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Autore: raganellabyebye    21/08/2012    1 recensioni
La fine di una relazione destinata a terminare sin dall'inizio. Nina lo sapeva, che Francis non era mai stato suo, ma faceva male lo stesso.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Francia/Francis Bonnefoy
Note: nessuna | Avvertimenti: Gender Bender
- Questa storia fa parte della serie 'Red Carnations'
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Versione rivista
Note dell’autore originali
Buona lettura!
 
 
Uno One-shot dedicato a Nina e Francis, una storia che si può godere anche chi non ha letto le mie altre storie (“Castel Sant’Angelo”!). Vi basti sapere che Lavinia (Nina per gli amici), è la versione femminile di Lovi, e per farli “convivere” (Lovi e Nina, cioè) l’ho trasformata nella personificazione di Roma: non vi serve sapere altro per tirar fuori i fazzoletti (spero di esserci riuscita grazie alle emozioni che ho voluto trasmettere, e non perché fa davvero schifo...)!
 
No, H. non è mio, e vorrei tanto sapere chi è il cretino causa di questo nostro (noi scrittrici/scrittori di ff) doverlo ripetere a ogni stramaledettissima storia...
 
 
Lungotevere
 
Su un lungotevere appena illuminato dall’aurora siede una coppia.
Lui è biondo, di carnagione chiara, con un leggero pizzetto appena sotto le labbra sottili e sensuali. Fra le lunghe ciglia bionde semichiuse, s’intravedono due bellissime iridi blu elettrico. La sua postura, benché seduto per terra, è elegante come il suo abbigliamento: i polsini di pizzo delle maniche sporgono quel tanto che basta, il fazzoletto al collo è decorato con una spilla che indossata da chiunque altro sarebbe considerata kitsch ma qualcosa, nell’aspetto dell’uomo, la fa apparire fine e ricercata. Il cappello piumato è appoggiato alla sua destra, accanto al bastone, e non serve vedere il giglio in rilievo sull’elaborata incrostatura d’argento del manico per capire che un uomo del genere può solo appartenere alla ristretta cerchia della corte francese; un amico personal del Re Sole, magari.
Alla sua sinistra – le mani su cui entrambi si appoggiano distanti non più di pochi centimetri – una donna più bassa, bruna, leggermente scura di pelle; i suoi colori l’avrebbero certamente fatta passare per contadina, non fosse stato per il ricco abbigliamento purpureo che fasciava la sua figura, fiera anche in quella posizione così spensierata.
Ma la postura della donna non rispecchiava il suo stato d’animo, e il suo compagno lo sapeva: la luce nei suoi occhi ardenti era persa lontano, come Venere resa pallida dalla luce del primo Sole. Le labbra semichiuse si muovono appena, lasciandone trapelare una voce distante, proveniente da un altro mondo. Il francese accanto a lei la conosce da troppi anni per non sentire il dolore nascosto in quel tono distaccato, il leggero tremolio nella sua voce roca ma estremamente femminile, che tante volte lo aveva accompagnato nel sonno e accolto al risveglio.
“Immagino che questa sia l’ultima volta”
L’uomo sente un dolore sordo al lato sinistro del petto. Odia vedere le persone soffrire, soprattutto quando è a causa sua. Soprattutto lei.
E non può fare nulla per impedirlo.
“Lavinia...”
Si allunga per ravviarle una ciocca ribelle, sfuggitale quando si era ricomposta i capelli un’ora prima. Lei lo lascia fare, voltandosi lentamente.
“Lascia stare... Doveva finire prima o poi”
Nei suoi occhi non splendono più di un paio di candeline prossime alla fine, e un’altra fitta gli toglie il fiato. Perché Arthur? Perché ora? Perché non prima che loro due s’invischiassero in una relazione? Di tutte le persone che avrebbero potuto versare lacrime a causa sua, perché lei? Perché Roma, dannazione!?!
Inutile domandarselo, già lo sapeva.
Quell’apatia che aveva seguito il rifiuto era una debolezza che nel tempo era riuscito a mettere in secondo piano, fra un salotto e una camera. Poi lei era tornata nella sua vita; questa donna colta, raffinata, intelligente, molto cresciuta dall’ultima vota che si erano incontrati. Lei era – è – così brillante, autoironica, pungente, sorprendente, affascinante, di una bellezza unica, come il profilo di Roma al tramonto. Che fossero nelle sue stanze, per le strade di Roma o fuori dalla città, persi fra i campi, lo starle accanto riusciva davvero a farglielo dimenticare, a far sparire del tutto il dolore: non vedeva il viso di lui ovunque, non lo vedeva fra passanti, non sentiva la sua voce fra la folla.
