Quiet
and Chaos
Londra, 221B
Baker Street.
17:02
Sorseggiavo
il tè caldo che avevo appena preparato,
mentre ne posavo una tazza fumante sulla scrivania della stanza di
Sherlock. Era steso sul
divano ad occhi chiusi,
le mani giunte sotto il viso come faceva di solito quando rifletteva.
Come e a
cosa stesse pensando mi era oscuro e, in tutta sincerità,
preferivo così.
Non doveva essere poi un bel posto la testa di Sherlock Holmes.
Disordinata,
sconclusionata, organizzata in modo anormale e con una metodica
sconosciuta ai
normali esseri umani.
“Ho preparato il tè.” dissi dopo un
po’, lui rimase immobile come se non avessi
parlato. Sospirai e scuotendo la testa mi avviai alla porta, posai la
mano sul
pomello: “Grazie, John”. Mi voltai sorpreso, lui
aveva ancora gli occhi chiusi
ed era ancora immobile ma assorto com’era mi aveva sentito,
ed aveva detto grazie, ancora me ne
stupivo ogni volta.
Non risposi e tornai alla mia poltrona e al mio giornale, trattenendo
un
piccolo sorriso.
Girai pagina e posai la tazza vuota sul tavolino accanto a me quando il
rumore
di qualcosa che si rompeva quasi me la fece cadere. Mi alzai di scatto
e
lasciai ricadere il giornale sulla poltrona.
“Che succede?” domandai, aprendo di fretta la porta
che poco prima mi ero
chiuso alle spalle. La tazza con il tè era in pezzi sul
pavimento e il liquido
impregnava la moquette. Lui fissava fuori dalla finestra ancora con la
sua aria
assorta.
“Il tè era troppo caldo” disse lui,
voltandosi a guardarmi mentre raccoglievo
schegge di ceramica verde.
“Questa era una buona ragione per rompere una
tazza?” domandai, alzandomi e
ammucchiando i resti sulla scrivania ingombra di fogli e oggetti su cui
era
meglio non indagare.
“E’ puerile, era una tazza John” fece un
cenno con la testa come se quello
fosse l’ultimo dei suoi pensieri; sospirai e finii di
raccogliere le ultime
briciole della tazza.
“Vado a prendere qualcosa per asciugare. Tu potresti non
rompere altro, per
favore?” mi raccomandai e andai in cucina per prendere
qualche tovagliolo per
tastare la moquette e asciugarla. Quando rientrai in camera lui era
fermo
immobile dove l’avevo lasciato, l’unico dettaglio
differente era la manica
della vestaglia tirata al gomito e i cerotti alla nicotina sul braccio.
“John” disse, alzai lo sguardo su di lui ma stava
guardando altrove e così asciugai
alla meglio il pavimento.
“Cosa c’è?” chiesi, aggirando
la scrivania e avvicinandomi a lui. Seguii la
direzione del suo sguardo e osservai fuori, il marciapiedi di fronte.
Era vuoto
e mi resi conto che non stava realmente guardando fuori, forse stava
solo
pensando.
Rimasi qualche minuto ad aspettare che rispondesse, ormai mi ero
abituato ai
suoi modi di fare anche se così fastidiosi e probabilmente
per altri
impossibili da sopportare.
A conti fatti Sherlock Holmes era solo, escludeva e veniva escluso dal
mondo e
entrambi si cercavano quando avevano bisogno l’uno
dell’altro. Spesso mi sentivo
come una finestra, per lui. Certe volte il mondo per lui doveva essere
disorientante, per qualcuno che aveva il caos più totale
nella mente e ne
cercava intorno a se. Io ero il suo opposto, un punto lontano che poi
diventava
la strada per la calma di cui aveva bisogno. Forse era per questo che
ci
eravamo trovati, ci bilanciavamo. Anche se forse Sherlock stesso non se
ne
rendeva conto, poteva anch’essere: Non era poi meglio di me
nei contatti umani.
“Devo fare un esperimento” disse dopo un
po’. Mi voltai a guardarlo leggermente
incuriosito.
“Un nuovo caso?” domandai, sorridendogli. Lui
annuì e si spostò verso il
divano, prese
qualcosa e la mise dentro la tasca della
vestaglia che poi si
chiuse. Il nodo che fece non era del tutto perfetto.
