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Autore: La Mutaforma    26/08/2012    2 recensioni
Una storia non è fatta di parole come 'fine' così pateticamente poste al termine della pagina. Sono tanti, mille, innumerevoli inizi. Perché una storia finisce solo dove il narratore ha smesso di raccontare.
La storia continua, strisciando da una pagina all'altra, in una ferita o nella piega di un sorriso, trascinandosi dietro mille pensieri, mille ricordi. Mille dolori. Io sono Albhed e non amo i ricordi. No, mi correggo: sono una quindicenne Albhed che ha combattuto una guerra più grande di tutti i suoi incubi e non ama i ricordi. Certo, ora è molto meglio.
Tutto è iniziato in un giorno qualunque, quando abbandono i sogni di bambina per i capricci di ragazza, solo per rintanarmi nella più assordante solitudine, nascondendomi dai ricordi, dalla guerra. Da tutto.
In un bianco e gelido deserto.
Ecco, questo è il mio nuovo inizio.
Genere: Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Rikku
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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VI

 

La stufa. La più grande invenzione dell’uomo. Non ne ho mai sentito la necessità finché non sono rimasta a Macalania. A Bikanel l’ultima cosa che serve è una stufa.

Mi stringo nella coperta, mentre strappo un altro foglio dal mio quadernetto per alimentare le fiamme. La legna non è finita, ma è più bello vedere la carta piegarsi dolorosamente su sé stessa e prendere fuoco.  I miei disegni bruciano.

Affondo nella coperta, incrociando le gambe. Mi si è addormentato un piede, penso che non esista nulla di così fastidioso.

Regolarmente guardo la porta, aspettando che qualcuno entri e mi porti via. In una strada affollata, in un mondo che urla, in un amabile chiacchiericcio. Nessuno arriva, e io ho bisogno di fare qualcosa.

Prendo il mio libro di fiabe e ne strappo una pagina.

Sorrido. Il rumore è così gioioso, allegro, spezza il silenzio.  È bello come un sogno. E ne strappo un altro. E un altro ancora. Fiaba dopo fiaba, i miei fogli si sollevano piano. Ogni foglio strappato è una risata nascosta  nel buio, nel silenzio tenebroso della casa.

Solo io, in un angolo della reception, troppo intenta a ridere e a non morire di freddo.

La solitudine è fredda, ghiacciata, è un vento che ti coglie dove i vestiti non possono coprirti. È leggera. Come un fiocco di neve.

Le fiabe prendono fuoco nella stufa, si illuminano, e Raperonzolo urla disperata perché la sua torre va a fuoco e non c’è via di scampo.

“Hai sbagliato ad aspettare, il principe non arriva. Non arriva mai nessuno”

 

Auron entra dalla porta dell’albergo come se fosse la cosa più logica del mondo. Quando mi vede seduta davanti alla stufa a strappare fogli come una bambina capricciosa mi guarda con occhio severo, pronto a farmi una delle sue ramanzine.

“Sei tu?”

Non risponde. Io sorrido, e mi lancio verso di lui, abbracciandolo.

“Sei proprio tu. Sei tornato da me. Ti aspettavo”

Lui mi allontana, prendendomi per le spalle. “Cosa fai, Rikku?”

Io sorrido, nascondendo la vergogna per aver completamente perso la testa. La pazzia è troppo facile da riconoscere, e lui sa che sto impazzendo. Che sto male.

Comincio a piangere, perché dal suo sguardo vedo che se ne andrà presto. Il mio pianto non è né maturo, né commuovente. È un pianto infantile, lacrime di bambina capricciosa. Gli riempio il petto di deboli pugni, schifosamente inutili.

“Sei un bastardo. Sei uno schifoso bastardo!” urlo, piangendo.

“Rikku-”

“No! Smettila di ripetere il mio nome!”

Provo a spingerlo inutilmente, ma la mia stessa forza mi spinge dal lato opposto.

Leggi della dinamica. Le odio.

Respiro forte, avida di aria, inalando ossigeno attraverso le narici. Non riesco a respirare diversamente, morirei se non lo facessi.

“Lo so” sbotto io di colpo. Lui non muove un muscolo. “Sei venuto solo per andartene di nuovo. Tutti se ne vanno”

“E dove vanno?”

La sua domanda è così stupida e odiosa che mi sembra di parlare con un bambino. In qualche modo, si sta prendendo gioco di me, finge che i miei problemi gli interessino.

Auron, vai a raccattare lunioli.

“All’Oltremondo, a casa loro, dietro l’angolo, che ne so! So solo che nessuno resta con me!” e ricomincio a piangere, sedendomi a terra per non vedere la sua burbera espressione del tipo non-me-ne-frega-niente-di-te.