Per tutto quel tempo ha creduto che lei ci fosse riuscita, a farglielo dimenticare. Ha creduto che fosse lei la persona con cui avrebbe passato il resto della sua vita. Quando dormiva accanto a lei, non lo sognava nemmeno.
Per lei, il francese era stato una spaccatura nel suo mondo. Era l’unico uomo a conoscere veramente la sua storia e a comprenderla appieno, l’unico con cui sentiva di poter parlare di tutto, anche delle cose più spiacevoli, anche di quelle che facevano male; aveva lasciato che la vedesse debole, quando la maschera di donna di ferro cadeva, lasciando scoperta la carne. Non aveva mai permesso nemmeno ai suoi fratelli di vederla in quello stato, sempre troppo preoccupata che, se lo avesse fatto, la sicurezza che provvedeva quella sua facciata venisse meno una volta scoperto che anche lei navigava nell’incertezza. La vita di Lavinia era stata una continua battaglia, un continuo dimostrarsi forte, indistruttibile, una degna erede di suo nonno; l’immagine stessa della Città Eterna. Una donna orgogliosa e fiera, qualcuno la cui autorità non sarebbe mai potuta essere messa in discussione. Peccato e perdizione erano stati i suoi compagni, le ombre dei colli il suo nascondiglio, ma mai aveva lasciato che ciò potesse compromettere la sua immagine, né avevano mai spento quell’aura di magnificenza, di potenza che emanava inconsciamente e che spingeva nazioni ben più grandi a rispettarla e ascoltarla. Lui aveva messo tutto da parte, ogni preconcetto, ogni voce, ogni parola o cenno che le veniva rivolto per principio, come a dire “ricominciamo da capo”. Nessuna spiegazione, nessuna richiesta: ognuno sapeva dell’altro, e ciò che non sapeva, intuiva.
Quello che Francis non aveva realizzato, quello che Lavinia non aveva mai detto a voce alta, era che lei sapeva anche di Arthur. Lui aveva capito solo quella notte che lei, per tutto quel tempo, aveva convissuto con il dato di fatto che sarebbe finita; tutto quando lui ancora credeva di averlo lasciato andare. Come faceva? Come lo aveva capito, ancor prima di lui? E tutte quelle sere passate insieme, sulla sponda del Campo Marzio, scambiandosi parole e piccoli pegni d’affetto? Le notti insonni passate bisbigliando, le mattine fra le braccia dell’altro, un bacio a fior di labbra per buongiorno... come aveva resistito, com’era riuscita a sorridergli, a ricambiare quelle parole sussurrate all’orecchio?
L’uomo si trova nuovamente sbalordito dalla forza della donna accanto a lui e si odia per averla messa ancora una volta alla prova. Si sente marcio, sporco, disgustoso, uno dei tanti che l’avevano ferita e che lui aveva disprezzato per questo; poiché, aveva pensato,una donna del genere merita rispetto e ammirazione, al limite della venerazione. Quante volte si era chiesto come potessero certe persone tradirla a quel modo? E quante volte avrebbe voluto piangere al sorriso mezzo ironico sul volto di lei, quasi soddisfatta del tradimento, che ancora una volta confermava le sue aspettative? Avrebbe voluto essere lui a salvarla da quella spirale di compiaciuta autocommiserazione, come Antonio faceva per Lovino.
Poi tutto era crollato.
Arthur era irrotto nuovamente nella sua vita e – senza nemmeno rendersene conto, benché ne sarebbe stato sicuramente compiaciuto – aveva distrutto ogni cosa. Lui navigava tranquillo a bordo di quel veliero intitolato a Santa Lucia, quando una nave di corsari inglesi aveva travolto la flotta. E Arthur gli era piovuto addosso, puntandogli una pistola alla fronte e indossando un sorriso che gli ricordava incredibilmente Ian: occhi febbricitanti di follia e desiderio di sangue, come una bestia feroce. Ecco come colui che amava era ritornato.
Lei, al contrario, lo aveva accolto nel suo bellissimo salotto di mogano e stoffe dal rosso al borgogna. Se la ricorda ancora, seduta languidamente su di un’ottomana, mentre gli porgeva un bicchiere di vino gemello a quello che teneva vicino alle labbra; sul viso un’espressione sospettosa, quasi avesse già capito cosa stava per succedere.
Avrebbe mai smesso di stupirlo?
“E’ inutile trascinarla avanti più del dovuto, Francis.”
Gli dice, riportandolo al presente. Si allunga verso l’uomo impietrito davanti a lei, teso, ansioso come non lo aveva visto mai. In circostanze più felici, avrebbe inventato sull’insolita espressione del suo viso fior fior di battute, ma non oggi.
Gli posa un leggero bacio sulle labbra, accarezzando la guancia destra, per poi alzarsi leggera e veloce come una farfalla spaventata, scomparendo dietro il parapetto di mattoni. Sempre fermo, l’uomo si limita a voltare il capo, fissando il punto in cui lei aveva saltato il muretto e ascoltando i suoi passi veloci allontanarsi lungo la strada.
 