“Una specie” disse, avvicinandosi a me e
guardandomi negli occhi.
“Vorresti aiutarmi, per favore?” chiese, il lieve
sarcasmo sempre presente
nella sua voce quando doveva chiedere qualcosa in toni gentili.
Io annuì, continuando a sorridergli:
“Sì, certamente” dissi. Si
avvicinò di
più, la sua espressione era molto seria e quando si fece
più vicino quasi mi
aspettavo che mi dicesse di prendere quello che si era messo in tasca.
Mi colse
di sorpresa quando prese il mio viso tra le mani, erano fredde, e
avvicinò il
suo viso al mio.
Il suo respiro mi sfiorò le labbra, non osai aprire bocca.
Il cuore prese a
battere forte, mi prese una strana ansia che mi chiuse lo stomaco e mi
fece
sbarrare gli occhi.
Le sue labbra toccarono le mie, i nostri sguardi erano l’uno
nell’altro. Vedevo
l’azzurro delle sue iridi così perfettamente che
pensavo di stare per
affondarvi, affondare dentro di lui.
Le sue labbra erano morbide, sentivo solo la loro presenza contro le
mie e
quando provò a schiudere le mie cedetti facilmente ancora
sorpreso. Ci si
aspettava un pronto riflesso a un contatto indesiderato da parte di un
ex
soldato, però quel contatto per me non era indesiderato.
Insospettato, non indesiderato.
Il suo sguardo era attento, potevo ancora vedere i suoi occhi perfetti;
avevo
paura di quello che poteva scorgere nel mio. Sorpresa, comprensione,
desiderio
nascosto. Io non potevo saperlo, non ero più la calma ora,
ero il caos. Si
staccò troppo presto, sentivo sulle labbra solo tracce
troppo flebili per poter
apprezzare appieno il suo sapore.
“Dovresti chiudere gli occhi. Se non
lo
fai non potrò mai giungere all’esatta
conclusione” disse, la sua bocca lontana
dalla mia di tre centimetri e le sue mani ancora sul mio viso.
Posò di nuovo le labbra sulle mie, chiuse gli occhi e io
feci lo stesso. Rimasi
immobile tra le sue mani e mi concentrai solo sulla bocca attaccata
alla mia.
Tranquillamente mi schiuse le labbra e la sua lingua sfiorò
il mio labbro
inferiore prima di cercare la mia. Fu lui a guidare il bacio, prendendo
il
sopravvento come faceva sempre. Lasciò il mio viso,
risalendolo con una mano
che s’intrecciò ai miei capelli mentre
l’altra mi circondò le spalle e mi
spinse contro il suo petto. Per reazione e per bisogno lo strinsi a mia
volta,
annullando definitivamente quei pochi centimetri che ancora ci
separavano. Le
nostre lingue si cercarono, io sentivo la sua presenza e il suo sapore
che
m’invadevano la bocca. Non avrei mai potuto immaginarlo ma
non era nemmeno
qualcosa che poteva essere descritto, era e basta.
S’interruppe improvvisamente, troppo presto. Rimasi ad occhi
chiusi anche dopo
che lui si fu allontanato, immobile. Il contatto terminò del
tutto quando
tolse, bruscamente, le mani dal mio viso.
Aprii gli occhi immediatamente, lui era davanti a me e mi guardava o
meglio mi
trapassava con lo sguardo. Stava scavando dentro di me e io sentivo la
confusione che mi albergava dentro agitarsi per mostrarsi ai suoi
occhi, mi
voltai e uscii in fretta dalla stanza. Lui non parlo e non mi
fermò. Mi chiusi
la porta alle spalle.
All’ora
di
cena, avevo sgombrato il tavolo della cucina e avevo mangiato. A farmi
compagnia c’era stato solo il rumore del cucchiaio che
cozzava con il piatto,
un po’ triste. Dalla camera di Sherlock non proveniva alcun
rumore. Ci ero
entrato per portargli la cena e l’avevo trovato steso sul
letto, immobile, a
riflettere. Avevo posato il piatto sulla sua scrivania e poi ero
uscito,
nessuno dei due aveva parlato.
