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Autore: AltheaM    19/08/2012    0 recensioni
Una leggenda celtica racconta che nel cuore dell'oceano sorga un'isola dove dimorano le anime dei morti, in una perenne primavera. Su di essa, uno solo calca le sue fruttifere terre recando il dono della vita...Colui che è destinato a tornare.
" Fin dove è pronto a spingersi il destino per te, Jim Hawkins? [...] E se Avalon non fosse solo una leggenda? Saresti pronto a seguirmi? "
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 2

Non è possibile


Il ventilatore roteava annoiato dall'alto del suo trono, sbuffando nella stanza un'impercettibile alito di vento, troppo appesantito dagli anni e dalla ruggine per poter potenziare la propria gittata d'aria. Le sue pale storte e mal ridotte annaspavano faticosamente in quella danza circolare, accompagnate nel loro moto dal cigolio acuto delle giunture sconnesse che si spargeva nel silenzio come la polvere soporifera di Morfeo, conciliando il sonno.
I primi raggi del nuovo giorno penetrarono nella stanza attraverso le tapparelle socchiuse, gettandosi sul legno chiaro del pavimento in un gioco di luci ed ombre, rincorrendosi a vicenda. L'aria trascinava con sé la dolce brezza marina; il suo odore salmastro scivolò delicatamente nella stanza, solleticandogli il naso, ma senza disturbare il sonno in cui era sprofondato.
Il lenzuolo scuro ricadeva quasi completamente sul pavimento, spiegazzato, lasciandogli nuda la schiena resa muscolosa dai pochi anni di accademia che si era concesso, che si sollevava vigorosamente al ritmo del suo respiro; una mano veniva fatta penzolare pesantemente dal bordo del materasso, una bandiera troppo rigida per poter sventolare con grazia. La fronte non ancora sfiorata dagli anni si corrugava al susseguirsi rapido dei sogni, rilassandosi di tanto in tanto per mostrare i lineamenti di un giovane cresciuto troppo in fretta, nascosti sbadatamente da un ciuffo ribelle color della terra che ricadeva al centro del viso.
Il suono del suo respiro riempiva i vuoti lasciati dallo scricchiolio del ventilatore, improvvisando una stonatissima e sgangherata orchestra, diretta dal ticchettio metallico di una sveglia vicina, nascosta sotto una maglia stropicciata.
Nella pace e nel silenzio di quel momento, in cui ogni preoccupazione era lontana, in cui il dormire assumeva un sapore dolce e piacevole come il miele, la voce di sua madre proruppe acuta, completamente scordata ed estranea all'armonia del suo sonno.
"Jim! Jim, svegliati! Ho bisogno di te!"
Un mugolio di fastidio gli sbuffò dalle labbra sottili, mentre tentava di sfuggire a quella voce penetrante ricacciando la testa sotto il morbido cucino, chiudendo gli occhi a forza nella speranza di non lasciarsi sfuggire i frammenti di quel sogno che già si stava scomponendo. Premette forte le mani sulle orecchie, per ricreare quell'atmosfera pacifica.
"Jim Hawkins!"
Nome e cognome. Bene, non era ancora totalmente arrabbiata, per esserlo veramente avrebbe dovuto dire, o meglio gridare…
"James Pleiadi Hawkins!"
…Anche il secondo nome. Andato. Il sogno a cui aveva tentato di riaggrapparsi era ormai definitivamente andato.
Si sollevò sui gomiti infastidito, massaggiandosi le tempie nel tentativo di far mente locale, mentre con calma socchiudeva gli occhi rossi per la stanchezza. Le iridi si accesero subito di un intenso turchino, sfiorate dalla delicatezza dell'alba, spiccando come due pietre preziose sul viso olivastro e glabro; la testa era un groviglio confusionario e i muscoli appesantiti dal sonno non ne volevano sapere di mettersi in moto. Si stiracchiò in un nuvolo di gemiti, tirandosi su a sedere e lasciando penzolare le gambe dal materasso, i piedi che sfioravano appena il pavimento. Si massaggiò la faccia intorpidita, abbandonandosi a sonori sbadigli che gli deformavano la mandibola, e cominciò a spaziare con lo sguardo, riconoscendo gli oggetti che affollavano la sua stanza.