“La solitudine ti sta facendo perdere il controllo” proclama, come se fosse una verità sconosciuta. Sono pronta a riempirlo di nuovo di pugni e calci.

“Tu che vuoi saperne? Non te ne fregava mai niente, stavi da solo tutto il tempo, non parlavi mai nemmeno con gli altri guardiani”

Il pensiero mi inquieta, non so perché. La prossima volta ci penso due volte a fare la guardiana. La prossima volta non distruggo Sin. La prossima volta resto a casa. Papà aveva dannatamente ragione.

Qui fuori non c’è niente per un Albhed.

 

“Devi riposarti. Sei troppo debole per-”

“Per fare cosa?” chiedo, allegramente. Auron ci pensa un po’.

“Qualunque cosa”

“Sei troppo generico” gli rinfaccio io, voltandomi nel letto. C’è un attimo di silenzio, tutto è più pesante, anche l’aria che respiro affannosamente. Lui non mi tocca, non mi guarda. Non mi pensa.

“Sei stupida Rikku”

“Grazie” rispondo, sadica e lusingata allo stesso tempo. È un complimento, suppongo, avrebbe potuto dirmi -di peggio. Forse dico grazie solo per non aver sparato qualche insulto inutile contro la mia razza. Sì, forse è per questo che si ringraziano le persone.

“Dormi e riposati. Starai meglio dopo”

“Non ho bisogno di stare meglio”

Ho detto la bugia della vita. La più grande, più stupida e meno credibile che abbia mai detto. Così stupida che non servirebbe a nulla rispondere. Tanto vale stare in silenzio, impegnati a non guardarci, a pensare a niente. Lui non parla, sta valutando la mia situazione.

Sto perdendo ogni controllo, Auron. Proprio come avevi detto tu prima. Smettila di stare in silenzio. Sembra che… non ci sei.

“Al tuo risveglio non sarai sola. Resterò con te” dice, con voce calma. Una voce quasi da amico. Come se mi volesse bene.

Oggi è il giorno delle bugie più assurde e nessuno me lo ha detto, vero?

“La tua proposta è allettante”

“Credimi”

“Sei un bugiardo” stringo furiosamente le lenzuola tra le dita. “Tu non ci sei. Non ci sei mai stato”

 

Mi risveglio madida di sudore, come se avessi dormito sotto la pioggia. Sono umida e ho i capelli appiccicati al collo. La stanza è immersa in un mare di solitudine, e sono sola. Mi alzo dal letto e prendo dalla sedia una felpa bianca.

Fuori nevica. Ancora.

Un rumore spezza il silenzio.

No, non sono sola.

I ladri in casa. Maledizione, solo questa ci voleva. Dov’è Auron quando serve?

Afferro nel silenzio la prima cosa pesante che mi capita tra le mani -la scopa di Miriam rimasta appoggiata alla porta della mia stanza- e a passo felpato attraverso lenta il corridoio. Mi fermo ad ascoltare, cercando di ingoiare i battiti rumorosi del mio cuore.

Rumore di passi. Di cose rovesciate. Di pagine che volano. E -un pallone.

Il silenzio mi sta facendo diventare sorda. Non riesco a distinguere i suoni. Dovrei andare a farmi ricoverare da qualche parte.

Stringo la scopa e parto alla carica, urlando.

“Hey hey! Calmati! Rikku! Non mi  riconosci?” mi dice una voce giovane e affettuosa. La voce di qualcuno che mi conosce. Due mani forti mi trattengono per le spalle e la scopa mi cade dalle mani.

“Non ti ricordi di me?”

Mi viene da piangere. Certo che mi ricordo di te.

“Non ho smesso un momento di pensare a te. E a Yuna”

Tidus mi sorride, quel suo sorriso luminoso, bianco. Sincero. Perché era vero anche se era un sogno. Stavo sognando un sogno. Che abilità invidiabile.

“Sono tornato” dice, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. Ma per quanto sia stupido e folle pensare che Tidus sia tornato -come anche Auron- io sorrido. Come una stupida, come una persona felice. Perché le persone felici sono un po’ stupide, in fondo.

E lui sorride, come se fosse l’unica cosa che sapesse fare. E io piagnucolo, come lui mi ha insegnato. Come se fosse l’unica che io possa fare adesso. Non oso abbracciarlo, potrei cadere, come è successo a Yuna.

“Dove sei stato?” chiedo, inutilmente. Lui non mi risponde e raccatta il suo pallone.

“Non è importante. Ora sono qui. Che ne dici di una partita?” propone lui, strizzandomi l’occhio. Io non so che fare. È un sogno, e i sogni si vedono solo quando sogni.

Indi, sto sognando. Sono nella mia camera e sto dormendo. E sto sognando.

Ma questo sogno è troppo bello. Troppo bello per pensare che sto solo sognando.

