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Autore: NicholeSanderson    24/08/2012    1 recensioni
Da piccola Nichole vive il divorzio dei suoi genitori, a causa dei problemi di alcolismo del padre, che l'abbandona quando lei è solo una bambina. A sedici anni, poi, viene abbandonata anche dalla sua assente madre, che preferisce seguire il suo nuovo compagno e la sua carriera da imprenditore. Così Nichole viene riaffidata al padre, trasferendosi da Seattle, sua città natale, fino ad arrivare in California, in un piccolo quartiere di Torrance. A complicare le cose, poi, è il suo incontro con Frankie, la ragazza della casa azzurra in fondo al viale. Anche lei vive una situazione familiare piuttosto complicata, oltre ad avere una difficile vita condita da tanti problemi. Anche se il loro rapporto all'inizio sarà confuso e strano, presto entrambe si renderanno conto di aver bisogno l'una dell'altra, in qualcosa di più di una semplice amicizia.
http://nicholesanderson.blogspot.it
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Dai finestrini non vedevo altro che un miscuglio di colori che si confondevano tra di loro. Riuscivo a malapena a riconoscere a cosa appartenessero. Faceva caldo, ma non lo soffrivo più di tanto.
Le mie orecchie erano piene di note parole che mi avevano accompagnata per tutto il viaggio.
Accanto a me c’era un uomo, grasso e sudato, che dormiva. Nel silenzio tra una canzone e l’altra riuscivo a sentire i suoi disgustosi e strani versi. Il treno era pieno di gente, tutti in partenza. Immagino che la maggior parte di loro si stesse recando in una residenza estiva o in un hotel per trascorrere le proprie vacanze allegramente. La scuola era finita da un paio di settimane, finalmente  eravamo liberi. Era appena giugno, ma il sole già infuocava le città e rendeva faticoso anche allacciarsi le scarpe. Il treno si fermò. Era giunto il momento di scendere e affrontare la realtà. Non sarebbe andata tanto male, dopotutto mi lamentavo sempre della mia monotona vita.
Presi i miei bagagli e mi alzai, uscii dal treno e lo guardai ripartire a tutta velocità. Rimasi ferma a guardarlo scomparire lentamente, poi cominciai a girarmi attorno. Dopo qualche istante sentii delle mani calde sui miei occhi, abbozzai un sorriso sforzato e mi girai.
«Piccola mia!»
«Ciao papà.»
Mi abbracciò forte, sorridendo, con le lacrime agli occhi. Non mi toccò minimamente.
«Non ci vediamo... da così tanto tempo. – continuò – Mi sei mancata tanto,  Nichole.»
«Mi sei mancato anche tu.» risposi, cercando di mascherare la mia freddezza.
Se le fossi mancata sul serio, come diceva lui, mi avrebbe telefonata, qualche volta.
Si ricompose, si strofinò gli occhi e aggiustò la camicia.
Mi mostrò un altro sorriso enorme e mi guardò dall’alto al basso.
«Come sei cresciuta – sospirò. Poi, evitando di commuoversi di nuovo, cambiò argomento - Vedrai, la casa ti piacerà da matti!»
Prese il mio bagaglio, se lo mise sulle spalle e si incamminò, incitandomi a seguirlo.
Era così naturale e caloroso che mi sembrò quasi finto. Insomma, io provavo un certo imbarazzo nei suoi confronti, rivederlo dopo così tanto tempo fu difficile per me.
Se pensavo, poi, che mi aveva completamente abbandonata, senza nemmeno preoccuparsi di vedere sua figlia crescere... mi faceva sentire abbastanza depressa.
Ma non volevo pensarci. Doveva essere l’ultimo dei miei problemi. La mia vita era cambiata totalmente da quando mia madre decise di sposare quel bamboccio del suo fidanzato, Jim. Lei era sempre stata una donna giudiziosa e razionale, ma quel bell’uomo le aveva fatto perdere la testa. Quando avevo quattro anni i miei genitori si separarono. Mio padre aveva problemi con l’alcool. È una cosa che succede, immagino... l’uomo che si ubriaca, torna la sera a casa e ammazza di botte la moglie. La mattina, poi, al risveglio sembravamo quasi una famiglia normale. Mio padre piangeva disperato e mia madre lo perdonava di continuo, ma la tentazione di bere era troppo forte per lui.
