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Autore: Noth    21/08/2012    6 recensioni
(Lo sai, delle rondini?)
« Hai perso il lavoro? »
« In realtà non lo ho mai avuto. » sorrisi. « I miei mi hanno ripudiato. »
L’uomo fece saettare le sopracciglia fino alla parte più alta della sua fronte spaziosa e sbattè più volte le palpebre.
« Dovevi essere proprio un figlio terribile. » commentò, ridacchiando tra sé per la battuta appena fatta.
Sorrisi di rimando, appoggiando la custodia per terra e sedendomi al bancone, sentendo i jeans bagnati squittire a contatto con la pelle dei sedili.
« Solo un po’ troppo gay per loro. » alzai le spalle.
Il barista mi imitò e passò uno straccio sul bancone coperto di briciole.
« Ah, ragazzo, certa gente non sa capire l’amore. » disse.
Genere: Angst, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel | Coppie: Blaine/Kurt
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Do you know about swallows?
- Capitolo 12-









Mi ero alzato, avevo fatto cenno a Kurt di imitarmi ed eravamo corsi via. Non sapevo che stesse succedendo, ma il colore del cielo non era normale. Non lo avevo mai visto così, mai, e sapevo riconoscere le varie sfumature delle nuvole da pioggia, da grandine o semplicemente volte alla copertura del sole. Le avevo avute come unico tetto sopra la testa per diverso tempo, e quelle non erano nessuna delle sopraelencate.

Era qualcosa di più grosso, qualcosa di più potente.

Qualcosa che, ignorando quasi completamente la televisione negli ultimi tempi, non avevamo sentito arrivare.

Trascinai Kurt in metropolitana – sperando di riuscire ad arrivare al bar in tempo e nonostante lui continuasse a guardare il cielo scuro e il vento che vorticava al suolo sibilando e trascinando carte e cartine – e mi morsi l’interno della guancia per tutto il tragitto, sperando di essermi agitato tanto per nulla, ma, allo stesso tempo, sapendo di averne tutte le ragioni.

« Qualcosa non va. » esalò infine Kurt. Mi guardava con un viso serio che affilava i suoi lineamenti, e schiariva il colore dei suoi occhi in un modo che mi faceva paura.
Prima dell’avvento di quel cielo, le sue iridi non avevano mai assunto quel colore grigio tempesta.

Respirai a fondo e sperai che la metro fosse veloce come il vento. Non vi era molta gente, a parte per quella che si affannava a entrare, conscia del disastro atmosferico che era ovvio si stesse avvicinando e stesse per qualche motivo per abbattersi sulla città. La nostra fermata arrivò e scappammo fuori di filata, senza avere visto come all’esterno la situazione non fosse affatto migliorata. Quando sbucammo dalle scale che portavano di nuovo al piano terra della città, il cielo si era concentrato in vortici che non davano affatto l’idea di qualcosa di rassicurante. Il vento si era alzato, ed era talmente forte da far sventolare violentemente i vestiti di Kurt ed i miei, mentre camminavamo più veloci della luce verso il locale, ma non correndo, come a non accettare l’idea che ci fosse da scappare. Però da scappare c’era eccome.

Entrammo con le chiavi di Kurt nel locale chiuso, serrandoci la porta alle spalle e, finalmente al riparo da occhi indiscreti, ci affannammo al piano superiore, dove Burt non c’era, forse ancora fuori a passeggiare. Mi preoccupai all’istante per il fatto che non fosse ancora lì con noi. Kurt afferrò il telecomando e, per la prima volta da una settimana o giù di lì, accese la televisione sul canale delle notizie. Un uomo con i capelli brizzolati e degli occhiali rotondi stava parlando lentamente, chiaramente, come a cercare di fare capire a tutti le importanti informazioni che stava ripetendo.