Tidus lancia la palla e io intercetto il colpo, ricevendolo sulle palme aperte, imploranti. E così inizia una partita di pallavolo nella reception vuota d’albergo di Rin.

È il mio bellissimo segreto. È un sogno troppo bello, troppo reale per rifiutarlo.

“Sei migliorato!” esclamo, col fiatone, mentre il pallone rimbalza sulla parete. Lo osservo senza espressione, senza commentare. “Non c’è molto da fare a -dove sei andato di preciso?”

Tidus ride e si strofina il naso col polso. “Non si può giocare a bliztball lì”

Io ascolto attentamente, lasciando che il suono della sua -finta- voce mi trapassi l’apparato acustico, così anche il mio cervello si convincerà. Almeno un po’.

“E cosa si può fare lì?”

Tidus passa in battuta e lancia il pallone. Forse non ha nemmeno sentito la mia domanda, ma non voglio arrischiarmi ad interpellarlo ancora. In fondo, non è che mi interessi tanto. Per quello che mi riguarda, Tidus era in un limbo, magari immerso nell’acqua, ad aspettare.

Alla fine, non siamo tanto diversi, tranne per il fatto che lui è incredibilmente infantile e io sono tanto matura. Così matura che se fossi un frutto non potrei stare sull’albero. Trapelo maturità da tutti i pori.

Già.

In verità, entrambi siamo un po’ bugiardi. Giochiamo allegramente e ridiamo se qualcosa cade a terra in frantumi. Facciamo finta.

Facciamo finta che sia vero.

 

Mi risveglio sul pavimento, con il pallone di Tidus tra le mani. Lui è andato, ma per poco. Deve andare da Yuna, deve amarla. Perché la ama. Deve tornare da lei. Io posso aspettarlo qui. E quando tornerà potremo giocare di nuovo a pallavolo.

La casa è un gran disordine. Fogli sparsi, la pianta rinsecchita sul bancone è caduta sul pavimento, e tutto è pieno di terra e di foglie accartocciate. Piatti e posate un po’ ovunque. Sparsi. Come il primo giorno.

Come chicchi di riso.

Non ho voglia di rimettere in ordine. Mi faccio spazio con le gambe tra i fogli e il terriccio secco, tra pezzi di piatti e -pezzi di sogni. Sono tanti, ricoprono interamente il pavimento. Ho paura che mi pungano, fanno male. Fanno tanto male.

Auron mi ricopre con la sua ombra, e improvvisamente fa più freddo.

“Che vuoi?” sbotto io, guardandolo di sottecchi.

“Ti comporti come se fossi sola nel mondo” proclama, con tono di sufficienza. Odioso bastardo -morto.

“E allora?”

Ci pensa, il maledetto trapassato.

“Io sono con te” parla come se dovesse farmi sentire bene. È frustrante vedere tanti sogni che si prendono cura di te, che cercano di farti stare meglio. E’ noioso. Non più di un amico che cerca in ogni modo di tirarti su di morale proprio quando dovrebbe tacere.

“Siamo entrambi soli” la follia mi fa sembrare una specie di poetessa depressa. Ognuno ha il proprio modo di impazzire “Potremmo farci compagnia a vicenda se tu fossi qui” dico, sperando di mettere fine a quella stupida ed inutile conversazione, e guizzo via verso il bancone, mettendo in un disordine simmetrico tutte le cose che non sono cadute a terra. C’è un grosso vaso rotondeggiante dipinto a tinte calde, probabilmente un vaso da fiori fatto a Bevelle. Ci sono delle rose dipinte.

Auron si muove senza fare rumore e mi raggiunge, mantenendo sempre un metro di lontananza. Come una distanza di sicurezza, come se fossi pericolosa. Come se fossi un animale raro e feroce.

“Tu non capisci”

Accarezzo il vaso, passando le dita sui petali di rosa.

“Cosa non capisco?”

“Io sono con te”

Non avresti dovuto dirlo.

Sbatto il vaso per terra. Mille cocci si disperdono sul pavimento, ai nostri piedi. Il rumore è unico, un solo insopportabile istante. Rumoroso, solo per poco. E come una stupida, comincio a piangere. Devo imparare a trattenere il pianto, perché sta diventando un’abitudine. Non riesco a fermarmi, con una macchina senza freni. E chi mai, meglio di un Albhed, può immaginare quanto sia pericolosa una macchina stupidamente inarrestabile?

Sono un’insopportabile frignona. Una bambina che fa i capricci.

“Tu non ci sei! Sei solo nella mia testa! Tu sei morto, da dieci anni ormai! Ci hai preso in giro, ci hai fatto solo credere che tu eri vivo!” mi fermo, a singhiozzare. Devo prendere fiato. “Invece -invece non c’eri. Non c’eri mai. Eri un’anima vagante fatta di lunioli, di ricordi e di -promesse. Tu non sei qui. Ti sto immaginando, perché in realtà sto tanto male, sto morendo dentro

Ho la voce spezzata, come quel vaso in frantumi. I singhiozzi mi saltano in gola, stringendola e dilatandola, in un gioco doloroso. Qualche lacrima scende umidiccia sulle guance ancora accese di collera e di dolore.

