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Autore: Iridescent Flame    28/08/2012    5 recensioni
Dalla storia:
Mi avvicinai al suo letto, poggiandomi contro uno dei mobili: “Ti turba la mente come turba la mia?” chiesi.
Si alzò a sedere in uno scatto veloce, mi guardava con i suoi occhi attenti e indagatori, nemmeno la semioscurità riusciva a proteggermi: “Non capisco di cosa parli” disse.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Quiet and Chaos

 

Londra, 221B Baker Street.

17:02

Sorseggiavo il tè caldo che avevo appena preparato, mentre ne posavo una tazza fumante sulla scrivania della stanza di Sherlock. Era steso sul divano ad occhi chiusi, le mani giunte sotto il viso come faceva di solito quando rifletteva. Come e a cosa stesse pensando mi era oscuro e, in tutta sincerità, preferivo così.
Non doveva essere poi un bel posto la testa di Sherlock Holmes. Disordinata, sconclusionata, organizzata in modo anormale e con una metodica sconosciuta ai normali esseri umani.
“Ho preparato il tè.” dissi dopo un po’, lui rimase immobile come se non avessi parlato. Sospirai e scuotendo la testa mi avviai alla porta, posai la mano sul pomello: “Grazie, John”. Mi voltai sorpreso, lui aveva ancora gli occhi chiusi ed era ancora immobile ma assorto com’era mi aveva sentito, ed aveva detto grazie, ancora me ne stupivo ogni volta. Non risposi e tornai alla mia poltrona e al mio giornale, trattenendo un piccolo sorriso.