« L’uragano Evanna si sta pericolosamente addensando sui cieli della Grande Mela. Entro mezz’ora già potremo vedere la sua furia distruttiva. Per chi ancora non si fosse recato nei vari rifugi disseminati per la città, consigliamo di affrettarsi. » l’immagine cambiò in una mappa puntellata con pallini rossi sui quali era scritto il nome dei rifugi. Tentai di convincere il cervello a collaborare e cercai il più vicino al locale. « Come ripetiamo ancora una volta, i preparativi per questo evento atmosferico sono avvenuti in incredibile ritardo a causa delle previsioni errate che dicevano che l’uragano non si sarebbe avvicinato alle coste New Yorkesi. Tuttavia, Evanna ha cambiato rotta e, da una settimana a questa parte, si è diretta verso la città ed ora manca sempre meno al suo impatto. Vi preghiamo di prendere quanto possibile e correre ai rifugi, così da rimanere protetti e uniti finchè il disastro non sarà terminato. »

L’uomo continuava a ripetere le stesse informazioni all’infinito, ed il nostro tempo diminuiva. Perché non avevamo acceso la televisione per tutta quella settimana?
Proprio quando non la avevamo guardata e non avevamo avuto tempo né voglia di leggere i giornali, ci eravamo trovati nella spiacevole sensazione di essere tagliati fuori dal mondo. Mi presi a schiaffi mentalmente e cercai di riprendermi dal torpore di terrore nel quale ero caduto. Mi mossi e scoprii che, dopo aver fatto il primo passo, gli altri venivano in fila. Afferrai la mia chitarra, l’unica cosa che potevo pensare di portarmi via.

Kurt, invece, non si muoveva. Osservava lo schermo con la piantina che pulsava di puntini rossi, e non osava cambiare posizione. Quasi mi chiesi se respirasse.

Feci un rapido giro nella nostra stanza, dove ancora c’era la brandina aperta nonostante non la avessi mai utilizzata perché Kurt aveva sempre insistito che fosse
infintamente scomoda e che, finchè non invadevo i suoi spazi durante la notte, potevo dormire accanto a lui.

Sperai con tutto il cuore che l’uragano non spazzasse via tutto quello.

Corsi di nuovo in soggiorno, dove Kurt restava immobile, e mi resi conto che quella era casa sua, lui non aveva solo una camera, aveva tutto lì, e suo padre non era
effettivamente ancora rientrato. Sospirai esasperato e lo presi per una spalla, scuotendolo. Lui non si mosse, forse lo shock doveva essere stato più forte di quanto non
avessi creduto.

« Kurt, Kurt dobbiamo andare via. » gli dissi, continuando a scuoterlo, e lui sbattè le palpebre velocemente, come se si fosse addormentato per qualche secondo.

Non mi rispose, si guardò semplicemente attorno e mormorò una parola a volume così basso che mi stupii di averla sentita.

« Papà. » ecco qual era il suo problema. Il legame familiare per lui era stato il primo pensiero, e questo, come al solito, era stato uno dei tanti motivi per il quale
eravamo immensamente diversi. Strinsi le labbra in una stretta violenta ed espirai dal naso, per evitare di pensare alla mia di famiglia, e spinsi Kurt verso la sua
camera finchè non iniziò a dirigervisi da solo. Tornò stringendo una borsa ventiquattrore che, sapevo benissimo, conteneva i suoi spartiti e tutta la documentazione
per tentare ancora una volta il suo ingresso alla NYADA. Prese infine una foto appesa sopra la televisione che ritraeva lui, suo padre e sua madre – della quale non
aveva mai voluto parlarmi ed io non avevo mai chiesto – quando lui era ancora piccolo. La ficcò nella borsa e tirò fuori il cellulare, componendo quello che
probabilmente era il numero di suo padre, e portandosi il display all’orecchio. Sentivo il suono ripetitivo dell’attesa prodotto dal piccolo altoparlante e non riuscivo a
non sentirmi in ansia per Burt. Mi schioccavo le nocche per l’agitazione.

Kurt si mordeva il labbro a ripetizione, e dal ricevitore non arrivava nessuna risposta.

Abbassò il telefono, frustrato.

« Con questo caos non riuscirà a sentire la suoneria. » azzardai, prendendolo per il polso e trascinandolo fuori dall’appartamento e giù per le scale con il viso di un
colore tendente al grigio, come i suoi occhi.