Non c’è niente di poetico, niente di passionale, nel provare dolore.

È patetico. Tanto patetico. Patetico, penoso, e ridicolo. Ben lontano dall’essere travolgente, appassionato, impetuoso. Le fiabe sono piene di fanciulle bellissime e incantevoli le cui lacrime fanno resuscitare i morti e fanno commuovere gli assassini.

Nella realtà, le mie lacrime non servirebbero nemmeno ad annaffiare questa piantina rinsecchita ai miei piedi.

 

Mi risveglio, con la schiena contro il bancone. La mia vita si sta riducendo ad una serie di risvegli, di dormite di cui non riesco a conservare il ricordo. Di sogni, che si mischiano al risveglio, mentre il sonno e la veglia perdono i contorni. E tutto diventa un unico incubo. Un sogno- anzi, mille sogni che si mescolano insieme, compaiono e scompaiono, vanno e vengono. La reception, ormai in un disordine impossibile da ripulire, è il teatro di questa follia.

Mi accarezzo i capelli, piegati in una bassa coda di cavallo. Sono cresciuti, le punte più lunghe arrivano lì dove dovrebbe esserci il petto. Poco distante dal cuore.

Anche il cuore si è fatto di ghiaccio, un castello di neve e di cristalli. Resta lì, seppellito tra i polmoni avidi di respiri, schiacciato tra vertebre e le costole. Batte furiosamente, scandisce i secondi, le ore che passano e trascorrono, mentre il tempo mi scivola dalle mani. Ogni battito è un istante che ho rubato alla morte.

Nel silenzio, anche il mio cuore fa tanto rumore.

 

“Devo andare via di qui” mi dico, quasi silenziosamente, rialzandomi dal pavimento. Devo scappare. Questo posto -la mia testa- è troppo affollato. Mi sento soffocare dalle persone, dalle allucinazione -dai ricordi.

Cerco di sgattaiolare dalla reception, perché le ombre mi spaventano. Auron mi afferra per una spalla ma non mi parla.

“Smettila” pronuncio, con voce spezzata. Non piango, ma è come se lo facessi. E lo odio quando mi vede così stupidamente debole.

“Guarirai”

“Non sono malata, nessuno mi ha prescritto il maledetto the albhed” rispondo, sentendo conati di vomito salire velocemente in gola al pensiero del the di Miriam fatto con erbacce e -altra roba. Solo per creare un intruglio, una brodaglia calda e insopportabile, dall’odore ripugnante; il tutto servito in una tazzina -o meglio, un cilindro di finta porcellana- da rifilare ai malati.

“Non tutte le malattie si curano col the, Rikku”

Oh, ma che fortuna! Cioè, non esistono medicine e the obbrobriosi per i malati di cervello? Ma questo è fantastico! Tutti i miei problemi sono risolti, adesso tutto andrà meglio!

Guarirò, guarirò, urla un esserino da qualche parte nel mio cervello. E penso a tante cose, a tanti fatti, a tanti ricordi. E a tutto il the che ho bevuto nella mia breve vita.

Ho voglia di vomitare, forse per il the, o forse per Miriam. Penso a lei, e penso ai due ragazzi uccisi al chiaro di luna sulla via Mihen. O forse perché ho mangiato dei funghi allucinogeni e adesso sto male. Sarà la terza volta che questa nausea mi assale.

Mi tappo la bocca con la mano, supplicandomi di non vomitare. Lo stomaco si annoda e si snoda come una grossa corda e le mie costole si piegano, fragili come vetro, mentre una bestia schifosamente viscida sale lungo il mio corpo, allacciandosi all’intestino.

Il peso della mano di Auron diventa etereo, come se non esistesse più, e finalmente libera corro in bagno. Non riesco a trattenere il dolore pulsante che sale dal ventre, che mangia, morde, rode ogni parte del mio stomaco.

Sbatto la porta del bagno e volo in ginocchio davanti alla tazza.

Niente, non ce la faccio. I conati asciutti mi tormentano lo stomaco, le costole, la gola. I polmoni pulsano furiosamente, tra la pelle e le costole. Mi affaccio di nuovo sulla porcellana, stavolta cerco di strangolarmi con due dita ficcate in gola. Non riesco a farle scendere di più, non posso. Riesco a sputare solo qualche goccia schiumosa di saliva e mi arrendo.

Non ho mangiato funghi allucinogeni. Non ho mangiato niente. Sto vivendo come se non avessi bisogno di nutrirmi. Come se essere magra come un fuscello non fosse un problema.

