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Autore: PapySanzo89    30/08/2012    5 recensioni
Qualcuno era mai morto piangendo?
La risposta era no. Semplicemente perché lo aveva provato sulla sua pelle. Quando iniziava a mancargli l’aria, la vista iniziava a diventare appannata e finiva semplicemente per svenire o per ritrovarsi a fare respiri brevi e corti, che poi diventavano sempre più profondi e lunghi, finché non si ritrovava accucciato sul divano in posizione fetale, stanco come avesse fatto il giro del mondo correndo. Così si addormentava.
Nemmeno questa volta era riuscito a morire.
Post-reichenbach, Sherlock vuole tornare a casa sua in Baker Street, mentre John sta tentando di andare avanti in qualche modo.
Genere: Fluff, Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: Suppongo di dover dire che John e Sherlock e un po’ tutti quanti non mi appartengono… Oh, l’ho appena fatto. Non scrivo a scopo lucro (ma per fama e gloria mwahahaha… okay la smetto…).
 
Ringraziamenti: (Sì, li metto prima di tutto.) Ringrazio infinitamente Jess che mi ha s(o)upportato e mi ha detto una cosa tipo ‘’Tranquilla Nat, se era una cacca te lo dicevo senza mezzi termini :D’’ e che anche per postare mi ha aiutata (molta, troppa pazienza) Love you so Jess <3.
Linny che mi ha betato tutto arrivando anche fino le due di mattina e scrivendomi SMS minatori quando mi buttavo giù di morale! (Ti porterò l’anguria e leggeremo tante fic insieme. Grazie davvero <3).
Eli che mi ha fatto notare che il rapporto Myc/Sherlock aveva qualcosa che stonava e così ho provveduto a cambiarlo almeno un minimo (grazie davvero! ‘’Mastini! Miao!’’).
E ringrazio anche i miei amici di qui che l’hanno letta (Sunny, Rey, Marisol) che non hanno mancato in critiche o commenti positivi… Tipo ‘’Ma guarda, da come parli non avrei mai pensato che sapessi scrivere una storia :D’’ Sì Rey, sto guardano te.
Ora, buona lettura :D
 
 
 
 
 
 
 
 
Di una cicatrice rimane solo il ricordo.
 