Stropicciandosi gli occhi si alzò in piedi, mettendo in tensione la muscolatura della schiena, e deambulò alla ricerca dei suoi stivali.
"Jim!"
"Arrivo mamma!"
Rispose senza alcuna enfasi, la voce rauca che gli grattava la gola. Nella penombra, dove le pale del ventilatore si allungavano lungo le pareti creando un cadenzato movimento di luce, cominciò lentamente ad infilarsi una maglia sgualcita, che scivolò pigramente sul petto, sfiorandolo lentamente fino ai fianchi sottili, con una carezza trattenuta. Si trascinò davanti ad uno specchio, nell'intento di dare un ordine a quella fontana di ciuffi ribelli che ricadevano in ogni direzione, Con gli occhi ancora socchiusi, cominciò ad infilarsi le dita fra i capelli, domandoli.
Colpi alla porta. Forti. Disaccordi. Spazientito si diresse verso di essa con le labbra pronte ad esplodere in una polemica, quando la porta si aprì violentemente e un frastuono indicibile invase la stanza.
"Buongiorno Jim, mio piccolo amico umanoide! Sveglia, sveglia!”
Una raffica di parole lo investirono, stordendolo, rimbombando nella sua testa amplificata e rimbalzando rapidamente fra le pareti della camera. Con gli occhi, Jim seguiva i movimenti caotici e goffi del robot che aveva appena fatto il suo rumoroso ingresso nella camera, gesticolando come un ossesso e mettendo mano su qualsiasi cosa gli capitasse a tiro in un trionfo di cigolii metallici, mentre dalla bocca larga uscivano una cascata di parole, discorsi, privi di qualsiasi nesso logico, che si susseguivano rapidi senza dare alla mente il tempo di registrare o, comunque, crearsi un "filo" da seguire.
"Ben…"
Lo chiamò, cercando di intrufolarsi in quel monologo metallico, ma senza alcun successo. Il robot si aggirava noncurante, sollevando e mettendo in disordine cose, sedendosi e poi rialzandosi dal suo letto, muovendosi come una vera e propria pallina impazzita.
"Jim amico mio, lasciati dire che questa stanza non è di certo un tripudio di eleganza, e con questo non voglio dire che tu non sia elegante, solo la tua stanza…Non lo è. Ripensandoci poi, ha un non-so-che tipico della casa in cui ho vissuto…Sai quando ci siamo conosciuti? Ah, bei tempi…"
"Ben!"
Insistette lui, arrestandosi davanti a lui nel tentativo di mettere fine a quel viaggio logorroico privo di una conclusione. Il robot si fermò, sorridendogli amichevolmente, ammirandolo con quegli occhi smeraldini pieni di una certa tenerezza. Jim non poté non sorridere alla stranezza della sua espressione, appoggiandogli amichevolmente una mano sulla spalla metallica color bronzo e guardandolo con uno sguardo complice. Non si era mai pentito di averlo lasciato vivere nella locanda di sua madre, nonostante alcune mattine le sue irruzioni improvvise e caotiche accendessero in lui il desiderio di cercare qualsiasi circuito lo facesse parlare e strapparlo con forza.
"Dai Ben, andiamocene di sotto!"
Lo incoraggiò, quasi spingendolo via dalla sua camera per paura che, lasciato solo lì dentro, avrebbe potuto avere l'effetto di un tornado di passaggio. Fortunatamente Ben era il tipo di robot in grado di registrare una sola cosa per volta, cosicché bastava poco per distrarlo, facendogli completamente dimenticare quello che stava dicendo o facendo pochi secondi prima.
"Ah! La povera Sarah! E' una mattina intera che urla dicendo 'Jim, Jim, James…' e qualcos'altro, non ho ascoltato bene…Suppongo voglia vederti."