Faccio schifo. Come donna, come Albhed, come Rikku. 

Ormai debole, mi accascio al suolo, respirando affannosamente, e premo la fronte contro il pavimento. È meravigliosamente freddo. Come una lastra di ghiaccio. Come il cuore. Lo sento lì, in mezzo ai polmoni, che ripete come un odioso promemoria “devi vivere - devi vivere - devi vivere”

Credo di aver trovato qualcosa che è più fastidioso di Auron. Questo cuore, che ha più volontà di me stessa. Che vuole vivere. In un corpo che sta morendo, guidato da un cervello che non riconosce più la verità, che confonde passato e presente.

Ho un cuore emotivo. Tanto emotivo.

La nausea mi martella la testa, lo stomaco pulsa dolorosamente, reclamando il nutrimento di cui è stato privato.

Me ne frego del mio stomaco.

Respiro ancora, come per accertarmi di essere viva. E forte. Ho voglia di piangere, ma non posso farlo, non voglio essere una bambina. Anche se lo sono.

Mi aggrappo al mobile di legno azzurro che sorregge il lavandino per sollevarmi da terra. Ho le gambe così deboli che tremano, come se fossi un’invalida e non potessi più camminare. Ho l’affanno: prima non mi sarebbe mai successo per una tale banalità.

“Devi mangiare” sentenzia Auron appoggiato alla porta, con voce autorevole. Serio, come se fosse vero. Come se esistesse, come se fosse qui.

“Tu non esisti!” urlo, e gli lancio contro una bottiglia di vetro. Auron sparisce e al suo posto la bottiglietta prende in pieno la porta. Mi copro il viso con le braccia, per proteggermi dai frammenti di vetro che volano nell’aria rarefatta e congelata del bagno. Un liquido candido e vischioso scende dalla porta. Lento. Come un lombrico schifoso.

Sapone. Al profumo di vaniglia.

Mi guardo allo specchio. La mia figura è opaca e in ombra, alla luce soffusa sembro un mostro. Con gli occhi che profondano in cupe occhiaie tipiche di chi non dorme, o dorme male.

Nel mio caso, entrambe le cose.

Le guance sono sporche di terra, sangue e di lacrime. Devo essermi tagliata con del vetro, perché ho le mani sanguinanti e colme di cicatrici. Ho i capelli crespi, arruffati, sporchi e sudati. Sono magra, le mie spalle sembrano uscire dalla pelle e sono evidenti anche sotto la felpa.

Mi porto la linguetta della felpa fin sotto il mento, per chiudere quello scempio lontano dai miei occhi rossi e lacrimanti. Mi odio. Sono scheletrica. Sono spaventosa.

Sfioro con dita tremanti i capelli, che non sono cresciuti per niente. I miei capelli non cresceranno mai, e se vivessi nella torre di Raperonzolo, i miei capelli non avrebbero raggiunto nemmeno il davanzale dell’unica finestra della sua -la mia- prigione.

Afferro una forbice lucida e brillante dal mobile. La sua luce è invitante, per i miei occhi è troppo piacevole far luccicare le sue lame sotto le luce. È un piacere così grande che dovrebbero proibirlo. Prendo la prima ciocca di capelli, avvicino le forbici e chiudo le lame.

Rapido. Indolore. Un fruscio delizioso mi riempie le orecchie. Il rumore dei capelli tagliati è dolce, mi rilassa. Lo facevo anche da bambina. È l’unica cosa -oltre ai chocobo- che mi fa rilassare.

Questo lo dedico al mio corpo. Al mio cuore. Al mio cervello. Che essi vivano in pace, ovunque siano adesso o dove andranno. E spero che qualcuno preghi per la mia anima, come io ho pregato per l’anima degli altri. Con amore e senza fede.

Passo da una ciocca all’altra, e un’altra, poi un’altra ancora. Tagliuzzo con mano da artista, ma con gli occhi stretti, le palpebre come di carta, per non guardare lo specchio.

Mi odio, e sarò bruttissima. Più di quanto non sia adesso.

I capelli giacciono morti sulle mie spalle, si piegano a curva. Si ammassano ai miei piedi, sulla felpa, nella porcellana del lavandino. E io cerco di non guardarli, stringo ancora gli occhi, mentre gli ultimi capelli si infilano come spilli nel mio collo. Dovrebbero legarmi. Faccio delle cose stupide. E insensate. E faccio del male al mio corpo.

Guardo la mia immagine nello specchio e sorrido, pensando che adesso non dovrò più legarmi i capelli, non mi serviranno più né elastici né forcine.

Non sembro una ragazza, e i capelli non c’entrano.

Mi odio. E non voglio vedermi mai più. E -ho caldo. Ho tanto caldo.

