
fotografia, lui sorrideva. L’avevi scelta
tu, era la tua preferita.
Eri andata a trovarlo, lo facevi tutti i giorni.
Ormai il custode ti salutava come fosse stato un tuo vecchio amico. Era
una
persona davvero amabile, ed era difficile capire come facesse a
lavorare in un
cimitero. Glielo avevi chiesto, una volta: ti aveva risposto che aveva
voluto
stare vicino a sua moglie, dopo che se n’era andata.
“E poi”, aveva aggiunto, “mi piace la
calma che
c’è qui.” E aveva sorriso.
Ormai conoscevi la strada a memoria. Attraversato
il corridoio centrale, si doveva svoltare a destra. La sua lapide si
trovava
sul lato sinistro, la terza dal basso. Era bianca, chiara, mentre le
altre
erano tutte di pietra grigia. Eri stata tu a volerla così:
volevi che almeno
qualcosa nella tua vita non fosse grigio. Il suo nome era scritto in
lettere
dorate. Shinichi Kudo. Era doloroso
leggerlo. Non lo avevi mai fatto. Svuotasti il vaso e cambiasti i
fiori. Peonie
bianche, come quelle che ti regalava sempre. Andava a comprarle ogni
volta,
sempre dal solito fioraio, prima di passare a prenderti.
Una lacrima ti solcò il viso. Una sola, non ti
concedevi mai di più.
Accarezzasti la pietra con la punta delle dita.
Era fredda, gelida. Come il suo viso.
“Sai, Shinichi? Non smetterò mai di ripeterti che
sei uno stupido. Tu e le tue manie da detective!”
Un’altra lacrima. Non ce ne doveva essere una
terza, per nessuna ragione.
“Ma Ran!”, sarebbe stata la sua risposta.
“Non
capisci cosa si prova quando metti alle strette un assassino, o riesci
a
trovare quel piccolo dettaglio che smonta un alibi di ferro.
E’...
meraviglioso!”
Lo sapevi così bene che quasi sentivi la sua voce
che ti rimbombava in testa.
“No, non lo so cosa si prova. E non sapevo
nemmeno quanto dolore possa sentire chi perde la persona che ama.
Adesso lo so,
lo so bene. Qui la vita va avanti, anche se tu non ci sei
più. E ci ho provato
anch’io ad andare avanti ma, a quanto pare, non ci
riesco.”
•••
Era una
giornata estremamente ventosa, e grigia,
come altre cento giornate prima di quella. Il vento ti scuoteva i
capelli, che
avevi spazzolato con cura la sera prima, dopo una doccia calda.
Sembrava che
avessero ripreso un po’ del loro antico vigore.
Per la prima volta dopo mesi, sorridevi. E non
era la solita smorfia malinconica e triste, ma un vero e proprio
sorriso di
sollievo. Finalmente, dopo chissà quanto, ti sentivi bene.
Ti sfilasti la maglia in fretta, per non prendere
troppo freddo, per indossare quella della squadra di calcio della
Teitan High
School, bianca e azzurra, quella del capitano, con il numero quattro.
Quella
che un tempo era appartenuta a Shinichi Kudo.
Ti stava un po’ grande, ma non aveva importanza.
Lì, sulla terrazza panoramica dell’hotel Beika,
eri sola. Ed era meraviglioso,
essere davvero soli. Nessuna pressione, nessun rimpianto.
Ti avvicinasti cautamente al bordo, con una calma
quasi aliena. Il tuo respiro regolare accompagnava ogni tuo passo.
“Non saranno le cascate di Reichenbach”,
mormorasti, mentre il tuo sorriso si allargava e le lacrime iniziavano
a
scendere sulle tue guance. “Ma non posso fare di meglio.
Perdonami.”
Allargasti le braccia e ti sbilanciasti in
avanti, lasciando che il tuo corpo fluttuasse nel vuoto. Ora non
c’era più
alcuna sofferenza, nessun dolore. Solo il vento che scuoteva quella
maglietta
troppo larga per il tuo corpicino esile e, sotto di te, il nulla.
Chiudesti gli occhi. Poi, ci fu solo il buio.