Kurt annuì, poco convinto, e si infilò violentemente il cellulare in tasca.

« A che gli serve un telefono se non risponde in momenti come questi? Cristo, sembra che quell’uomo sia programmato per sparire al momento meno opportuno. »
gridò, esasperato. Lo continuai a trascinare fuori, non chiuse nemmeno a chiave, perché se suo padre fosse rientrato almeno non avrebbe dovuto perdere tempo a
lottare con la serratura. Una volta giù cercai di capire quale fosse la strada più breve per raggiungere il rifugio più vicino.

Kurt prese in mano la situazione ed iniziò lui a tirarmi questa volta, sbuffando e cercando di non pensarci.

« Magari è già andato in un rifugio. » ipotizzai, e Kurt scosse violentemente la testa.

« No, la foto di me, lui e mamma era ancora lì. Ho dovuto prenderla io. Lui non l’avrebbe mai lasciata. » spiegò, con tono duro, e non aprì bocca per il resto della
nostra corsa, mentre il cielo si faceva nero e gli alberi si piegavano sempre più violentemente.

La strada ci sfrecciava accanto come fossimo dei fantasmi, e chissà, magari lo eravamo sul serio. La natura stava per abbattersi sulla città, sull’uomo, come sempre
faceva. Monito costante della sua presenza. Vedevo nei tratti tesi di Kurt una preoccupazione che lo prendeva sempre quando si trattava di suo padre. Non riusciva a
parlare ed era come se la sua anima benigna venisse improvvisamente oscurata da una nuvola.

Diventava un po’ come me quando si finiva a parlare della mia famiglia, ed era strano, perché una volta avrei detto che non avremmo potuto essere più diversi, ma
forse non era completamente vero.

Nell’aria cominciava a vibrare quell’elettricità statica tipica delle tempeste, ed iniziava ad asciugarmisi la saliva e a seccarmisi la bocca. Avevo paura. La natura era
quell’unica forza incontrastabile che era in grado di spazzare via centinaia di vite e luoghi che si erano creati con enormi quantità di tempo, fatica ed amore. Ed il tutto
in un battito di ciglia.

Il rumore della catastrofe rimbombò sopra di noi, ed accelerammo il passo della corsa per raggiungere il rifugio il più presto possibile. Raggiungemmo il parco
designato, e trovammo un’immensa folla raggrumata attorno alle altalene, senza comprenderne il motivo. Pensai di chiedere a Kurt cosa stesse succedendo – data la
mia ignoranza praticamente in ogni campo riguardasse quella città nonostante vi fossi cresciuto – ma poi vidi il suo viso che impallidiva, e capii che stava sondando la
folla alla ricerca di suo padre.

« Magari è in un altro rifugio. Può aver visto il servizio giorni fa, ed essere stato preparato, magari ha passeggiato per andare a… uno dei rifugi più lontani. »

Kurt scosse la testa, sospirando e mettendosi in fila con gli altri, sempre tenendomi per il polso e trascinandomi con lui.

« E’ un comportamento abbastanza irresponsabile da essere da lui, ma allo stesso tempo non mi farebbe mai preoccupare così tanto. E poi ci avrebbe avvisato della
catastrofe. E c’è la questione della foto.» spiegò, alzandosi in punta di piedi per scorgere l’entrata ai bunker sotterranei che avrebbero trattenuto la popolazione di quei
quartieri. Si trovava sotto il pavimento di legno delle altalene. L’intera impalcatura dei due dondoli era stata scoperchiata per liberare le aperture e le lunghe scale che
scendevano giù fino al vero e proprio corridoio di bunker sotterranei.

« Mh. » risposi, dopo un po’, raggiungendo l’entrata delle scale che scendevano, illuminate vagamente da delle lampade a neon. Attorno a me le persone parlavano,
gridavano, spingevano, tutto per riuscire ad entrare nelle cabine che avrebbero dovuto garantire la nostra salvezza. Un uragano a New York significava la perdita di
milioni di vite e di costruzioni, se non intercettato in tempo da far correre la popolazione ai rifugi. Questo me lo aveva ripetuto più volte mio padre, forse perché suo
nonno era morto in un uragano e lui non si era più ripreso. Ricordavo che i suoi occhi grigi diventavano improvvisamente ancora più spenti quando ne parlava.
Proprio per questo in famiglia avevamo sempre educatamente evitato l’argomento.