Mi avvicino alla vasca e ci verso dentro una secchiata di acqua pulita, quella che conservavo per farmi il bagno e apro il rubinetto, sedendomi sull’orlo della vasca, ad aspettare che questa si riempisse del tutto. Sfioro l’acqua con le dita.

È gelida. È perfetta.

Mi sfilo la felpa, lasciandola cadere a terra. Afferro la maglia e mentre la sollevo ci ripenso. Questo sarà il mio ultimo bagno.

Quando mi troveranno -se mi troveranno- non voglio che mi trovino nuda. Sembrerei ancora più brutta e magra, e mi esporrei al ridicolo. Sarebbero ancor più evidenti la fame, la stanchezza, la morte. Tanto vale che mi immerga con tutti i vestiti. Se sono pazza posso farlo tranquillamente. Ai pazzi tutto è concesso. Anche lavarsi da vestiti.

 

Mi tolgo le scarpe e mi infilo nella vasca, con cautela. L’acqua è fredda e le gambe si irrigidiscono di colpo, facendomi scivolare con la schiena nell’acqua gelida. Per un attimo è tutto un rumore di acqua che schizza e il gelo mi spezza il respiro.

Ansimo, mentre mi bagno il viso con l’acqua ghiacciata, e non respiro più. Il mio cuore. Il mio cuore salta un battito. Gli sto facendo del male, lo sto punendo.

Perché ha fatto troppo rumore, anche quando avevo fatto indigestione di silenzio.

 

Nemmeno l’acqua fa rumore. O forse sono diventata anche sorda. La pazzia forse porta effetti collaterali come la perdita di alcuni dei cinque sensi?

Facciamo un conto: non sento più rumori. E questo è un problema. Non vedo bene, vedo quello che il mio cuore vorrebbe vedere.

Quanto ci vuole per distruggere gli altri tre sensi?

Poniamo fine a tutto questo. È solo la ridicola imitazione di una travolgente tragedia d’amore. Ma qui non si tratta d’amore. O forse sì.

L’amore che non c’era, né quando ero bambina, né durante il pellegrinaggio. E che, sconfitto Sin, continua a non esserci.

La verità è che sono una persona insoddisfatta, ma che sa ridere bene. Per qualunque cosa. E che ha saputo sopravvivere in condizioni drastiche, quando tutto mancava. Anche l’aria da respirare.

L’amore ha bisogno di tempo. E gli Albhed non hanno tempo. Anche quando viene il Bonacciale non c’è abbastanza tempo per amarsi, sono poche le coppie che si amano veramente nel mio popolo. Forse perché non abbiamo l’amore nel DNA, non c’è mai stato il tempo anche di pensare ad una persona amata. Forse perché non c’è mai stato insegnato.

Sopravvivere occupa molto spazio della tua vita, tra un mostro e l’altro, l’acqua che manca e gli yevoniti che ti odiano, c’è poco da vivere. Chi ama per davvero, fugge. Come ha fatto zia. Lei aveva l’amore nel sangue, nelle vene, nel DNA. Nel cuore.

Mi piace pensare che anche mia madre mi abbia amato, prima di morire. Mi piace credere che lei fosse diversa, e questo lo posso pensare solo perché non l’ho mai conosciuta. Non mi sono mai chiesta come sia stata in verità. Forse perché voglio che resti come nel mio idilliaco modo di immaginarla.

In fondo è meglio così: una persona che non conosci è quasi sempre una persona perfetta.

Gli Albhed non amano. Si legano. Agli amici, ai parenti, persino ai conoscenti. E tutto diventa un’intricata via di nodi e legacci, deboli quanto capelli spezzati. A volte ci perdiamo, ci dimentichiamo, ma non dura quasi mai per sempre. Alla fine siamo un popolo, tutto ciò che abbiamo.

I nostri legami sono labili e mal cuciti, possono aggrovigliarsi, ma mai rompersi. E sarebbe bello se questo fosse sempre vero.

Forse è per questo che la mia vita è sempre stata vuota. Cercavo l’amore senza sapere cosa fosse, stavo lì ad aspettare e aspettare, cosa naturale negli Albhed.

Ma ora mi sembra di capire, ora ci rifletto meglio.

Che forse in fondo l’amore non si impara, non si apprende. L’amore deve nascere con te, deve coesistere, nel sangue e nelle ossa, nelle vene e nei muscoli. Tutto dovrebbe essere amore.

La cosa che più mi abbatte in questo momento è che sto morendo, sto lentamente gelando nella vasca da bagno. E molto stupidamente mi sto  interrogando su cose che non avrò mai il tempo di conosce.

Mi sovviene una dolorosa fitta di ansia allo stomaco. Oppure un morso della fame.

Confondo il dolore.

I miei sensi stanno svanendo, proprio come avevo pianificato.

