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Autore: Dazel    29/08/2012    4 recensioni
Non avevo mai avuto il coraggio di strappare quel foglio dal calendario.
Non avevo mai trovato il coraggio di scrivere cos'era successo. Di accettare. Di mettere quel ricordo nella scatola.
Era rimasto appeso al muro, per giorni, per settimane, per mesi, per anni.
Come se lasciarlo lì, vuoto e bianco, potesse davvero significare che non era mai accaduto niente.
Che il tredici novembre non fosse mai esistito.
Genere: Angst, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi, Slash | Personaggi: Jonghyun, Key
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Note iniziali: A coloro che si cimentano nella lettura di questa oneshot... Buona fortuna! Lo dico davvero, perché credo che sia una storia talmente stupida da necessitare per forza degli auguri, almeno per motivarvi un po'! Non so come mi sia uscita fuori, o forse sì! È la prima storia di “questo tipo” che scrivo quindi penso che sia stata un po' un fallimento come oneshot... In ogni caso, non lo so! Mi vengono in mente almeno un paio di persone a cui poterla dedicare, ma è una cosa così angst che penso mi prenderebbero direttamente a secchiate in faccia! Quindi evito...!

Sto parlando troppo... Buona lettura!


Dentro la scatola


«Hyung, andiamo a bere qualcosa»
«No, oggi no.»
«Te lo chiedo proprio perché è oggi, hyung.»


Mia madre mi aveva comprato uno di quei calendari a cui vengono strappati dei fogli giorno per giorno. Lo avevo appeso nel mio salotto, sotto l'orologio a forma di gatto che mi aveva regalato Bumie quando avevo annunciato che sarei andato a vivere da solo. Avevo strappato fogli per nove mesi, appuntandoci le cose più importanti che erano successe giorno per giorno e conservandole in una scatola.


Tre marzo, ho preso la patente.

Otto aprile, compleanno.

Ventidue aprile, primo bacio con Bumie (e affianco a questa nota, avevo disegnato un cuore).


Ogni piccolo avvenimento se ne stava chiuso in una scatola, sotto il mio letto, in modo che un giorno, magari da vecchio, quando la mia vita si sarebbe fatta lenta e pacata, avrei potuto riprendere in mano ogni mio ricordo e con dolcezza, rendermi conto di quanto felice e completa fosse stata la mia vita.


Le cose però erano andate a finire diversamente.


La bottiglia di Rum se ne stava sul tavolo da ore, ormai, e continuava a svuotarsi senza tregua. Le mie mani correvano sul suo collo freddo e riempivano il bicchiere fino all'orlo. La mia bocca, insaziabile, succhiava l'alcolico come fosse stato ossigeno, la mia gola lo accoglieva senza nemmeno bruciare più. Il mio stomaco era così pieno da premere dolorosamente contro il costato, ma non mi interessava. Non mi importava nulla se non smettere di provare quel dolore accecante. Volevo solo dimenticare.


E dimenticare era probabilmente l'unica cosa che non sarei mai riuscito a fare.


La prima volta che io e Kibum facemmo l'amore, era un giorno di giugno. Ricordo che il ciliegio fuori dalla sua finestra era in fiore e che i petali rosa erano volati sul davanzale. «Sono bellissimi» aveva detto sorridendo, catturandone uno tra le dita.

«Tu sei bellissimo.»

Le nostre labbra si erano unite in un bacio dolce, profondo, un bacio che mi aveva dato le vertigini, che mi fece sentire come se stessi prendendo il volo. Le mie mani si erano strette contro il suo corpo e le sue labbra si erano piegate in un sorriso. «So di essere bellissimo» aveva detto prima di baciarmi di nuovo, così intensamente da farmi perdere il senso della ragione, della realtà. Non esisteva più niente se non Kibum e il suo corpo, il suo calore, il sapore e il calore della sua bocca. «Ti amo.»


Un altro bicchiere. Un altro ancora. E poi ancora, ancora, ancora.


Il venti di agosto gli chiesi di venire a vivere con me. Pensavo di essere un folle a chiedergli di fare un simile passo dopo così poco tempo, ma se ero pazzo, lui lo era quanto me, perché accettò. Ricordo che il suo volto si dipinse di sorpresa, e poi i suoi occhi iniziarono a luccicare e un paio di lacrime scivolarono contro le sue guance. Non lo avevo mai visto piangere, ed era così buffo che non riuscii proprio a trattenermi dal ridere. E lui si imbronciò, gonfiando le guance e dandomi un pizzicotto. «Non ridere, scemo» aveva mormorato prima di baciarmi.