Jim abbozzò un sorrisetto alle parole dell'amico, cominciando a scendere la piccola rampa di scale che lo avrebbe introdotto nel grande salone, ancora vuoto di clienti. Si chiese che ore fossero…Doveva essere estremamente presto se quel luogo non brulicava ancora di bambini isterici e individui dalla dubbia personalità, del suono tintinnante delle posate che sfioravano i piatti e del tremendo risucchio della broda che alcuni visitatori simpaticamente si concedevano. Cercò con lo sguardo la porta che dava in cucina, sicuro di trovare sua madre affaccendata come sempre. Si affacciò un tantino, inondato dal vapore delle pentole che già sbuffavano i loro intensi aromi, ribollendo rumorosamente sotto i coperchi luccicanti, appena appannati da uno strato di vapore. Riconobbe un paio di occhi gemelli che vagavano senza sosta tra gli scaffali ricolmi di ingredienti, mentre dalle labbra sottili e socchiuse rantolavano parole borbottate sottovoce, incomprensibili.
"Mamma…"
"Jim! Quante volte devo chiamarti prima che tu ti svegli? Ho assoluto bisogno di te!"
Esplose la mamma, interrompendolo, con una cadenza polemica, mista ad una melodrammatica disperazione. Jim si appoggiò allo stipite della porta, sorridendo ai movimenti goffi con cui Sarah si muoveva in cucina. Più passava il tempo, più si convinceva che sua madre stesse assumendo il modo di fare caotico di Ben…Di sicuro non erano una coppia ben assortita.
"Devi assolutamente andare al mercato e comprarmi delle cose!"
"Cosa? Al mercato? Ma scusa, non ci sei andata proprio ieri?"
"E mi sono dimenticata delle cose, James."
Tagliò corto la madre, occhieggiandolo spazientita. I fumi di tutto quel cibo la irritavano molto, amplificando il suo solito tono già estremamente nevrotico. Jim la guardò, tentando di dissuaderla con lo sguardo…Il mercato? Non ci sarebbe andato neanche morto!
"Smettila di guardarmi così, non hai altra scelta…O meglio, ce l'avresti se accettassi di rimanere qui mentre io vado a comprare le cose che mi servono.."
Lo rimbeccò allusiva, assumendo quel sorriso compiaciuto e già vittorioso che Jim aveva inequivocabilmente ereditato da lei. Cercò di sostenere il suo sguardo, ma sapeva già che avrebbe perso…
"Ma sì, andremo io e il mio amico Jim! Il mercato, quanti ricordi…Aspetta, no, in effetti non ho molti ricordi…Anzi per niente! Non penso di esserci mai stato.."
Intervenne Ben, sprofondando in un dubbioso monologo con se stesso, mentre Jim si vedeva rifilare la lista fra le mani.
"Mi raccomando, non metterci troppo!"
Gli sorrise la madre, dandogli dei colpetti sulla spalla, prima di tornare alle sue faccende. Jim guardò torvo la sua schiena per qualche secondo, stropicciando la lista fra le dita, mentre Ben al suo fianco, si era improvvisamente esagitato all'idea di andare a fare compere al mercato.
"Rimanere lì a fissarmi con quegli occhi arrabbiati non ti aiuterà con la spesa.."
Lo derise Sarah, abbandonandosi ad un sorrisetto nascosto.
"Andiamo."
Si limitò a dire, dandole le spalle.
 
Il mercato di Montressor era un tripudio di grida, odori e creature di ogni sorta. Per un viandante appiedato non sarebbe stato affatto difficile rintracciarlo, dato che gli effluvi di quel luogo erano percettibili a chilometri di distanza, una scia densa e inconfondibile che portava dritto nel cuore di quel nevralgico formicaio. Le urla dei mercanti si accalcavano le une sulle altre, dando vita ad un insopportabile brusio in cui si alternavano tonalità diverse, cadenzando il tempo ad un ritmo sconnesso, disordinato. Le orecchie, una volta messo piede in quel luogo, venivano bersagliate da una cascata di offerte, prezzi, e gli occhi erano sferzati da una vivida esultanza di colori, così velocemente da intontire ogni senso; il compratore veniva così assalito da un senso di stordimento, cominciando ad aggirarsi smarrito fra quelle cornucopie traboccanti, facile e assai vulnerabile preda agli occhi avidi e privi di scrupoli dei mercanti adocchianti.
