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Autore: nena92    29/08/2012    7 recensioni
Roma, 1943. Seconda Guerra Mondiale.
A diciotto anni Alice è una ragazza come tutte le altre, bella e intelligente, anche se ha un padre gretto e chiuso che aiuta i nazisti e sente la mancanza del fratello, scappato pochi anni prima perchè non andava d'accordo con le ideologie del padre. è cresciuta con le sue idee, e sogna un futuro luminoso e promettente una volta che la guerra sarà finita....ma il padre gli da una notizia: lei dovrà sposare il figlio di un gerarca nazista.
GermaniaxNyoNordItalia.
Genere: Guerra, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Germania/Ludwig, Nord Italia/Feliciano Vargas
Note: AU | Avvertimenti: Incompiuta
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Avviso importante: Questa storia non ha la pretesa di essere un’opera storica e non lo sarà mai. Qualsiasi incongruenza o sbaglio temporale, comunque, l’autrice se ne prende la completa responsabilità. Questa storia vuole solo far conoscere e rendere onore ad un grande amore realmente esistito.

“ Sono proibiti rapporti tra ebrei e cittadini dello Stato di sangue tedesco e affine”.
Paragrafo 1, Legge “Per la protezione del sangue e dell’onore tedesco”.Norimberga  1935.

Roma, 1943

“Spesso bastano poche sillabe per esprimerti quello che dice il cuor, quando vedo te…
E nell’estasi di una musica io ti mormoro tre….del cuor, cuor…quello che mi dice…
Treman le mie labbra allor…parlono d’amor…”

“Ba – Ba baciami piccina con la bo – bo bocca piccolina”. Canticchiò una ragazza, arricciando in modo scherzoso la piccola bocca, rosea e piena, a mo di dare baci.“ Dammi tanti baci in quantità….”. Sollevò le piccole braccia al cielo e fece una graziosa piroetta su stessa, facendo così gonfiare la parte inferiore del vestito che portava addosso. Divertita per l’effetto, la giovane fece di nuovo un’altra piroetta, con più forza. E le lunghe trecce marroni, fissate ordinatamente ai lati del capo, si mossero insieme a lei, per poi pendolare dietro la schiena magra.
Quando la ragazza provò a fare un’altra piroetta su se stessa, credendosi ormai una ballerina, perse l’equilibrio e cadde rovinosamente sopra il tappeto, con un sonoro tonfo.
Leggermente dolorante, lei alzò il busto , puntellandosi sui gomiti e sulle ginocchia. Una volta che si mise gattoni, improvvisamente dalla sua gola si spiegò una risata sonora, fresca e allegra. Era caduta davanti allo specchio e quando aveva visto il suo viso rosso e paonazzo, e le sue trecce penzolare ai lati del suo viso, non aveva potuto fare a meno di ridere per la scena ridicola e buffa.
“Alice, tu sei nata con due piedi sinistri”. Si disse sola la giovane ragazza con un sorriso una volta che si mise in piedi. “Ha ragione tuo padre quando ti dice che hai il grazia di un elefante”. E sorrise divertita mentre si risistemava le trecce e il vestito.
Sorrise soddisfatta e compiaciuta davanti allo specchio. Indossava un bellissimo abito nero con le spalline abbassate color bianco. Gliel’aveva comprato sua nonna durante uno dei suoi viaggi, in Francia. La prima volta che se l’era provato, e aveva appena compiuto diciasette anni, sua nonna con un sorriso gli aveva detto che somigliava ad un’attrice. Anzi, sembrava una donna. Ovviamente tale somiglianza a suo padre non era suonata bene, così come il vestito, che subito aveva iniziato a litigare aspramente con la nonna. Diceva—anzi urlava—che una brava ragazza, soprattutto se italiana e di buona famiglia, non doveva indossare simili abiti, che lei era ancora una bambina. E alla fine aveva chiuso la conversazione sbattendo la porta e intimando ad Alice di far sparire immediatamente il vestito. Fortunatamente il vestito era rimasto in casa, grazie ad un compromesso che aveva fatto con sua nonna. L’avrebbe indossato solo nei momenti in cui rimaneva in camera sua. Dove nessuno poteva vederla. Soprattutto suo padre. 
Ultimamente però c’era un problema con quel vestito. In alcuni punti gli andava stretto. Nell’ultima estate era cresciuta. Da secca come un chiodo, improvvisamente, era diventata tutta natiche e braccia, cosce e seno. Soprattutto quello. E il fatto che gli stesse crescendo le costituiva non pochi problemi. Aveva paura che se gli continuava a crescere non avrebbe più potuto indossare il suo bellissimo vestito. Comunque, dal’altro canto, di altezza non era cresciuta molto, anche se il vestito gli arrivava di poco sopra il ginocchio. Era quasi di media altezza. E il suo viso aveva conservato tratti infantili, rimanendo pieno nelle guancie e morbido nei lineamenti della faccia, facendo così sembrare i suoi occhi molto grandi. Una volta una sua amica gli aveva confessato che i suoi occhi sembravano quelli di una cerbiatta. Ma a lei non piacevano, soprattutto per il colore che era marrone e che sembrava che gli donasse un aspetto anonimo e scialbo. Come avrebbe voluto avere gli occhi di sua madre. Verdi come smeraldi. Così una volta gliela aveva descritti suo padre.
Comunque il vestito che indossava gli dava l’impressione di essere un’altra. Ogni volta che lo indossava non vedeva più davanti a lei una ragazzina con il corpo da donna e il viso da bambina. Sgraziata e scialba, per niente armonica. Davanti a lei si presentava una ragazza, matura e bella, tanto armonica e aggraziata nel corpo, da potersi definire donna. Una donna con un futuro davanti, magari da condividere un giorno con un uomo valoroso e coraggioso al suo fianco. Una volta che la guerra fosse finita.
 “Sembro proprio una donna”. Osservò compiaciuta Alice, mettendosi su un fianco e poi sull’altro per guardare meglio la sua figura, magicamente trasformata.
“Alice”. Una voce, bassa e grave, la chiamò dall’altra parte della porta.
“Un attimo papà”. Rispose agitata la ragazza cercando una coperta o qualcosa a portata di mano che gli permettesse di nascondere il vestito. Fortunatamente trovò una vestaglia e rapidamente la indossò mentre si avvicinava alla porta per aprirla.
“Ti sei appena alzata?”. Domandò con viso duro e accigliato suo padre mentre con i suoi due occhi neri e penetranti la osservava attento.
“Sì”. Mentì la ragazza per poi portarsi una mano davanti alla bocca e fingere uno sbadiglio.
“Vestiti e vieni subito nel mio ufficio”. Disse l’uomo, con quel tono sbrigativo e autoritario che usava solo con i suoi soldati o con le cameriere della casa.
“Sì, papà”. E chiuse lentamente la porta mentre guardava la figura massiccia e imponente di suo padre allontanarsi con passo rigido e svelto lungo il corridoio.