Avevamo portato in casa tutti i suoi affetti personali: vestiti, libri, fotografie che per lui erano importanti, la sua intera collezione di cd. Guardando la mia casa dopo aver finito, mi ero reso conto di quanto prima fosse stata vuota. Ora guardando le pareti e trovandole piene di souvenir colorati, aprendo l'armadio e vedendo i vestiti della persona che amavo, andando a letto e sentendo il suo odore, mi accorgevo che tutto era finalmente completo. Non so cosa mi avesse fatto Kim Kibum, non so quando avevo iniziato ad amarlo. Ma era come essere rimasto intrappolato nella tela di un ragno. Non avevo via di scampo, e non meditavo la fuga.


Quando la bottiglia fu vuota, mi sentii vuoto anche io. L'alcol era in circolo, scorreva veloce nelle mie vene e amplificava il battito del mio cuore, che risuonava come un tamburi in guerra nelle mie orecchie. Il mio cuore era a brandelli, sanguinava così tanto da invadermi i polmoni, rendendomi faticoso respirare. Alzai gli occhi, sapendo che quel semplice gesto mi avrebbe ucciso come nemmeno mille coltelli, o cento colpi di pistola sarebbero mai riusciti a fare.


13 novembre.


Non avevo mai avuto il coraggio di strappare quel foglio dal calendario.

Non avevo mai trovato il coraggio di scrivere cos'era successo. Di accettare. Di mettere quel ricordo nella scatola.

Era rimasto appeso al muro, per giorni, per settimane, per mesi, per anni.

Come se lasciarlo lì, vuoto e bianco, potesse davvero significare che non era mai accaduto niente.

Che il tredici novembre non fosse mai esistito.


«La dottoressa Park è preoccupata, hyung. Non stai più andando alle sedute?»
«Non ne ho bisogno, Minho ah. Sto bene.»
«Non stai bene. Da quanto tempo non fai un pasto decente? Da quanto tempo non ti fai una doccia?»
«...»
«Non puoi continuare a vivere così, hyung.»
«Va bene.»
«Andrai dalla dottoressa Park?»
«Mangerò qualcosa, e mi farò una doccia.»


«Arriverò in dieci minuti, non ci metterò molto, promesso~»
Avevo chiuso la telefonata, sorridendo e stendendo le gambe sul divano. L'aria si era fatta talmente fredda che era impossibile restare in casa in pigiama senza ausilio di copertina poggiata addosso. Mi ero stretto al paile e avevo acceso il televisore, gettando di tanto in tanto un occhio alla zuppa che cuoceva in pentola.


Kibum sarebbe arrivato subito.

Lo aveva detto.


Mi ero messo a guardare un telefilm, uno di quelli così complessi e pieni di personaggi da confonderti subito. Non ero riuscito a seguire nemmeno un istante di quella storia, e prima che me ne rendessi conto mi ero addormentato. Avevo riaperto gli occhi solo molto più tardi, alle ventidue, quando l'odore di bruciato mi aveva tappato completamente le narici. Spensi il fuoco e buttai la zuppa, prima di guardare che ore fossero e sentire il sangue raggelarmi nelle vene.


Kibum doveva essere arrivato almeno tre ore fa.


«Hyung... Mi dispiace»
«Non dire che ti dispiace, Minho! Non dirlo!»
«H-Hyung-»
«Tu non sai cosa significa! Non lo sai! Allora non riempirti la bocca di parole che non riesci nemmeno a capire!»


Era il novembre più freddo degli ultimi dieci anni, in Corea. L'oceano aveva fatto calare una nebbia fittissima sulla città, e sebbene fosse ancora autunno, le strade avevano fatto in fretta a ghiacciarsi.


Era bastato un attimo.


«Hyung, non puoi continuare a vivere in questo modo.»
«Hai ragione. Non posso continuare a vivere.»


Non ero mai andato al cimitero a trovarlo. Avrebbe fatto troppo male.

Non avevo mai staccato quel dannato foglio dal muro. Avrebbe fatto troppo male.

Non avevo mai passato una sola sera da sobrio, dal tredici settembre. Avrebbe fatto troppo male.


Ma nonostante tutti i miei accorgimenti,

nonostante tutti i tentativi di fuggire da qualcosa che non potevo accettare,

continuava a fare male da morire.


   
 
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