Ma Jim non era completamente estraneo a quel labirinto apparentemente privo di una via di fuga.
Sapeva bene come dileguarsi nel caso in cui qualcuno si fosse reso conto del tintinnio nelle sue tasche.
Strinse nella mano la lista di sua madre, dicendosi che sicuramente non gli sarebbe servita, dal momento che si era sforzato di imparare tutti gli oggetti che vi erano stati appuntati durante il tragitto. Si mostrava tranquillo, spavaldo, simile alla persona che era avvezza a girare fra questi luoghi di perdizione, sollevando di tanto in tanto le spalle, lasciando che gli occhi scivolassero da un banco all’altro, senza soffermarvisi troppo, convinto che in questo modo non avrebbe attirato sgradite attenzioni su di sè.
Aveva un piano. Semplice, Diretto. Non lasciarsi intralciare e concludere il prima possibile quella sgradita attività domestica.
Ma Ben non sembrava del suo stesso parere.
“Jim! Jim! Jim!”
La voce metallica del robot esplose al suo fianco non appena incrociarono il primo banco, mentre il ragazzo si sentiva afferrare per la manica della maglia con un’eccitazione tale da non premettere niente di buono. Ben cominciò ad indicare ossessivamente una serie di oggetti luccicanti che avevano attirato la sua attenzione, avanzando con occhi fissi su di essi.
“Ben! Ben lascia perdere!”
Gli sussurrò lui, mentre tentava di liberarsi da quella stretta ferrea, assicurandosi di non aver attirato l’attenzione del venditore. Il robot sembrava, però, essere diventato improvvisamente sordo.
“Ben! Dobbiamo andare!”
Lo sgridò, dimenando il braccio. Gli occhi smeraldini di Ben parevano essersi fatti ancora più grandi, quasi volessero divorare in un colpo solo gli oggetti in esposizione.
“Ben, per la miseria!”
Pronunciò a denti stretti, sentendosi tirare verso il banco con una forza tale da urtarlo. Il mercante rivolse subito lo sguardo accigliato su di lui. Il viso, imbardato di orribili sacche di grasso impietosamente accumulate su ogni lineamento, tanto da renderlo deforme, era tinto di un malsano colorito verdastro, su cui spiccavano due occhi porcini scuri, tenebrosi, che riverberavano una strana scintilla. Jim abbozzò un mezzo sorriso, inarcando con sforzo un anglo della bocca, mentre con gli occhi tornava a cercare il volto bronzeo dell’amico, scomparso.
“Ti interessa la mia mercanzia?”
Ruttò il mercante con una voce ruvida, grassa, che rispecchiava appieno la sua figura cadente e rotonda, avvolta in luridi stracci a righe di cui si era ormai persa ogni traccia di colore.
Jim tornò a fissare il venditore torvo, che aveva ora incrociato le pelose braccia sul petto villoso, piegando in avanti la testa in modo da assumere un’espressione più rabbiosa e gonfiano quelli che forse lui riteneva essere dei pettorali, ma che in realtà avevano più l’aspetto di un seno cadente,
Nella sua testa maledì la sconfinata capacità di Ben di combinare guai, mentre tentava di assumere un’espressione rilassata e disinvolta, reprimendo una smorfia di disgusto che quell’uomo aveva inevitabilmente strappato al suo volto.
Si mise le mani in tasca, alzando le spalle, limitandosi a scuotere la testa con troppo vigore, prima di disperdersi nella fiumana di persone alle sue spalle,  
“Ben!”
Urlò non appena si trovò lontano dagli occhi del mercante, cercando preoccupato l’amico. Volti sconosciuti si susseguivano davanti al suo sguardo, ingombrandolo, rendendo impossibile distinguere la siluette minuta del robot.
“Ben!”
Gridò più forte, convincendosi che le cose non sarebbero andate come si era ripromesso.
 
Lo trovò incollato ad un banco su cui erano esposte strane creature esanimi, con un braccio penzolante lungo il fianco, mentre l’altro sfregava ossessivamente il mento piatto. Jim si avvicinò con espressione esasperata, convinto a strapparlo da qualsiasi idea gli fosse balenata fra i circuiti.