Ora era notte
fonda e dalla sua camera proveniva solo un fastidioso ticchettio
mentre io fissavo il soffitto, disteso sul mio letto, lasciando che i
pensieri
corressero senza direzione e senza senso. Mi alzai a sedere e mi
guardai le
mani vuote, probabilmente lui avrebbe dedotto in che modo avevo riposto
i
piatti solo a guardare le mie dita. Quel pensiero mi strappò
un sorriso. Non mi
ero ancora svestito, mi sistemai meglio il maglione grigio e mi
avvicinai alla
sua porta, da dentro proveniva ancora quel ticchettio. Bussai con la
mano ma
non aspettai che mi dicesse di entrare, in effetti non lo faceva quasi
mai.
Era steso sul letto, apriva e chiudeva un portasigarette, vuoto, di
ferro
argentato. La stanza era buia, c’era solo la luce che
proveniva da fuori a
rischiararla.
Rimasi sulla soglia, lui non si alzò ma smise di aprire e
chiudere il portasigarette
come ad aspettare che io dicessi qualcosa. Sempre deduttivo.
Mi avvicinai al suo letto, poggiandomi contro uno dei mobili:
“Ti turba la
mente come turba la mia?” chiesi.
Si alzò a sedere in uno scatto veloce, mi guardava con i
suoi occhi attenti e indagatori,
nemmeno la semioscurità riusciva a proteggermi:
“Non capisco di cosa parli”
disse. Sentivo che mi stava studiando, che mi stava rivoltando come
più gli
aggradava per capire, per capirmi.
“Non c’è posto per me nel tuo palazzo
mentale” asserii, guardandolo negli
occhi. Io non potevo leggere i suoi pensieri da uno sguardo
però seppi che quella
frase aveva fatto breccia. Ne ero sicuro senza esserlo del tutto.
Lui non rispose, chiuse gli occhi e tacque immergendosi di nuovo nelle
sue
riflessioni.
Sbuffai ed, esasperato come mai, fuggii da Sherlock Holmes e dal
ricordo di un
esperimento che aveva portato il caos dove prima era calma.
La porta della sua stanza e poi quella di casa sbatterono alle mie
spalle e
quando anche la soglia del 221B di Baker Street fu lontana una decina
di passi
mi voltai a fissare la porta chiusa. Sarei tornato, ormai la mia vita
era lì
con l’uomo strano che abitava quell’appartamento.
Alzai lo sguardo verso la sua
finestra, lui era lì.
Lo guardai per un solo secondo poi mi voltai camminando a passo spedito
fino a
voltare l’angolo, allontanandomi dalla tentazione di voltarmi
e guardare i suoi
occhi accendersi sulla realtà.
Sherlock
Holmes
Lo
sentii che usciva, che si chiudeva con forza ogni
porta alle spalle e mentre lui si allontanava, nella mia mente
entravano nuove
consapevolezze.
Non c’è posto per me nel
tuo palazzo
mentale.
Ad
ogni passo un muro veniva abbattuto.
Non
c’è
posto.
Mi
alzai dal letto, il portasigarette di freddo
acciaio cadde per terra in un tonfo sordo. Osservai la forma del suo
corpo e mi
concentrai sulle sue spalle, le solide spalle che avevano protetto e
salvato
uomini fino a non molto tempo prima. Si voltò, ricambiai il
suo sguardo e poi
lui tornò a girarsi e ad allontanarsi da me.
Ti
turba
la mente. Non
c’è posto.
“Non
mi turba la mente, perché ho già le
idee chiare.” dissi. Il mio fiato appannò il vetro
e quando finalmente sparì,
lui già non c’era più.
NdA:
Un po’ di
spazio a lei, cioè me, che riempie di Angst tutto e tutti.
Yee. Ok
basta. Allora… Prima Johnlock e dobbiamo ringraziare
soprattutto Manu che era
lì a dare idee a suggerire il finale, picchiate lui nel
caso. Secondi
ringraziamenti vanno al mio amore platonico, Francesca, che si
è sorbita i miei
divaghi, mattutini e non, su ship varie :3 E anche a Cate, come
possiamo
dimenticarci di lei che mi beta senza essere la beta? Lavori troppo,
tesoro. Va
beh credo di aver detto anche abbastanza idiozie per il
momento… Se vi piace
fatemelo sapere, se non vi piace anche. Va bene pure se volete dirmi
che sono
scema, non mi offendo mica :3