Fortunatamente ero troppo piccola per capire, e mia madre mi metteva a letto prima che mio padre tornasse. Tuttavia, una volta mi svegliai, nonostante avessi il sonno molto pesante, e vidi tutto.
Da quel giorno, mia madre decise il divorzio. È sempre stata una donna con un forte bisogno di avere un uomo accanto. Non riusciva a regolare la sua vita da sola, e cambiava partner continuamente. Nessuno di loro durava più di due mesi.
Mia madre si stancava a causa della scarsa igiene, la passione per la birra e il calcio, cose che caratterizzano bene o male qualsiasi uomo. Ci rimaneva davvero male quando i suoi innumerevoli fidanzati decidevano di darle buca per vedere la partita con una pizza e una pinta di birra in mano, indossando una canotta logora e macchiata di olio. Dio, che schifo.
Ma poi, un giorno, alla porta di mia madre si presentò Jim. Dico sul serio, alla sua porta.
Avete presente il detto “donna al volante: pericolo costante”? Ecco, mia madre ne è l’esempio pratico.
Beh, fece una retromarcia piuttosto scomoda e colpì leggermente l’auto di quest’uomo, che prese il numero di targa di mia madre, nonostante lei avesse tentato una fuga piuttosto imbranata.
Entrò in casa, così, un po’ scazzato. Mia madre gli offrì un caffè e cercò di rabbonirlo.
Insomma, alla fine andarono a cena insieme e Jim decise che avrebbe pagato da solo il danno. E la cena, per di più. Jim era profumato, sapeva sempre di dopobarba e deodorante. Non aveva mai dato buca a mia madre e ogni volta che uscivano pagava lui, spesso le faceva dei regali. Lei era davvero felice... e un po’ approfittante, probabilmente. Era un uomo molto ricco, faceva l’imprenditore di non so bene cosa. Mia madre ripeteva sempre che fosse un imprenditore, ma non specificava mai di cosa si occupasse precisamente. La sorte volle che Jim venisse trasferito, da Seattle all’Alaska. E a quel punto, mi opposi al loro appassionato amore. Non ci sarei andata lì. Vivere nella stessa casa con Jim e mia madre? In Alaska? Fa troppo freddo.
Così, mia madre, senza troppe storie, accecata dall’amore e dalla felicità, decise che avrei vissuto da mio padre, in California, almeno per i primi tempi.
“Può darsi che Jim tornerà a Seattle. E vedrai, ti troverai bene. Tuo padre è cambiato”.
Che mio padre fosse cambiato lo sapevo, i parenti non facevano altro che ripeterlo. Ma mio padre abitava lontano, vicino Torrance. Non avevo sue notizie da un sacco di tempo, e ora, nel bel mezzo di una fermata del treno, lo rivedevo dopo un mucchio di anni.
«Vedrai, amerai la mia casa.» disse di nuovo mentre scendevamo le scale. Avrei voluto rispondergli in modo acido che ci sentivo bene, ma alla fine convenni che forse era meglio stare in silenzio.
Arrivammo all’auto, una Lamborghini piuttosto bella, e mi aprì lo sportello. Non ero di molte parole, ma mio padre non sembrava essere in imbarazzo. Anzi, sembrava felice. Sul serio.
«Oh, la mia bambina. Dimmi... come stai? La scuola? Sei emozionata? Oh, al diavolo, avremo almeno un anno intero per parlare!»
Gli sorrisi, e annuii. Cercai di mostrarmi contenta, anche se in realtà mi sentivo piuttosto confusa.
Certo, vivere con mio padre era sicuramente meglio di vivere in Alaska con Jim e mia madre, viste le scarse attenzioni che lei mi avrebbe dato, e credo sia importante per una ragazza della mia età avere un familiare che lo sostenga. In quel momento certamente non vedevo un buon genitore in mio padre, che aveva lasciato allo sbando sua moglie e sua figlia, e in un certo senso avevo anche paura di lui. Paura che non fosse cambiato, o che comunque non avrebbe rappresentato per me una figura di padre, o semplicemente che non sarei riuscita a riaccettarlo nella mia vita.