“Ben! Non sai quanto ti ho cercato!”
Lo rimproverò, dandogli una leggera spinta sulla spalla e assumendo un tono sbadatamente polemico. Il robot non lo degnò di uno sguardo, preso com’era nell’esaminare quello che sembrava essere un polpo su cui troneggiava un terzo occhio, lucido come uno specchio.
“Ben!”
Lo riprese di nuovo, afferrandolo questa volta per il braccio meccanico, scuotendolo per evitare di trascinarlo. Ben ruotò gli occhi su di lui con fare annoiato, quasi si stesse chiedendo perché ci avesse messo tanto. Jim si trattenne.
“Andiamo! Siamo qui da mezz’ora e non abbiamo comprato ancora nulla.”
Gli diede le spalle, sperando che il robot l’avrebbe seguito. Il cigolio inconfondibile delle ginocchia bronzee si unì ai suoi passi, confermando che anche stavolta era riuscito a strappare Ben dall’ennesima distrazione. Ma sapeva che sarebbe stato solo per breve tempo, la sua curiosità innata ci metteva ben poco a risvegliarsi…Dovevano sbrigarsi.
Faticò a trovare tutte le cose richieste da sua madre. Le continue interruzioni di Ben e la difficoltà nel trattare i prezzi con i venditori gli avevano fatto impiegare più del tempo previsto. Contro i suoi pronostici, si trovò costretto a ricorrere alla lista in più di un’occasione, depennando ogni volta le merci acquistate per evitare di confondersi; provava un certo senso di imbarazzo nel doversi aggirare fra quei banchi con il foglietto parato, a mo’ di distintivo, davanti al viso, lasciando che fosse questo ad annunciarlo di volta in volta ai mercanti.
Si disse che questa sarebbe stata l’ultima volta. L’ultima. Non sarebbe più andato a fare compere per conto di sua madre. E mentre si avvicinava all’ultimo banco, con le mani già ingombre di sacchi di carta traboccanti, i suoi occhi scorsero qualcosa di inaspettato.
Si fermò di colpo, tornando a guardare con più attenzione, per convincersi che quella che aveva visto…Era veramente una mano! Strizzò gli occhi, corrugando la fronte, mentre il suo viso si tinteggiava di una vivida curiosità. Strinse di più i sacchi con le braccia, per evitare che gli cadessero, senza però distogliere l’attenzione da quell’insolita visione.
Una mano. Bianca. Una mano bianca che spuntava da un vicolo. Aggrottò di più le ciglia. Si disse che forse era solo un ubriacone che la sera prima aveva esagerato con l’alcool e che si era lasciato cadere ovunque si trovasse, colto dall’improvvisa stanchezza. Cosa ci sarebbe stato di strano? Di sicuro, quella era una scena che si era vista più di una volta, e dunque era insensato che lui perdesse tempo a guardare e ad immaginarsi storie. Fece per andarsene, ma il suo istinto lo tenne immobile, ancorato con i piedi in quel punto preciso.
Una mano canuta dalle dita sottili, rese eleganti da un accenno di unghie inspiegabilmente sporche di terra, faceva capolino da un vicolo. L’idea solleticava irresistibilmente la sua curiosità.
Assorto com’era in quella che per lui era un’insolita visione, non si accorse che Ben, interessato dall’attenzione con cui Jim stava fissando il vuoto, gli si era fatto più vicino, cercando di capire dove puntassero quegli occhi turchini. Poi la vide.
“Emh…Quella è una mano?”
Proruppe il robot, quasi facendolo trasalire. Jim annuì sbadatamente, scrollando le spalle deciso a dirigersi verso l’ultimo banco. Ancora una volta, Ben non era d’accordo. Lo vide partire con una certa decisione verso il vicolo, lasciando ciondolare ad ogni passo quelle spalle scheletriche, al ritmo di una canzone che si canticchiava nella testa.
“Ben! Dove stai andando?”