Una volta che si cambiò di abiti, Alice si diresse verso lo studio di suo padre, che si trovava nell’ala opposta della casa. Con passo veloce e leggero percorse il corridoio lungo e buio.
Una volta davanti alla porta dello studio del padre, dove l'era stato assolutamente vietato di entrare,  bussò piano e lentamente.
“Entra”. Gli rispose severa la voce da dentro la stanza.
Alice aprì la porta e si guardò intorno, molto interessata. Era la prima volta che suo padre la chiamava nel suo studio. La stanza era grande e ampia, il soffitto alto e bianco. I muri erano coperti da enormi scaffali di legno nero e lucido. Vi erano anche due grandi librerie, che contenevano al loro interno libri dalle copertine scolorite e logore, e anche alcuni oggetti antichi.
 Alle spalle del padre vi era una grande finestra, da dove Alice poteva osservare il giardino, e sopra di essa vi era appesa orgogliosamente la bandiera italiana, a fianco un manifesto nero che recitava il famoso motto: Credere, Obbedire, Combattere.
“Siediti”. Gli disse l’uomo, indicando con un gesto secco una poltrona di pelle nera davanti alla sua scrivania, ordinata e piena di fogli ammucchiati.
Lei obbedì e si mise seduta sull’orlo della poltrona, cercando di assumere una posa adulta ed elegante.
“Devo dirti una cosa”. Iniziò a dire suo padre, mentre la guardava con espressione seria e importante. “Riguarda te e il tuo futuro”.
Alice si mosse nervosa sopra la poltrona, avvertendo uno sgradevole presentimento.  Guardò fuori dall’ampia finestra dietro le spalle di suo padre. Le sue rose ancora non era sbocciate.
“Bene” iniziò suo padre. “Io ti ho fatta venire qui, perché ho una bellissima notizia da darti”.
La ragazza alzò gli occhi.
“Tra poche settimane ti sposerai”.
Alice si sentì mancare. “Che cosa?” chiese con le labbra divenute insensibili.
“Tra poche settimane ti sposerai”. Continuò suo padre “Ormai è già tutto organizzato. Celebrato il matrimonio andrai a vivere in Germania”.
Alice sentì lo stomaco stretto in una morsa dolorosa. La stanza oscillava davanti ai suoi occhi e il pavimento sembrava sprofondarle sotto i piedi.
 “Non sei felice?”. Domandò stranito suo padre mentre la fissava dall’altra parte della scrivania.
La ragazza cercò di dire “No, non sono felice”. Ma l’unica cosa che riuscì a fare fu di scuotere la testa.
“Bene, il ragazzo che tu sposerai è figlio di un noto gerarca nazista a capo delle SS e molto vicino a Hitler. È di qualche anno più grande di te, ma non troppo”. Continuò a spiegargli suo padre con la voce tronfia e orgogliosa. “è un ottimo partito”.
La ragazza guardò suo padre, cercando di dominare l’ansia e l’agitazione, che dopo la notizia avevano iniziata ad assalirla, impedendole di parlare e difendersi.
“Ormai sei grande. Direi che a diciotto anni sei quasi una donna. Quindi è il momento per te di costruire una famiglia”. Sorrise come convinto delle sue parole “E quale migliore occasione per te, figlia mia, di farlo a fianco di un valoroso soldato tedesco?”.
Lei lo fissò con il cuore che gli scoppiava.
“Ma io non voglio sposarmi!”. Nel dire l’ultima parola sentì una nuova ondata di nausea. “Io non voglio sposarmi. No, non voglio”. E scosse la testa con vigore, da una parte all’altra, strizzando gli occhi. “E le mie amiche e l’università?”.
“Smettila di fare i capricci. Ormai non sei più una bambina, Alice”. Disse duro suo padre, insensibile di fronte all’espressione di panico e paura dipinto sul volto della figlia.
“No, non voglio! Non costringermi ti prego!”. Detestava il suono supplichevole, lacrimoso della sua voce, ma non riusciva a dominarsi. “Io non voglio sposarmi”.
Ma il padre non gli diede ascoltò e continuò a parlare. “Sii ragionevole, figlia mia. Lo sai quanti giovani italiani stanno morendo in questa guerra?”. E fissò la ragazza con espressione seria e ragionevole. “ Non possiamo sapere quanti altri anni durerà questa guerra e quanti soldati ci rimarranno alla fine. Quindi, figlia mia, dato che Dio ti ha concesso la grazia di essere donna, il tuo compito sarà quello di dare alla luce bambini, sani e robusti, che un giorno combatteranno e moriranno a fianco di altri soldati. Per l’Italia!”.