 
In vita sua, Sherlock Holmes aveva provato paura talmente poche volte che si potevano contare sulle dita di una mano: quattro, per l’esattezza.
La prima volta fu a sette anni, quando Mycroft lo aveva preso e buttato giù da un molo senza dargli neanche la possibilità di trattenere il respiro dalla sorpresa. L’altezza non era elevata, probabilmente erano appena quattro metri, ma ciò di cui Sherlock ebbe veramente paura fu l’acqua, troppo torbida e scura per vedere cosa ci si potesse nascondere sotto. Il tutto passò con un’alzata di spalle da parte del padre, il quale difese Mycroft dicendo che il figlio maggiore voleva soltanto giocare con lui, la madre invece alzò gli occhi al cielo e fece accomodare il minore vicino a sé sulla brandina.
La seconda volta lui e John avevano già iniziato la loro convivenza. Del caso Baskerville, preferiva non parlare più.
La terza volta ebbe luogo su un tetto. Su quel maledettissimo tetto.  Quella volta, però, non aveva paura di saltare giù, non aveva paura della morte. Del resto, una volta che ti fracassi il cervello sull’asfalto, di cosa potresti avere realmente paura? Finiva tutto lì e poi, lui e Molly, in realtà avevano un piano. No; aveva paura per John. Perché sarebbe rimasto solo, ferito, non si sarebbe capacitato di quel gesto e, soprattutto, si sarebbe dato la colpa per non aver capito tutto dall’inizio e per essersene andato, dandogli della ‘’macchina’’.
Mentre Sherlock sarebbe sempre stato a conoscenza di ogni spostamento del dottore, quest’ultimo non avrebbe saputo niente di lui (per sempre? Sarebbe dovuto rimanere morto per sempre? Non lo avrebbe più potuto vedere? Sentirlo parlare? Sentirsi dire quanto fosse fantastico?). Non riuscì a frenare quel pensiero e gli scesero sulle guance un paio di lacrime, fortunatamente invisibili a John da quella distanza, mentre lanciava il telefono a terra prima di lasciarsi cadere nel vuoto.
La quarta volta successe in un giorno come un altro. L’unico a sapere della sua falsa morte (Molly a parte) era suo fratello; messo al corrente solo dopo “l’increscioso incidente” (così lo aveva definito Mycroft), il quale decise di portarsi Sherlock a casa, non credendo che un altro posto sarebbe stato altrettanto sicuro.
Vagava in giro per quella che ormai era diventata la sua camera, e un groppo gli serrò lo stomaco. Erano passati ormai quasi tre anni -tre anni!- dall’ultima volta che aveva potuto parlare con John e quella sensazione allo stomaco ultimamente lo attanagliava giorno dopo giorno e iniziava a tormentarlo. Aveva paura che il suo dottore potesse dimenticarsi di lui, di relegarlo in un angolino della sua mente finché un giorno non si sarebbe nemmeno ricordato del suo volto; lo avrebbe incontrato per sbaglio in città senza neanche riconoscerlo e sarebbe semplicemente passato oltre.
“No, John non lo farebbe mai”, si strinse nelle spalle al pensiero e continuò a girare nella stanza come una trottola. Mancava poco, veramente poco, e sarebbe potuto ritornare alla luce, sarebbe potuto uscire da lì e tornare a Baker Street (portandosi dietro John, che aveva prevedibilmente deciso di trasferirsi).
Sentì bussare alla porta e si fermò un secondo, giusto per riconoscere di chi potessero essere le nocche dall’altra parte.
«Entra, Mycroft». Tornò a puntare gli occhi sulla moquette e a camminare in circolo come una tigre in gabbia.
Il fratello entrò con il suo solito aplomb, vestito di tutto punto alle sette e trenta di mattina, teneva in una mano uno dei suoi soliti ombrelli e nell’altra una busta, evitando accuratamente di guardare Sherlock negli occhi. Notando però lo strano comportamento del Governo Britannico, Sherlock si fermò e iniziò a fissarlo.
«Cosa c’è?», gettò gli occhi sulla busta come a dire “so che c’entra qualcosa” ma aspettò la reazione dell’altro.
Mycroft avanzò di qualche passo nella sua direzione e gli allungò la busta, che l’altro gli strappò quasi dalle mani, aprendola e guardando cosa ci fosse dentro di essa. Alzò un sopracciglio alla vista di una foto -non una foto di John-, che ritraeva una donna di al massimo quarant'anni, con dei capelli castano chiaro raccolti in una treccia, mentre teneva per mano un bambino non più grande di dieci anni. Sollevò lo sguardo dalla foto per guardare negli occhi il fratello.
«Non mi dà l’aria di essere una perfida cospiratrice, né ben che meno uno scagnozzo di Moriarty, stavamo cercando un uomo –oltretutto- mi pare di ricordare.» la sua voce uscì aspra e cattiva, non aveva voglia di altri casi, se era questo che gli stava proponendo l’altro. Tutta la sua mente doveva essere incentrata solo sul caso… e John. Non c’era spazio per nient’altro.
L’uomo si schiarì la voce e si lisciò con una mano la giacca Armani di un bel grigio fumo, continuando a non guardare il fratello che iniziava a mettersi sulla difensiva.
«Questa donna si chiama Mary Morstan…» iniziò Mycroft, facendo leva sul suo ombrello. «E pare che il dottore inizi a considerare la relazione con lei in maniera molto seria.»
                         