Aveva perso il conto ormai di quante volte avesse pronunciato il suo nome quel giorno. Strinse istintivamente le mani attorno alle buste, sbattendo un piede a terra nell’intento di attirare la sua attenzione.
“Ben, torna qui!”
Gli intimò a denti stretti, per non urlare. Ma Ben si lasciava guidare dalla sua curiosità verso quel vicolo, facendosi sempre più vicino, sempre più smanioso di rivelare qualsiasi essere si nascondesse dietro quello spicchio di mattoni.
“Ben!”
Senza accorgersene, Jim cominciò a seguirlo, mentre il robot voltava l’angolo di quel vicolo. Allora cominciò a correre, preso da una strana paura mista ad ansia. Lo raggiunse. Si fermò di colpo. Le buste minacciarono di cadergli dalle mani, ma la sua presa sicura fu abbastanza repentina da afferrarle in tempo. Gli occhi non riuscivano a staccarsi dalla visione che lo investì.
“Ma….E’…”
“Una ragazza”
Terminò la frase Ben, con tono che tentava di scimmiottare quello di un ispettore. Si portò le dita affusolate alla bocca larga, fingendo di esaminare il corpo fanciullesco che se ne stava supino in una pozza d’acqua, fradicio. Jim lo osservava estasiato, quasi ci fosse qualcosa di indicibilmente magico e appagante in quel profilo di porcellana nascosto da una cascata di ciocche fulve umide. Si riscosse.
“Avanti Ben, andiamo”
Gli disse, tentando di dare le spalle a quel volto candido difficile da scorgere. Ben lo fissò dubbioso. Poi, senza preavviso si piegò e raccolse la ragazza, non senza una certa fatica. La veste logora aderiva completamente a quel corpo minuto, la pelle resa quasi grigiastra per il freddo che aveva dovuto patire. Jim lo fissò sbarrando gli occhi.
“Pronto!”
Squillò Ben sorridente.
“Che stai facendo? Non possiamo portarla con noi!”
“Perché no? Stava qui per terra, non è di nessuno…”
Rispose prontamente il robot, sollevando le spalle, aggrottando la fronte meccanica e fissando gli occhi sull’amico preso da inspiegabili ansie.
“Rimettila dov’era…Non sappiamo nemmeno chi sia!”
Ribatté il ragazzo, cercano di far appello al buon senso di Ben.
“Una ragazza bagnata svenuta dietro un vicolo.”
Jim sentì cadergli le braccia per l’ovvietà di quell’osservazione. Possibile che non capiva?
“Avanti Ben…Insomma…Non puoi andartene in giro a raccogliere ragazze sconosciute nei vicoli!”
Replicò, indicando il corpo esanime che teneva fra le braccia. Ben lo guardò senza capire l’agitazione dell’amico. Poi improvvisamente sollevò le spalle, convinto.
“D’accordo la rimetto apposto!”
Cinguettò, adagiando il corpo a terra. Non appena ebbe sfilato la mano da sotto la spalla della ragazza, un tintinnio curioso riempì il silenzio del vicolo, subito seguito da uno scintillio insolito. Gli occhi di Jim e Ben rotearono all’unisono dietro i movimenti dell’oggetto che sembrava essere scivolato dal corpo della giovane, rimanendo immobili finchè il rumore non tacque.
“Cos’è?”
Chiese Jim, avvicinandosi incuriosito.
“Un medaglione.”
Rispose pronto Ben, rivolgendo subito gli occhi sgranati verso la ragazza.
“Dici che se la scuoto ancora un po’ riusciamo a scoprire qualcos’altro?”
Propose Ben ammiccando, ironizzando un po’.
Ignorandolo, Jim raccolse l’oggetto che era vorticato a qualche passo da loro; lo guardò con curiosità, rigirandolo fra le dita, ispezionando ogni curva che incideva il metallo…Poi un lampo si accese sul suo volto. Si voltò verso la ragazza immobile, così pallida da sembrare morta. Non è possibile. Si disse, aggrottando la fronte, mentre con gli occhi squadrava quel viso nascosto da ciocche arruffate e scombinate, nel tentativo di leggervi qualcosa. Non è possibile.

  
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