Per tutto il tempo in cui fummo in auto, quasi non aprimmo bocca. Ascoltammo la radio tutto il tempo. Beatles e roba del genere. Mio padre aveva buoni gusti per quanto riguardava la musica.
Era anche un bell’uomo, da giovane. Era invecchiato, aveva cominciato a perdere i capelli e a mettere su un po’ di pancetta, ma poteva definirsi un bell’uomo lo stesso. Eravamo quasi arrivati, mancavano cinque minuti, quando finalmente si decise a parlare, e quando lo faceva mi sentivo meno a disagio.
«C’è una cosa che devo dirti – iniziò, guardano la strada concentrato – anche io ho una compagna.»
Da un lato la notizia mi spiazzò, perché credevo che in questo modo mi sarei sentita ancora più a disagio, ma in un certo senso, se era riuscito a farsi una nuova vita e a trovare un’altra donna, probabilmente non dovevo preoccuparmi che avesse ripreso con i suoi atteggiamenti.

«Ha due figli, una ragazzina di quindici anni e una di sette. Sono davvero adorabili, credimi. Per il momento vivono in un altro appartamento. Lei è vedova. Ma forse verranno ad abitare da noi.»
«Figurati, per me non c’è nessun problema» sorrisi.

Quando disse “abitare con noi” mi sentii meglio. Insomma, sembrava sinceramente contento di riavere con sé sua figlia, di nuovo. Parcheggiò la sua macchina in un viale. Eravamo arrivati. Mi guardai attorno e ciò che vedevo non mi dispiaceva affatto. Era davvero un bel quartiere. I viali erano verdi ed alberati, le aiuole curate e fiori colorati. C’erano varie villette che decoravano la strada ai lati, di colori diversi, tenui. Non sapevo bene che lavoro facesse mio padre, ma doveva essere piuttosto ricco per permettersi quel genere di auto e quella casa. Mi chiedevo se la villa di mio padre fosse quella rosa, quella verde, quella bianca o l’azzurra. Mio padre mi disse di seguirlo. Indossava una camicia bianca con delle righe rosse orizzontali, in un pantalone grigio chiuso da una cintura nera. Il mistero fu svelato in fretta: la nostra casa era bianca.
Era davvero bella, anche da fuori. Non c’era nessuna scrostatura e roba del genere. C’erano vari balconi e una veranda, e un giardino davvero carino. Mio padre mi fece cenno di entrare, ed io lo seguii. L’interno della casa era davvero pazzesco. I mobili erano molto moderni, c’era un salotto piuttosto grande. Mi fece fare un giro per le varie stanze. La cucina era bianca con un tavolo nero ed un bancone come quello dei bar, con degli sgabelli. C’era un frigo enorme ed uno più piccolo, esclusivamente per le bibite. C’era la possibilità di accendere delle lucette blu. Nel salotto, al centro della stanza, padroneggiava un enorme divano nero, e se ti sedevi comodamente lì, avevi di fronte un gigantesco televisore a plasma ed un impianto surround. Al piano di sopra c’erano le camere da letto. Quella di papà era piuttosto sobria, un letto matrimoniale, un armadio di legno, un grande specchio e delle luci incastrate nel soffitto.  C’era una camera degli ospiti, non troppo grande, e a seguire, ecco la mia cameretta.
«L’ho addobbata appena ho saputo che saresti venuta qui – mise un braccio sul lato della porta e mi guardò con un sorriso soddisfatto – spero ti piaccia»
Io rimasi a bocca aperta e non potei fare altro che esclamare: «Wow!»
La stanza era davvero molto luminosa grazie ad una porta-finestra. Il letto era grande e sembrava essere davvero comodo. Le pareti erano di vari colori pastello, avrei avuto una scrivania di legno e un armadio spazioso. Alle pareti erano attaccati dei quadretti pop art stupendi.
«Allora, che ne pensi?» mantenne il suo sorriso stampato sulla faccia.