Alice continuò a guardare suo padre, con occhi increduli e attoniti. Non riusciva a parlare. La sua mente era così smarrita e confusa dalle parole del padre—così convinto e serio—che non riusciva a rispondere. Ma davvero suo padre credeva in quello che stava dicendo?
“Sinceramente parlando”. Continuò suo padre, tirando un sospiro. “Quello che dovevi imparare, intendo le cose basilari, le hai già imparate nella società “Giovani italiane”. Ricordati la prima lezione: alle donne sta il parto, come agli uomini sta la guerra. Quindi tu non stai altro che mettendo in pratica una regola basilare e sacra per una giovane donna. Dai più figli all’Italia, come il Duce vuole, e mi renderai orgoglioso!”. Esclamò alla fine con fervore, quasi alzandosi dalla sedia, come se si trovasse ad una delle famose assemblee in piazza che il Duce teneva.
Ad Alice non sfuggì che suo padre non gli aveva fatto cenno—come esempio che avvalorasse quello che aveva appena detto—a nessuna delle figlie dei suoi subalterni che frequentavano il circolo insieme a lei.  Anche loro avevano diciotto anni come lei. Anche loro potevano avere tanti figli, come lei. Ma Evidentemente a nessuno dei loro padri sembrava sano e naturale darle in spose, neanche fossero state oggetti, a soldati sconosciuti. Forse, i loro padri, le ritenevano all’altezza di frequentare università, degne di un futuro migliore.
Chiuse le mani in due pugni, con rabbia e risentimento, mentre sentiva il suo cuore come trafitto da qualcosa di tagliente e freddo simile ad un coltello.
“Inoltre,” proseguì suo padre. “l’avvicinamento a questa famiglia non farebbe altro che dare prestigio alla nostra—so quanto voi ragazze ci tenete a questo genere di cose—oltre che darmi l’opportunità di avvicinarmi al Duce. Quello che stai per fare, figlia mia, andrà a vantaggio di entrambi”.
“Non voglio” ripeté Alice. Guardò con insistenza suo padre “Non voglio, non costringermi a farlo”. Ormai la sua voce, da determinata che era prima, stava diventando debole e fioca. Aveva la sensazione che qualcosa di pungente e fastidioso le stesse raschiando la gola, costringendola a tossire più volte per far sparire la sensazione e quindi a rimanere in silenzio.
“Non posso” disse con voce fioca la ragazza, per poi abbassare il viso, contrito per la paura, sul pavimento. Il cuore, per quanto batteva veloce, le stava facendo pulsare le orecchie in modo sgradevole.
Vide una scarpa di suo padre strusciare nervosamente sul pavimento e sentì il tamburellio scoordinato di dita sopra la scrivania. Poche volte aveva visto suo padre fare così, ma quando si muoveva in quel modo significava solo che si stava arrabbiando e molto.
“Alice”. Lo sentì ringhiare con voce bassa e minacciosa.
Cercando un’ultima volta di opporre resistenza, lei disse “Ti prego, tienimi con te”.
Battendo con forza la mano sopra la scrivania, l’uomo tuonò “E invece ti sposerai! Che tu lo voglia o meno e non si discute!”.
Improvvisamente la figura di suo padre si fece prima appannata e alla fine sfocata. Quando si fece di nuovo vivida sentì qualcosa di bollente e umido bagnargli le guancie.
“E adesso vattene in camera tua”. Ordinò il padre, indicando con un gesto la porta.
Impaurita e spaventata la ragazza si alzò dalla poltrona, si diresse verso la porta e tentoni cercò la maniglia, che riuscì a vederla solo dopo che le lacrime scesero sul suo viso. Una volta aperta, si allontanò con passo lento, che poi divenne veloce, sino a trasformarsi in una corsa disperata e cieca.
Spalancando la porta della sua camera, la chiuse immediatamente dietro di sé e goffamente si gettò sopra il letto. E pianse a gola spiegata, soffocando ogni tanto i forti singhiozzi che gli uscivano dalla bocca e gli facevano tremare il petto.