                                                                                        *         *         *
 
John stava sorridendo a un bambino seduto composto sulla sedia del suo ufficio, la madre era venuta per dei forti mal di testa e lui le aveva prescritto degli antidolorifici, raccomandandole poi di tornare a farsi vedere entro due settimane in caso il dolore non le fosse passato, ma era il bambino a preoccuparlo maggiormente. Era troppo tranquillo per un bimbo della sua età e per il freddo che faceva fuori (e anche dentro, il riscaldamento era rotto) era strano che respirasse a bocca aperta come se gli mancasse l’aria. Gli poggiò una mano sulla fronte e appurò che aveva la febbre, per di più decisamente alta; l’occhio poi gli cadde sulla zona della cute, vicino alle tempie.
«Signora Davies, suo figlio ha mai avuto la varicella?»
La donna iniziò a massaggiarsi le tempie, ogni rumore la infastidiva. Ci pensò un attimo su.
«No» rispose solo, senza sapere cos’altro aggiungere.
Il dottore annuì e tornò alla scrivania sospirando.
«Dovrò prescriverle degli antistaminici e antifebbricitanti per suo figlio. Dovrei mandarla dal pediatra, ma siccome ci conosciamo, per stavolta faremo un’eccezione, va bene?»
La signora lo guardò sbigottita e poi guardò il figlio.
«Ma non dovrebbe avere febbre o… altri sintomi?»
«Le consiglio di chiamare suo marito e di farvi venire a prendere in auto.» rispose senza aggiungere altro. La donna si avvicinò e si accucciò davanti a suo figlio per toccargli la fronte. Ringraziò il medico, prese le ricette e chiamò il marito con tono preoccupato, portando alla bell’e meglio il figlio in braccio fuori dalla stanza.
 
Nel primo pomeriggio, finito il turno in ambulatorio, John andò a sedersi in una caffetteria aspettando l’arrivo di Mary. Sorrise alla cameriera affabile e ordinò intanto un caffè nero. Probabilmente il traffico non dava tregua a nessun’ora del giorno, solitamente era lei a dover aspettare lui.
La campanella all’entrata suonò e una voce squillante lo richiamò dai suoi pensieri.
«John!» in men che non si dica si ritrovò due braccia attorno al collo.
«Ciao Michael, dov’è la mamma?»
Il bambino alzò lo sguardo di un verde acceso negli occhi blu del dottore.
«Sta cercando parcheggio maledicendo ogni Santo che si ricorda.»
John sorrise, immaginando quest’ultima al volante a imprecare (le aveva detto milioni di volte di non farlo di fronte al figlio). Non si poteva di certo dire che fosse una donna molto fine, alle volte.
Il campanello della porta suonò di nuovo e fece la sua comparsa Mary, i capelli che erano raccolti in una coda di cavallo non erano ordinati come avrebbero dovuto essere, probabilmente aveva pure perso le staffe contro il povero volante. Si stava sistemando la maglietta sotto la giacca che era salita al di sopra dell’ombelico continuando a borbottare tra sé e sé.
Vide John e si sbracciò urtando una cameriera che salvò in extremis il caffè nero del dottore. Mary si scusò più volte e si avvicinò al tavolo, posando un leggero bacio sulle labbra del compagno e sedendosi di fronte a lui, facendo anche spazio al figlio. La cameriera fece ben attenzione ad appoggiare il caffè il più lontano possibile dalla donna e chiese cos’altro potesse portare. Michael ordinò una fetta di torta e una cioccolata calda, Mary un semplice cappuccino. Passarono un bel pomeriggio a parlare del più e del meno e a sorridersi.
 