«È fantastica. Cioè, sul serio, cavolo!»
Fece una leggera risata, e sempre compiaciuto del suo lavoro, mi disse che potevo cominciare a sistemarmi e scese giù a preparare il pranzo. Mio padre ai fornelli non me lo immaginavo proprio. Pensai che forse aveva una cameriera o qualcosa del genere. Aprii le valigie e cominciai a sistemare una piccola parte dei miei vestiti nell’armadio. Era azzurro, del mio colore preferito. Avevo portato davvero tante cose dalla mia vecchia casa, ma avrei comunque dovuto prendere altro. Insomma, dopotutto mi trasferivo completamente, e in tre valigie, seppure grandi, non poteva entrarci tutta la mia roba. Per adesso avevo solo i vestiti estivi. Mia madre aveva detto che mi avrebbe spedito un camioncino con il resto delle mie cose. Chissà se era felice di sbarazzarsi di me e stare con Jim.
Bah, non mi importava più di tanto, in quell’istante. Cominciai a sistemare i vestiti e la biancheria, e poi provai il mio letto: ero davvero stanchissima, e quel materasso era così morbido che non feci fatica a gettarmi fra le braccia di Morfeo.

«Nichole! Nichole?»
Le mie palpebre si aprirono leggermente, e vidi subito il viso di mio padre che sorrideva accigliato.
«Ti sei addormentata, è pronto il pranzo. Suppongo tu sia affamata.»
Stetti in silenzio per qualche istante, dando il tempo al mio cervello di ritornare nitido e sentii la mia pancia brontolare.
«Direi di sì.» Risposi. Ed era vero, dopotutto non mangiavo da ore.
Mi alzai e seguii papà, un po’ tesa per cosa sarebbe successo a tavola. Insomma, non vedevo papà da anni, e sarebbe stato imbarazzante stare a tavola con lui per un pranzo intero. Tuttavia poteva essere una buona occasione per cominciare a comunicare. Scendemmo le scale e presi posto a tavola. C’era una tovaglia bianca e pulita, il piatto fumante ci aspettava.
«Ti sei... dato alla cucina?» chiesi per rompere il ghiaccio.
Sorrise soddisfatto e annuì, mentre prendeva una bottiglia di vino da un mobile.
«Beh, sai... quando non lavoro non so cosa fare, così cerco di imparare nuove cose.»
Presi la forchetta e cominciai a mangiare. Era pasta al sugo.
«È molto buona!» dissi sinceramente.
«Oh, grazie. Solitamente piace a tutti, così ho cucinato una cosa semplice. Poi mi dirai quali sono i tuoi gusti e ci organizzeremo.» rispose gentilmente.
Continuai a mangiare lentamente cercando qualcosa da dire, ma fortunatamente mi anticipò lui.
«Sai, Nichole. – si asciugò il muso con un tovagliolo – La mia compagna è in viaggio di lavoro con i suoi figli, ma torneranno tra una settimana al massimo. Le ho parlato di te, non vede l’ora di conoscerti. Non spaventarti all’idea che possa... odiarti, o cose simili. È davvero dolce e so che ti piacerà. Le ho parlato davvero spesso di te da quando stiamo insieme, e quando le ho detto che saresti venuta ad abitare da me sembrava sinceramente contenta. Sa quanto io tenga a te.»
Lo guardai con un mezzo sorriso, ma non sapevo se fidarmi o meno. Insomma, cosa avrebbe potuto dirle su di me se mi ha abbandonata quando ero così piccola? E come mai teneva così tanto a me? Dopotutto non sapeva praticamente niente di me. Cercai di non pensarci e di essere ottimista, dopotutto era abbastanza inutile riempirsi di dubbi dopo così poco tempo. Per il resto del pranzo parlammo del più e del meno, nessuno di noi due sfiorò l’argomento mamma e Jim, e sinceramente non mi dispiacque affatto. Dopo pranzo mi offrii di aiutare, ma mio padre mi mandò gentilmente in camera a finire di disfare le valigie. Quella giornata passò lentamente e senza entusiasmo fino a che, sfinita, andai a letto.
  
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