Girai pagina e posai la tazza vuota sul tavolino accanto a me quando il rumore di qualcosa che si rompeva quasi me la fece cadere. Mi alzai di scatto e lasciai ricadere il giornale sulla poltrona.
“Che succede?” domandai, aprendo di fretta la porta che poco prima mi ero chiuso alle spalle. La tazza con il tè era in pezzi sul pavimento e il liquido impregnava la moquette. Lui fissava fuori dalla finestra ancora con la sua aria assorta.
“Il tè era troppo caldo” disse lui, voltandosi a guardarmi mentre raccoglievo schegge di ceramica verde.
“Questa era una buona ragione per rompere una tazza?” domandai, alzandomi e ammucchiando i resti sulla scrivania ingombra di fogli e oggetti su cui era meglio non indagare.
“E’ puerile, era una tazza John” fece un cenno con la testa come se quello fosse l’ultimo dei suoi pensieri; sospirai e finii di raccogliere le ultime briciole della tazza.
“Vado a prendere qualcosa per asciugare. Tu potresti non rompere altro, per favore?” mi raccomandai e andai in cucina per prendere qualche tovagliolo per tastare la moquette e asciugarla. Quando rientrai in camera lui era fermo immobile dove l’avevo lasciato, l’unico dettaglio differente era la manica della vestaglia tirata al gomito e i cerotti alla nicotina sul braccio.
“John” disse, alzai lo sguardo su di lui ma stava guardando altrove e così asciugai alla meglio il pavimento.
“Cosa c’è?” chiesi, aggirando la scrivania e avvicinandomi a lui. Seguii la direzione del suo sguardo e osservai fuori, il marciapiedi di fronte. Era vuoto e mi resi conto che non stava realmente guardando fuori, forse stava solo pensando.
Rimasi qualche minuto ad aspettare che rispondesse, ormai mi ero abituato ai suoi modi di fare anche se così fastidiosi e probabilmente per altri impossibili da sopportare.
A conti fatti Sherlock Holmes era solo, escludeva e veniva escluso dal mondo e entrambi si cercavano quando avevano bisogno l’uno dell’altro. Spesso mi sentivo come una finestra, per lui. Certe volte il mondo per lui doveva essere disorientante, per qualcuno che aveva il caos più totale nella mente e ne cercava intorno a se. Io ero il suo opposto, un punto lontano che poi diventava la strada per la calma di cui aveva bisogno. Forse era per questo che ci eravamo trovati, ci bilanciavamo. Anche se forse Sherlock stesso non se ne rendeva conto, poteva anch’essere: Non era poi meglio di me nei contatti umani.
“Devo fare un esperimento” disse dopo un po’. Mi voltai a guardarlo leggermente incuriosito.
“Un nuovo caso?” domandai, sorridendogli. Lui annuì e si spostò verso il divano,
prese qualcosa e la mise dentro la tasca della vestaglia che poi si chiuse. Il nodo che fece non era del tutto perfetto.
“Una specie” disse, avvicinandosi a me e guardandomi negli occhi.
“Vorresti aiutarmi, per favore?” chiese, il lieve sarcasmo sempre presente nella sua voce quando doveva chiedere qualcosa in toni gentili.
Io annuì, continuando a sorridergli: “Sì, certamente” dissi. Si avvicinò di più, la sua espressione era molto seria e quando si fece più vicino quasi mi aspettavo che mi dicesse di prendere quello che si era messo in tasca. Mi colse di sorpresa quando prese il mio viso tra le mani, erano fredde, e avvicinò il suo viso al mio.
Il suo respiro mi sfiorò le labbra, non osai aprire bocca. Il cuore prese a battere forte, mi prese una strana ansia che mi chiuse lo stomaco e mi fece sbarrare gli occhi.
Le sue labbra toccarono le mie, i nostri sguardi erano l’uno nell’altro. Vedevo l’azzurro delle sue iridi così perfettamente che pensavo di stare per affondarvi, affondare dentro di lui.
Le sue labbra erano morbide, sentivo solo la loro presenza contro le mie e quando provò a schiudere le mie cedetti facilmente ancora sorpreso. Ci si aspettava un pronto riflesso a un contatto indesiderato da parte di un ex soldato, però quel contatto per me non era indesiderato.
Insospettato, non indesiderato.
Il suo sguardo era attento, potevo ancora vedere i suoi occhi perfetti; avevo paura di quello che poteva scorgere nel mio. Sorpresa, comprensione, desiderio nascosto. Io non potevo saperlo, non ero più la calma ora, ero il caos. Si staccò troppo presto, sentivo sulle labbra solo tracce troppo flebili per poter apprezzare appieno il suo sapore.
“Dovresti chiudere gli occhi. Se non  lo fai non potrò mai giungere all’esatta conclusione” disse, la sua bocca lontana dalla mia di tre centimetri e le sue mani ancora sul mio viso.
Posò di nuovo le labbra sulle mie, chiuse gli occhi e io feci lo stesso. Rimasi immobile tra le sue mani e mi concentrai solo sulla bocca attaccata alla mia.
Tranquillamente mi schiuse le labbra e la sua lingua sfiorò il mio labbro inferiore prima di cercare la mia. Fu lui a guidare il bacio, prendendo il sopravvento come faceva sempre. Lasciò il mio viso, risalendolo con una mano che s’intrecciò ai miei capelli mentre l’altra mi circondò le spalle e mi spinse contro il suo petto. Per reazione e per bisogno lo strinsi a mia volta, annullando definitivamente quei pochi centimetri che ancora ci separavano. Le nostre lingue si cercarono, io sentivo la sua presenza e il suo sapore che m’invadevano la bocca. Non avrei mai potuto immaginarlo ma non era nemmeno qualcosa che poteva essere descritto, era e basta.
S’interruppe improvvisamente, troppo presto. Rimasi ad occhi chiusi anche dopo che lui si fu allontanato, immobile. Il contatto terminò del tutto quando tolse, bruscamente, le mani dal mio viso.
Aprii gli occhi immediatamente, lui era davanti a me e mi guardava o meglio mi trapassava con lo sguardo. Stava scavando dentro di me e io sentivo la confusione che mi albergava dentro agitarsi per mostrarsi ai suoi occhi, mi voltai e uscii in fretta dalla stanza. Lui non parlo e non mi fermò. Mi chiusi la porta alle spalle.

 

All’ora di cena, avevo sgombrato il tavolo della cucina e avevo mangiato. A farmi compagnia c’era stato solo il rumore del cucchiaio che cozzava con il piatto, un po’ triste. Dalla camera di Sherlock non proveniva alcun rumore. Ci ero entrato per portargli la cena e l’avevo trovato steso sul letto, immobile, a riflettere. Avevo posato il piatto sulla sua scrivania e poi ero uscito, nessuno dei due aveva parlato.