Il cielo sopra di noi era oramai nero, del colore degli occhi di mia madre, e per qualche secondo mi domandai dove fossero loro, se si stessero salvando o se sapessero
dell’uragano imminente.

Mi risposi da solo che probabilmente si trovavano in prima fila, incuranti degli altri, parte di una casta sociale troppo alta per venire messi ad aspettare il turno come
tutti. Il mio stomaco si attorcigliò dolorosamente a quel pensiero, all’idea dell’egoismo in cui ero cresciuto. Perché io non ero come loro?

« Signore, » mi chiamò un poliziotto adibito al mantenimento dell’ordine. « non può portare la chitarra, occupa spazio. »

Cercò di prendermi Ellie, ma la strattonai, sottraendola alla sua presa.

« Io senza di lei non mi muovo, quindi le conviene farmi passare se non vuole che io resti bloccato qui e che tutti noi finiamo in bocca all’uragano. » risposi, con tono
duro. L’uomo sospirò esasperato, e guardò il cielo scuro.

Una spinta poco gentile sulle mie spalle mi fece capire che la folla aveva già scelto per il poliziotto e, lanciando un’occhiata irata dietro di me, mi affrettai a seguire
Kurt giù per le scale di acciaio che percorrevano il tunnel di discesa. Questo era isolato da cemento armato sui bordi e quindi non puzzava di terra come avevo pensato
all’inizio, bensì sapeva di vernice.

Ancora peggio.

Sotto e sopra di me riecheggiavano voci sconosciute che gridavano nomi e strillavano alla gente di muoversi. Probabilmente i poliziotti che controllavano le entrate
stavano iniziando a spazientirsi e a diventare nervosi per quanto il cielo stesse assumendo una tonalità più simile alla pece che a quella che avrebbe dovuto avere il
cielo. Mano a mano che scendevo perdevo la vista di tutto ciò che mi si trovava sopra essendo seguito a ruota da un uomo, di corporatura non esattamente minuta,
che bestemmiava a ruota per la paura e mi gridava di muovermi più o meno ogni due scalini. Non era colpa mia se scendere con la custodia della chitarra in spalla non
era esattamente la più facile delle imprese.

Kurt arrivò a terra prima di me e, non appena raggiunsi la fine delle scale, mi aiutò a sfilarmi dal tunnel. Il corridoio dove eravamo atterrati era un cunicolo grigio,
costantemente illuminato da quei neon accecanti posizionati a una decina di metri di distanza l’uno dall’altro. Appena ci voltammo ad osservare l’ambiente vedemmo
che era puntellato di rettangoli dove avrebbero dovuto essere infilate delle porte su dei cardini, ma che erano rimasti vuoti come buchi di un groviera geometrico.
Dentro ad ogni porta doveva esserci una stanza dove ulteriori poliziotti, incaricati di organizzare il tutto, spingevano ed ammassavano le persone come bestiame,
rassicurando donne e uomini del loro essere al sicuro, e rispondendo con decisione ad ogni domanda loro posta.

Qualcuno ci picchiettò sulla spalla e ci voltammo in contemporanea, Kurt ancora con quel colorito bianco sul volto.

Dietro di noi una poliziotta con una cartella ci guardava con aria preoccupata.

« Nome e cognome di entrambi, per favore. » disse, le mani che tremavano, forse per la paura, e provai pena per lei in quel momento, costretta a lavorare, e magari
madre di una famiglia. Sicuramente era preoccupata per i suoi figli, o suo marito. O per se stessa.

« Kurt Hummel. » rispose Kurt, controllando la cartella nelle mani della donna in divisa nel tentativo di scorgere il nome di suo padre, anche se oramai era chiaro che
non si trovava lì.

La poliziotta annotò il nome e si volse verso di me.

« Blaine… Anderson. » dissi, quasi faticando a ricordare il mio cognome, sull’impatto del momento.

