Ogni
giovedì
Alle
otto, ogni giovedì mattina, puntuale come la
morte come sempre, arriva lei, la
professoressa di
greco. Un sorriso, anzi, ghigno, fa capolino sulle sue labbra; sulla
fronte, le
sopracciglia si
contraggono in un modo inquietante, irriproducibile per una persona
normale –da
studiare in
laboratorio, a parere di molti.
«Buongiovno, vagazzi.»
Ad orecchie inesperte, parole simili possono suonare gentili, ma gli
alunni sanno che non è
altro che
una terribile minaccia. Si alzano tutti in piedi, non per rispetto
–c’è qualche
pazzo che osa pensarlo,
ah!-, bensì per
l’occhiata truce che
li induce alla fuga; restano incollati al terreno solamente per la
forza di gravità, che diventa improvvisamente più
forte. Dopo poco crollano
scompostamente sulle
sedie, tra lo
spaventato e il distrutto.
Ma no, la professoressa non è contenta. Si
siedono prima le
ragazze, poi i
ragazzi. Quindi di
nuovo tutti in piedi –forse dimentica di non insegnare
educazione
fisica?-, poi gli
alunni si siedono come
da lei imposto.
Accomodata alla cattedra, squadra tutti con il suo malevolo sguardo,
fino a
fermarsi su due alunni,
un ragazzo e una
ragazza, compagni di
banco. Loro tremano, alla disperata ricerca dei compiti,
perché
hanno capito: loro sono le
vittime sacrificali della giornata, loro sono gli interrogati. Tutti
gli altri si
rilassano
impercettibilmente, ma non osano fiatare: lei
potrebbe ancora cambiare idea.
L’insegnante sfila -con la gestualità che chiunque
solitamente riserverebbe ad
una katana- la penna
dal portapenne e
apre il registro,
pronta a chiamare le ormai chiare vittime. No, lei non ha bisogno
di fare
l’appello: ha capito chi è
presente e chi no con l’occhiata iniziale. Fa i nomi, i
martiri si
alzano, prossimi
alle lacrime: fino
all’ultimo avevano sperato di salvarsi. Illusi.
Con il passo dei condannati a morte, gli interrogati si avvicinano alla
cattedra, e posano i quaderni
con i compiti. L’insegnante li apre, li sfoglia e segna una
grande X rossa
sulle pagine: sono
sbagliati, a prescindere. Una
vittima
geme piano: c’aveva messo ore il giorno prima a scrivere
tutto.
Chiude i quaderni, li mette in un angolo, non servono. Sfila il libro
agli
interrogati, e loro iniziano a
recitare e tradurre a memoria le
versioni. Il ragazzo si interrompe,
vuole informare che quel pezzo
della versione non gli è ben chiaro, perché il
complemento lì presente non è
mai stato spiegato.
Dalla muta platea di alunni, si alza una risatina isterica. La
professoressa
guarda il ragazzo con
disprezzo: cioè, non è ovvio?
Lei si
dovrebbe abbassare a spiegare i
complementi? Si devono
dedurre dal contesto: non importa che quei ragazzi sono del primo anno
e che
fino a pochi mesi
prima non sapessero nemmeno cosa fosse il greco - dovevano intuire. Quel ragazzo avrà
quattro
subito, decide, ma vuole prolungare l’agonia. Inizia con le
domande. Le
declinazioni contratte. La
ragazza si oppone debolmente: non aveva mai assegnato
quell’argomento.
L’insegnate alza un
sopracciglio; secondo quella,
dovrebbe interrogare solo su cose che hanno fatto?! Ah, la
gioventù:
una manica di stolti ingenui! Manda a posto i due, delusa. Avranno
quattro, non
conta poi che le
cose le sapessero.
Ad un tratto decide di essere clemente e si alza: dice che se le cose
non sono
chiare, bisogna dirlo,
perché è disposta a ripetersi.
Un alunno alza la mano: non ha capito le contrazioni nei verbi. Lei punta il dito.
«Sciocchi, ve l’ho già spiegato la volta
scovsa,
se non capite non
sono pvoblemi miei.»
Lo sconcerto non fa nemmeno più presa nei ragazzi, stupidi
loro che si erano
fidati.
Qualche minuto ancora di silenzio, il terrore è palpabile. Lei sta scribacchiando ininterrottamente
sul registro.
La campanella suona, finalmente. E’ fatta, la prima ora
è andata, e “adesso la
vecchia deve spedire
quel suo maledettissimo culo fuori da qua”, pensano
tutti. Però no, lei non
si alza. Inizia a guardarli
con aria di sfida, poi parla. «Ah, non lo sapevate? Devo fave supplenza quest’ova.»
Gli studenti si guardano l’un l’altro.
L’inferno durerà ancora un’ora.
Note
dell'autrice.
No, davvero non lo so. Non ho idea di come questo delirio mi sia venuto
in
mente, so solamente che
l'ho scritto e una volta riletto mi ha fatto ridere,
così ho deciso di pubblicarlo: per strappare un sorriso
a qualcuno, magari. :))
E chissà se la vena comica ce la vedo solo io o cosa
°_°
Oh, beh. Io l'ho pubblicato; comunque vada sono soddisfatta di questa
cosa che
non so neanche cosa
sia xDD
Fatemi sapere che ne pensate *3*
K.C.