 

Non è detto che nella follia non ci sia un po’ di logica. 

In fondo, nulla dovrebbe essere più illogico della vita. E dei sentimenti.

 

“Sei molto stupida Rikku”

“Grazie per avermelo ricordato, mio padre me lo diceva sempre! È bello rivederti!” rispondo, schizzando l’acqua con le dita.

“Non era un complimento, lo penso davvero” replica la visione seduta al fianco della vasca da bagno.

“Allora ti ringrazio per aver detto una volta tanto quello che pensi. Sai, stai facendo passi avanti”

Non sono esattamente gentile quando sono nervosa. Soprattutto quando sto per morire. Scusate tanto.

“Avresti preferito che ti dicessi tutto appena ti ho visto? E in che modo avrei dovuto farlo?”

“Hey non cominciare, sei tu quello coi problemi, non io. Sei tu quello nella fossa” ribatto, mentre un brivido mi attraversa le membra.

“E tu stai per seguirmi, per un motivo molto più stupido di te”

Sto zitta. Sta zitto. Molto meglio ora. Si sente solo lo sgocciolio silenzioso dell’acqua che cade dal rubinetto della vasca, gelidamente insopportabile. Incrocio le braccia per appoggiarci sopra la fronte e simulare la posizione di un essere pensante. Sospiro.  

“Avresti potuto portarti dietro un cartellone e scriverci sopra -non trapassato-”

“Non sai leggere” risponde Auron. Non è davvero lui, sto solo immaginando che stia qui e che stia cercando di dissuadermi dalle mie onorevoli intenzioni. Se non c’è un antagonista che sul finale cerca di dissuadere l’eroe dal salvare la situazione non c’è suspence. Non c’è azione.

E una storia senza suspence e senza azione farebbe troppo, troppo schifo. Non varrebbe nemmeno la pena di raccontarla.

Quindi dovrei solo tacere. E basta.

Auron si alza dai miei pensieri. E mi guarda. Guarda il mio viso magro, i miei capelli tagliuzzati come quelli di una bambola sfortunata, gli occhi vacui e infossati, i vestiti zuppi appiccicati alle ossa. Non ho più un corpo. Sono aria condensata, una nuvola carica di pioggia. O forse è meglio una nuvola caduta in una pozzanghera. Suona più patetico. E rende più verosimile l’idea di cosa provo.

“Qualcuno me lo avrebbe detto Auron. Me lo avrebbero detto, anche se non so leggere” biascico io, e la mia voce striscia tra i denti e gli occhi pieni di lacrime. Per la vita che amavo, e per tutto quello che avrei voluto conoscere.

“No, Rikku, no” ribatte, quasi con affetto “Nessuno lo avrebbe fatto. Perché avresti pianto”

“Vedi, se tu ci fossi davvero nella mia vita sapresti che io ho pianto davvero” replico, stringendo i pugni, ammettendo a me stessa le lacrime che non avrei voluto piangere.

Lui riflette. Come se un’allucinazione potesse riflettere.

“Ti leghi troppo alle persone”

Din din din din! L’avevo detto io che le allucinazioni non possono riflettere e dire qualcosa di coerente!

“Non è vero”

“Non smetterai mai di soffrire se non imparerai a lasciar andare via le persone”

“Smettila!” urlo io, schizzando acqua in ogni direzione. Ghiaccio liquido mi schizza sul viso. Scotta. E brucia come acido, come olio da motore ancora caldo. E quasi non sembra vero.

Sospiro, e cerco di trovare un po’ di calma, tra la follia, la fame e il dolore. Guardo il suo unico occhio un po’ truce, un po’ malvagio. Un po’ illusorio. C’è un po’ tutto il mondo nel suo occhio brutto da cane schifoso, una sintesi perfetta dell’universo.

Grazie mille bastardo, per avermi mostrato di nuovo il cielo azzurro.

Oooooops, il tipo ha l’occhio castano, caspitaccio!

Singhiozzo, e mi distribuisco acqua su tutto il viso nel tentativo di pulirmi e sembrare meno patetica, per nascondere quello che mi scende dalle guance. Per confonderlo.

“Sai, forse non ti piacerà sentirtelo dire, ma io te lo dico lo stesso” traggo un respiro “Tu non esisti”

Mi guarda con sguardo pendente, fingendo di non capire.

“Tu sei morto. Dieci anni fa per giunta. Non esisti, non sei qui in questo momento. Tu credi di essere vero. Ma io sono qui a sfatare le tue convinzioni e a darti una triste e logica realtà: non esisti. Sei un’immagine del mio stupido cervello, un ricordo. Come al solito. Non ci sei mai stato veramente”

Lui tace. Fissa i miei tristi e stupidi resti, le mie gracili ossa scosse dal freddo, immerse in una vasca colma di acqua ghiacciata. Sono tanto ridicola. Stupida e ridicola.