La donna mi squadrò, confusa, ed alzò un sopracciglio.

« Non… Blaine? » disse, ed io annuii, sorpreso da quella sua riluttanza nei riguardi del mio nome. Okay, non era tra i più belli del mondo, ma avevo imparato ad
accettarlo anni prima.

Doveva seriamente mettermi in difficoltà in quel momento?

Annuii, confuso.

« Peter! » chiamò allora la donna, ed un altro poliziotto uscì dalla stanza lì vicina, cercando di mantenere la calma all’interno dell’abitacolo a lui assegnato.

« E’ un brutto momento, Deliah. » si lamentò, ma la donna gli fece cenno di avvicinarsi in ogni caso, mentre ci scansavamo dall’uscita delle scale e cercavamo di non
intralciare il passaggio degli altri.

Il ragazzo, perché era davvero giovane, si avvicinò correndo, a malincuore.

« Per favore, prendi e segna tutti quelli che entrano, ho bisogno che tu mi sostituisca per una decina di minuti. Prenderò il tuo posto. » disse Deliah, e gli ficcò la
cartella e la penna in mano, non lasciandogli il tempo di replicare, poi mi prese per l’avambraccio e mi portò a poca distanza. Afferrai Kurt per la manica della giacca,
così che mi stesse accanto. Non avevo intenzione di perderlo nel mezzo del caos solo per via di una donna che aveva dei probabili problemi di spelling del mio nome.

« Cosa succede? » dissi tra i denti, confuso ed esasperato, mentre orde di persone mi passavano accanto nel corridoio, spingendo. Coloro che stavano nella stanza che
Deliah era dedita a controllare dopo lo scambio con il ragazzo mugugnavano e si stringevano tra loro, cercando di tenere le famiglie unite.

Famiglia.

Che parola pesante.

« Sei Blaine Anderson? » domandò la donna, fissandomi con serietà e rispondendo cortesemente ad un bambino che no, non poteva prenderle la pistola dalla tasca.

« Mi sembra di averlo già detto. » risposi, guardando Kurt.

« Tuo padre è Paul Anderson? » chiese, e mi si prosciugò la gola.

No, non un’altra fanatica di mio padre che cercava di ingraziarsi il figlio per un posto in alta società, contatti o essere accettata alla NYADA.

« Cosa vuole? » domandai, più duro di quanto non volessi essere con quella donna sconosciuta.

Lei sorrise, interpretandolo come un sì.

« Non mi sorprende che tu non mi riconosca, Blainey. » disse Deliah, abbracciandomi e scoccandomi un sorriso. La guardai confuso, e Kurt non sembrava capire più
di me. Mi allontanai dalle sue braccia e lei scosse la testa come si fa con un bambino che si ostina a non ascoltare.

« Chi sei tu? » domandai, stringendo i denti. Chiunque fosse era collegata alla mia famiglia e questo non era un bene. Non era un bene affatto e, se non fosse stato per
Kurt che bloccava il passaggio già stretto, sarei scappato e avrei cercato di confondermi tra la folla.

« Sono la sorella di tua madre, Zia Dì, ricordi? » spiegò mantenendo quel sorriso dietro al quale continuava a celarsi una preoccupazione che non comprendevo e che
mi metteva in soggezione. Com’era possibile che non la avessi riconosciuta? Non la vedevo da parecchi anni, poiché si era trasferita in Messico per delle questioni di
lavoro, però non credevo che sarebbe mai cambiata tanto. Era dimagrita infinitamente, gli occhi gli si erano incavati sul volto ed aveva tagliato i capelli. Un taglio
abbastanza drastico. Inoltre non era quasi truccata, mentre non ricordavo di averla praticamente mai vista senza trucco.

« Oh, cazzo, zia… » mi sfuggì dalle labbra, e lei allargò il sorriso con aria malinconica.

« Blaine, Blaine… che bello vederti. Tua madre non fa altro che parlare di te, penso che le manchi molto anche se non vuole dirlo. » spiegò, poggiandomi una mano sul
braccio e carezzandolo come si fa con un ragazzino. Ma io non ero più un ragazzino, ero un ragazzo che era stato buttato fuori di casa, e che non aveva proprio niente
del “ragazzino” di un tempo.