Ora era notte fonda e dalla sua camera proveniva solo un fastidioso ticchettio mentre io fissavo il soffitto, disteso sul mio letto, lasciando che i pensieri corressero senza direzione e senza senso. Mi alzai a sedere e mi guardai le mani vuote, probabilmente lui avrebbe dedotto in che modo avevo riposto i piatti solo a guardare le mie dita. Quel pensiero mi strappò un sorriso. Non mi ero ancora svestito, mi sistemai meglio il maglione grigio e mi avvicinai alla sua porta, da dentro proveniva ancora quel ticchettio. Bussai con la mano ma non aspettai che mi dicesse di entrare, in effetti non lo faceva quasi mai.
Era steso sul letto, apriva e chiudeva un portasigarette, vuoto, di ferro argentato. La stanza era buia, c’era solo la luce che proveniva da fuori a rischiararla.
Rimasi sulla soglia, lui non si alzò ma smise di aprire e chiudere il portasigarette come ad aspettare che io dicessi qualcosa. Sempre deduttivo.
Mi avvicinai al suo letto, poggiandomi contro uno dei mobili: “Ti turba la mente come turba la mia?” chiesi.
Si alzò a sedere in uno scatto veloce, mi guardava con i suoi occhi attenti e indagatori, nemmeno la semioscurità riusciva a proteggermi: “Non capisco di cosa parli” disse. Sentivo che mi stava studiando, che mi stava rivoltando come più gli aggradava per capire, per capirmi.
“Non c’è posto per me nel tuo palazzo mentale” asserii, guardandolo negli occhi. Io non potevo leggere i suoi pensieri da uno sguardo però seppi che quella frase aveva fatto breccia. Ne ero sicuro senza esserlo del tutto.
Lui non rispose, chiuse gli occhi e tacque immergendosi di nuovo nelle sue riflessioni.
Sbuffai ed, esasperato come mai, fuggii da Sherlock Holmes e dal ricordo di un esperimento che aveva portato il caos dove prima era calma.

La porta della sua stanza e poi quella di casa sbatterono alle mie spalle e quando anche la soglia del 221B di Baker Street fu lontana una decina di passi mi voltai a fissare la porta chiusa. Sarei tornato, ormai la mia vita era lì con l’uomo strano che abitava quell’appartamento. Alzai lo sguardo verso la sua finestra, lui era lì.
Lo guardai per un solo secondo poi mi voltai camminando a passo spedito fino a voltare l’angolo, allontanandomi dalla tentazione di voltarmi e guardare i suoi occhi accendersi sulla realtà.

 

 

 

Sherlock Holmes

Lo sentii che usciva, che si chiudeva con forza ogni porta alle spalle e mentre lui si allontanava, nella mia mente entravano nuove consapevolezze.
Non c’è posto per me nel tuo palazzo mentale.

Ad ogni passo un muro veniva abbattuto.
Non c’è posto.
Mi alzai dal letto, il portasigarette di freddo acciaio cadde per terra in un tonfo sordo. Osservai la forma del suo corpo e mi concentrai sulle sue spalle, le solide spalle che avevano protetto e salvato uomini fino a non molto tempo prima. Si voltò, ricambiai il suo sguardo e poi lui tornò a girarsi e ad allontanarsi da me.
Ti turba la mente. Non c’è posto.
“Non mi turba la mente, perché ho già le idee chiare.” dissi. Il mio fiato appannò il vetro e quando finalmente sparì, lui già non c’era più.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NdA:
Un po’ di spazio a lei, cioè me, che riempie di Angst tutto e tutti. Yee. Ok basta. Allora… Prima Johnlock e dobbiamo ringraziare soprattutto Manu che era lì a dare idee a suggerire il finale, picchiate lui nel caso. Secondi ringraziamenti vanno al mio amore platonico, Francesca, che si è sorbita i miei divaghi, mattutini e non, su ship varie :3 E anche a Cate, come possiamo dimenticarci di lei che mi beta senza essere la beta? Lavori troppo, tesoro. Va beh credo di aver detto anche abbastanza idiozie per il momento… Se vi piace fatemelo sapere, se non vi piace anche. Va bene pure se volete dirmi che sono scema, non mi offendo mica :3

  
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