 
Cinquant’anni dopo
 
La risata acida, ruvida, addirittura crudele dell’inglese è come una pallottola nel cuore, tanto che Francis deve combattere contro se stesso per non arretrare di un passo per il contraccolpo. Vede una folle crudeltà brillare in quegli splendidi occhi verdi che tormentano i suoi sogni, pensando che se Arthur sapesse quanto già gli fa male non avrebbe pietà di lui: riderebbe solo più forte.
 
Da lontano –  appoggiata al parapetto di una nave veneziana – una figura di donna guarda lo spettacolo, sentendo il cuore stringersi appena. Ancora leggermente scosso dalle risate, l’uomo si allontana, non prima di aver lanciato un’ultima stoccata all’altro; una battuta volgare, sprezzante, anche se le parole non sono distinguibili.
Vestito d’azzurro e con le spalle abbassate – come un principe uscito da una favola finita male – l’altro rimane sulla banchina, lo sguardo perso nel vuoto.
Ma lei lo sa – come sapeva che lui amava Arthur – che prima o poi sarebbe successo; non importa quanti secoli sarebbero dovuti passare, quante guerre si sarebbero dovute combattere: il lieto fine ci sarebbe stato, per loro due.
Un sorriso malinconico le appare sul viso, mentre la vista inizia a offuscarsi per le lacrime impigliate fra le lunghe ciglia, il dolore non ancora scomparso; si sorprende amaramente di quanto faccia male.
Che sciocca che è stata, a lasciarsi coinvolgere a tal punto! Un deliberato atto di autolesionismo. Eppure non riesce a pentirsene. I pomeriggi passati a parlare di tutto, vecchi ricordi che solo loro potevano condividere, cultura, politica, arte... tutto. Le notti passate insieme, le feste cui nessuna persona perbene avrebbe dovuto partecipare, e quelle piccole gite con Maria, lontani da ogni pensiero. E’ stato forse il periodo più felice dalla sua vita dalla scomparsa del nonno: tutto le sembrava brillante, vivido, meraviglioso... la malinconia che l’accompagnava sempre era sottomessa alla gioia che ogni incontro le regalava. Per nulla al mondo avrebbe rinunciato a quelle ore passate insieme.
Nemmeno per non soffrire così tanto.
Lo aveva amato, quanto lo aveva amato; una stupida accecata dai propri sentimenti, a tal punto da essersi dimenticata dell’inglese, sparito dai discorsi di lui, dalle cose che gli raccontava, come se l’oceano avesse lo avesse inghiottito insieme ai ricordi. Anche lui sembrava essersene dimenticato, preso da lei, da ciò che condividevano... all’inizio, quando era ancora lucida, era convinta di potersi staccare da lui senza rimpianti. A ogni incontro si diceva “questo è l’ultimo”, ma non era mai l’ultimo. Poi era sprofondata, trascinata in quella spirale di sentimenti così... intensi, da non essersi neppure accorta di cosa fosse successo, senza la benché minima consapevolezza del destino che sin all’inizio sapeva li avrebbe attesi.
Si chiede se, impegnandosi di più, non avesse avuto la possibilità di fargli dimenticare l’altro... Ma no, non ci sarebbe riuscita. Quell’uomo che non riusciva nemmeno a nominare aveva perso un pezzo di se già da tempo, nonostante non se ne fosse accorto. E lei aveva continuato, imperterrita, a lasciarsi travolgere dalle emozioni, come un’incosciente ragazzina alle prese con il primo amore. E forse lui lo era stato davvero, il suo primo amore.
Il nonno non era mai riuscito a dimenticare Tarquinia. Lei ci sarebbe riuscita, a dimenticare lui?
Non senza un lieve rammarico, si accorge che il dolore lancinante al petto si era lievemente attenuato negli ultimi anni. Si sente un po’ colpevole, come se lo stesse tradendo. Che cosa stupida. Non solo si erano lasciati, ma era stata a causa sua che era successo. Fosse stato per lei... sarebbero ancora insieme? O si sarebbero già separati? Se sta già iniziando a... recuperare, allora – forse – non era un legame forte come sarebbe dovuto essere per continuare insieme. Forse, tanto rimpianto derivava dal semplice fatto che non aveva mai sentito nulla di così profondo. Non dicono che il primo amore non si scorda mai?
Voltandosi torna sotto coperta, sdraiandosi sul letto nella sua cabina, appallottolata sotto le coperte.
Appena prima che il sonno la colga, una lacrima scivola dall’occhio, svanendo sul cuscino.
 