« Non… non ti avevo riconosciuto. » biascicai, cercando di sottrarmi alla presa. Il sorriso sulle sue labbra traballò, ma si sforzò di mantenerlo quanto meno credibile.

« Poco da sorprendersi, sono dimagrita tanto e ho fatto parecchi cambiamenti radicali. » rispose, scrollando le spalle.  « Sono Deliah, la zia di Blaine. » aggiunse poi,
presentandosi a Kurt.

Come se quella catastrofe fosse stato il momento adatto ai convenevoli.

« Non sei l’unica. » risposi, più amareggiato di quanto avrei voluto in realtà.

Lei sospirò, sentendo una voce provenire dalla sua ricetrasmittente.

Io non compresi una parola, ma lei doveva esserci abituata.

« Qua abbiamo quasi finito. Chiedi a Johnatan fuori quanti mancano da fare entrare nei rifugi. » rispose, voltandosi verso l’apparecchio e premendo un pulsante.

Rispose un gorgoglio e lei tornò a noi.

« E’ bello vederti. » rispose ancora, ed immaginai che sapesse di me. Mia madre non riusciva a nascondere nulla a sua sorella.

« Sì, molto bello, ma tu che ci fai qua? Credevo fossi in Messico. » dissi, ricordandomi improvvisamente un’intera vita, un’intera famiglia ed un’intera rete di
conoscenze che avevo dimenticato.

« Sì bè… ho avuto dei problemi lì e ho chiesto un trasferimento qua in modo da essere più vicina a tua madre. » ammise. Una donna le bussò sulla spalla, e le chiese
quanto sarebbero dovuti rimanere tutti sotto terra, e Daliah rispose che la durata dell’uragano era imprevedibile, e che sarebbero rimasti nascosti quanto necessario.

All’esterno si iniziavano a sentire i rombi del cielo e le sferzate di vento che soffiava a velocità allucinante.

Tornò a voltarsi verso di me.
« Perché mai avresti dovuto stare vicino a mia madre? Praticamente in quella casa tutti sono alle sue dipendenze, non vedo il problema. Se si sentiva sola non lo ha
mai dato a vedere. » esclamai, sorpreso. Non avrei mai detto che mia madre avesse avuto bisogno di qualcuno. A volte mi domandavo a che le servisse mio padre.


Deliah mi guardò con un’aria di pietà negli occhi. Che diamine voleva dire quello sguardo? Che cosa era successo?

« Aspetta, è successo qualcosa? » domandai di botto, prendendola per un polso. Non avrebbe dovuto importarmi, forse, eppure in un certo senso quella donna dal
volto serio e dal tailleur cucito addosso ancora significava l’innominabile per me.

Lei si morse il labbro inferiore, prendendo un respiro profondo.

« Blaine… » mormorò, e Kurt, dietro di me, mi mise una mano sulla spalla, stringendola forte. Perché? Percepiva che avrei avuto bisogno di lui? Come? Perché tra
tutto quel chiasso, e il vento, e i rombi, e il mormorio di sottofondo, ed il battito frenetico del mio cuore non riuscivo a capire niente?

« Tua madre e tuo padre non vivono più assieme, e lei ora vive in un appartamentino da sola. E non sta molto bene, psicologicamente intendo, tutti i suoi errori le sono
caduti addosso nel momento in cui te ne sei andato, credo. C’era bisogno di qualcuno che le stesse vicino e, bè… c’ero solo io. »

Non riuscii a sopprimere quel dolore intenso che si faceva strada dentro di me. Quel senso di colpa che non aveva mai voluto esserci. Quella sensazione che avevo cancellato e non volevo portare in vita, un’emozione sbagliata, che non desideravo.

Kurt strinse la presa, mentre vacillavo appena. 























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Spazio Autrice:

Prometto Fluff e Angst nel prossimo capitolo!
Purtroppo è arrivato, lo sapevate che sarebbe successo.
E oh, approfondimenti psicologici, oh yeah.

Detto questo me ne vò :D

Noth
   
 
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