Lo Speaker corner di nena92: Questo mio piccolo angolino, che di solito l'uso per commentare e scusarmi, in questa occasione vorrei usarlo per spiegare delle cose molto importanti e serie. Innanzitutto ho voluto scrivere questa storia per una tesina che ho portato al mio esame di Maturità e soprattutto ho deciso di scrivere questa storia, per condividerla con altri. Grazie alla mia tesina, per pura casualità, ho incontrato un giorno un'anziana signora sopra l’autobus. Era bella e gentile. E mi ha parlato di questa storia. Di una storia che ha potuto vedere come testimone quando ancora era una bambina e della quale conserva un diario. Questa che presento è la storia raccontata da un’anziana signora, un tempo una bambina, tragica ma piena di amore e speranza. Nonostante il tempo in cui è svolta. La Seconda Guerra Mondiale. Una storia che mi ha fatta piangere dentro. 
Del perché e del come questa storia continui, spero tanto che voi vogliate saperlo, continuando a leggerla. Questo amore è realmente esistito e fa riflettere molto. Quando leggiamo i libri di storia impariamo le date e i fatti. Non ci fermiamo mai a riflettere se quel determinato giorno o anno, che noi ripetiamo come pappagalli, abbia significato qualcosa per qualcuno. Ci dimentichiamo anche, che durante la guerra l’amore è esistito, forse nascosto come la luce nel buio, ma è esistito e ha portato un po’ di luce nella vita della gente. E questo amore che io racconto, ha portato una grande luce ai due protagonisti della storia.
L’unica domanda che vi dovrete porre durante la storia, sarà la seguente “ Quanto l’amore può essere più forte della fede e superare una ideologia?”.
Con questa domanda, io vi lascio, con la speranza che vogliate continuare a leggere.
Baci da nena92.

  
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