“Tu stai cercando una logica in tutto quello che ti è successo per giustificare la tua incomprensione”

“Non capisco”

“Tu non hai mai amato la logica, per questo la stai cercando. Così potrai giustificarti perché non capisci cosa sia successo”

“Non sto cercando nessuna logica. Sto solo cercando di morire in pace, grazie” replico, voltando lo sguardo sulle mattonelle brutte e bianche del muro.

“E’ perché sei rimasta sola?”

Appoggio la testa all’orlo della vasca, respirando affannosamente. Non ho voglia di parlare, né di pensare. La consapevolezza di parlare da sola si fa sempre più forte, sempre più insistente. Sento i capelli bagnati, corti, appiccicati alle tempie. È brutto odiarsi con tutte le inutili forze che si stanno esaurendo. Non c’è più nemmeno l’energia di odiarsi come vorremmo, di autodistruggerci come preferiremmo. Ci sono tanti modi per morire, ma io sono qui, in una vasca ghiacciata, ad aspettare la morte, in un ultimo bagno glaciale. Da brava Albhed, so solo aspettare. Anche la fine.

Mi trema il cuore, lì, dove l’acqua ha inzuppato la pelle e reso spugnose le ossa. Come pane bagnato. Ho un peso enorme, che grava appena sul petto. E preme. E stringe.

Non più grande di un fiocco di neve. Forse nemmeno più pesante.

Forse l’unica cosa che avrei dovuto imparare da questo mio viaggio non sono delle stupide metafore brutte, ma solo che il cuore è esattamente un fiocco di neve.

 

Dopotutto i reni se non funzionano correttamente fanno calcare. Il cuore forse forma chicchi di ghiaccio? Quando non lo riscalda il calore di un inutile sentimento, diventa freddo e inservibile. E il freddo, dentro e fuori dal petto, si trasforma in piccoli cristalli, lucidi e acuminati, che si posano là, in quello spazio privato e segreto, tra la pelle e il cuore.

Lì, dove qualche sentimento dovrebbe risaldarci da dentro.   

 

Sospiro.

“E’ perché sono sempre stata sola” rispondo ai muri, all’acqua. A me.

 

La verità è che sono molto stupida, e non avevo bisogno che fosse Auron, sopraggiunto meravigliosamente dal mio stesso cervello, a dirmelo.

La verità è che sono io l’antagonista della storia. La cattiva. La perfida strega. Lui stava cercando di salvarmi. Forse non in tutte le storie l’eroe e il cattivo sono la stessa persona. Ma questa è una storia brutta, nessuno la vorrà ascoltare. Nessuna nonna prenderà in braccio i nipotini e gli racconterà la storia della povera Rikku e dei suoi problemi mentali. Piuttosto racconterebbe una storia bella come quella di Yuna. Lo farei anche io, e con ottime ragioni.

Non c’è azione. Non c’è suspence.

C’è solo una povera pazza che parla da sola, immersa fino al collo in acqua ghiacciata, sola, in un albergo sperduto nel secondo posto peggiore di Spira.

Macalania.

Il peggiore in assoluto resta sempre Bikanel.

 

Non riesco nemmeno a morire. È frustrante vedere il proprio corpo raggrinzirsi su povere ossa poco più gloriose di un ammasso di resti umani. Vorrei piangere. La vasca è così larga che mi sembra un oceano, e io galleggio appena, come una foglia su una pozzanghera. Una pozzanghera molto grande. In questa vasca ci nuotano squali e mostri marini, li sento mentre affondano i denti nei fianchi, nelle gambe, nella schiena. A rosicchiare qualche ossicino spugnoso.

Sento un rumore, il primo vero rumore non causato da me in tutto questo tempo.

Il portone si apre con uno scatto, mi sembra di udire il vento che si infila in casa, attraversando corridoi e stanze che non gli appartengono.

Dei passi. Passi incerti.

E’ il mostro. Il mostro dello specchio. Oppure è l’angelo della morte. Forse sto morendo per davvero.

No Rikku, rifletti. Magari è solo un rapinatore che ha visto il locale abbandonato.

Nessuno passa per Macalania. Nessuno.

 

Riempio i miei stanchi polmoni di tutta l’aria della stanza, creando il vuoto intorno a me. E affondo. Con la testa sotto l’acqua. Con le ossa che tremano. Con la pelle che stinge, diventando bianca, grinzosa.

Col fiato stretto nei polmoni, il petto immobile, l’acqua che si sta lentamente congelando sopra di me, so che ora nessuno potrà salvarmi.

 

Questa storia fa schifo, e decido io come finirla. Patetica e irrazionale.

Proprio come piace a me.

Senza senso. Così nessuno se la ricorderà.

 

 

   
 
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