 
1917
 
Se quest’anello potesse parlare, avrebbe molte cose da dire sulla sua proprietaria. Se potesse anche pensare potrebbe giudicarla, e dire che è una donna strana. Bella – a modo suo – ma strana.
La prima volta che l’elegante gioiello d’oro venne esaminato dalla donna, il rubino incastonato si rifletteva in un paio di occhi accesi, scheggiati dello stesso materiale di cui era fatto. Mentre veniva infilato al dito di lei dalla mano guantata dell’acquirente, riusciva a sentire forte e chiaro il battito potente e accelerato del cuore. In confronto ai suoi simili era un prezioso non troppo appariscente (per i canoni dello stile in voga nel primo settecento, almeno), ma fine, molto di classe e – soprattutto – francese, il che lo rendeva davvero perfetto a suo modesto giudizio (se potesse essere modesto, ovviamente, ma certe qualità non sono necessarie al fine del racconto). Lei indossava sempre vestiti del rosso più adatto a valorizzare la gemma quando lo metteva, o forse lo metteva solo quando indossava i vestiti più adatti a valorizzarlo, ma questi sono dettagli; rimaneva il fatto che lei aveva gusto.
Poi di punto in bianco, un giorno, presolo fuori dal portagioie, lei aveva iniziato a piangere silenziosamente, come solo lei sapeva fare: quei leggerissimi singhiozzi da gatto che, se l’oggetto avesse avuto anche un cuore, avrebbe trovato strazianti. Dopo quest’episodio, si era ritrovato infilato in una custodia assieme a qualche paio di orecchini di pietra dura e oro e altri compagni di sventura altrettanto preziosi, tutti nascosti nel fondo di una cassettiera, seppelliti nel tempo da carte, vestiti, e ogni altro oggetto che la padrona non trovava più utile ma non voleva buttare.
Ed eccolo, a oggi, nella mano della stessa donna: li aveva riesumati dalla loro secolare sepoltura e uno a uno li stava lucidando con cura. Lo sguardo è diverso. Non brilla come i primi giorni, ma non è triste come l’ultima volta. E’ uno strano miscuglio di malinconia, con una nota di... affetto? Beh, è pur sempre un anello: per quanto noi lo si abbia fornito temporaneamente di un cervello, le sue esperienze sono troppo limitate perché possa fare un esame più approfondito. Può solo notare le sopracciglia corrugate, il mezzo sorriso, e un’impercettibile ombra negli occhi.
Una leggerissima risata e poi scuote il capo, come a volersi scrollare di dosso un pensiero. Lo sguardo riprende vita, luminoso, e il sorriso si fa dolce. Finita la pulizia, lo ripone non nel portagioie di prima, ma in un bellissimo porta anelli in velluto rosso, chiuso in una fantastica scatola di mogano con inserti di smalto a formare un motivo floreale. Si ritrova circondato da suoi simili, alcuni noti, altri meno. Alla sua sinistra, c’è quella che potrebbe identificare come una fede sarda (se sapesse cos’è); alla sua destra, accanto al bordo, un anello molto più che vecchio che non sa inquadrare in qualsivoglia stile a lui conosciuto. In basso a destra, invece, c’è un anello molto strano, evidentemente “moderno” (Puha! Orrendo!), molto semplice, ma che il plurisecolare rubino preferisce definire “scialbo”, “insipido” e “assolutamente inadatto a essere indossato dalla stessa donna che ha indossato me”; lui è un anello un po’ snob, ma quell’anello lì è davvero bruttarello se paragonato ai suoi compagni intarsiati e costosissimi anche solo peri materiali impiegati. Sotto di lui, intravede uno sbrilluccichio argentato, che riesce più o meno a riconoscere: stile rococò, argento tempestato di diamanti, uno zaffiro blu di Prussia... l’aveva già visto una volta, ma ce n’erano due... uno lo indossava una bambina, gli sembra di ricordare. Non si può pretendere molto dalla memoria di un oggetto inanimato, soprattutto se è rimasto chiuso in luogo buio per più di duecento anni.
Un coperchio di vetro si chiude sopra di lui, seguito da quello di mogano, poi il “clic” della serratura esterna; visto che si è immaginato che solo lui sappia parlare si ritrova senza nessuno con cui scambiare due chiacchiere, sicché lascia perdere e si addormenta, con il vago sospetto che – anche se non verrà indossato spesso – non passerà molto tempo prima che il coperchio venga riaperto.
 
 
Com’è andata? Soddisfatti? Tutti? Sia chi “mi” legge per la prima volta, sia quelli che volevano sapere cosa mi avesse impedito di mettere su il capitolo XI (non preoccupatevi, questa era scritta da un pezzo!)? Uff, spero tanto di sì, anche se nemmeno io ne sono troppo sicura...
Oh, insomma, bando alle ciance! Alla prossima e
byebye!
  
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