John stava per incamminarsi verso la strada di casa, salutò Mary con un bacio e tanti sorrisi, e un abbraccio a Michael che si aggrappò a lui per poi iniziare a saltellare attorno alla madre; era decisamente troppo iperattivo. Dovette però fermarsi al supermercato per fare un po’ di spesa, sorrise alla cassiera che gli fece l’occhiolino di rimando, uscì con due borse belle piene, urtò per sbaglio una signora e le sorrise chiedendole scusa, poi, finalmente, poté mettere piede sulla soglia di casa.
Non era nulla di particolare, ma semplicemente un piccolo appartamentino vicino a Baker Street (era vero che voleva andarsene da quella casa, ma voleva comunque essere vicino alla Signora Hudson), abbastanza sciatto e spoglio, quasi come quello che aveva preso appena tornato a Londra dall’Afghanistan, ma a lui andava bene così. Non aveva bisogno di altro.
Salì le tre rampe di scale con un po’ di difficoltà e aprì la porta. Posò la borsa sul tavolino della cucina (che fungeva anche da soggiorno) e iniziò con calma a mettere a posto la spesa.
Gli serviva il suo tempo, ogni giorno; gli serviva un po’ di tempo, per lui, per le sue cose. Mise sul fornello il bollitore e aprì l’anta della credenza per prendere una tazza; generalmente prendeva le tazze di Mary ma, di solito, aveva compagnia quando lo faceva (quasi sempre quella della donna). Invece quando gli serviva il suo tempo, semplicemente prendeva quella tazza. Quella che usava a Baker Street, e che ora aveva una piccola scheggiatura sul bordo. La riempì d’acqua lasciando dentro le foglie di the per tre minuti, poi prese lo scolino e filtrò il liquido, aggiunse una fetta di limone e il the era pronto. Ormai lui lo beveva così.
Si sedette sul divanetto, incastrato a forza tra una credenza e un armadio, e poggiò la tazza sul tavolino di fronte a sé.
«Bene…» si disse, prese un profondo respiro e iniziò a fare mente locale.
Si era alzato, lavato, vestito, era uscito di casa per andare a lavorare e aveva sorriso. Aveva visto i pazienti e aveva sorriso. Aveva sentito Greg al telefono e aveva sorriso. Aveva visto Mary e aveva sorriso. Aveva sorriso alla cassiera, alla vecchietta, a chiunque. Si era comportato in modo abbastanza normale. Erano due anni, quattro mesi e sedici giorni che si comportava in modo abbastanza normale.
Accese la Tv e alzò il volume un po’ più del dovuto ma meno di quello che avrebbe provocato l’ira dei vicini. Appoggiò il telecomando, dopodiché si piegò su se stesso, riuscendo quasi a poggiare la fronte sulle ginocchia, e iniziò a piangere.
Pianse aprendo la bocca come a voler fare uscire tutto il dolore del mondo, come se qualcosa di nero e oscuro dovesse uscir fuori dal suo stomaco per depositarsi a terra e lasciarlo finalmente libero. Dalla bocca non uscì un suono, era talmente forte il dolore che non lo riusciva nemmeno a esprimere, le lacrime gli bagnarono i pantaloni e le mani, che stavano tentando di fermare quel fiotto violento ma che poi ricaddero inermi davanti a lui. Ogni tanto usciva un singhiozzo che lo faceva quasi strozzare; non respirava, non riusciva praticamente a farlo, preso ogni volta da un attacco di panico e, nemmeno a dirlo, non faceva mai niente per fermarlo. Ogni tanto si ritrovava a pensare che andava bene, che avrebbe dovuto morire in quel posto e in quel modo. Qualcuno era mai morto piangendo?
La risposta era no. Semplicemente perché lo aveva provato sulla sua pelle. Quando iniziava a mancargli l’aria, la vista iniziava a diventare appannata e finiva semplicemente per svenire o per ritrovarsi a fare respiri brevi e corti, che poi diventavano sempre più profondi e lunghi, finché non si ritrovava accucciato sul divano in posizione fetale, stanco come avesse fatto il giro del mondo correndo. Così si addormentava.
Nemmeno questa volta era riuscito a morire.
 
Si risvegliò il giorno dopo con un forte mal di testa, che ormai gli era amico, e si alzò per prepararsi una rapida colazione. La zoppia era tornata a fargli visita qualche giorno dopo la morte di Sherlock e sembrava non volersene andare più. Aveva lasciato Ella, la sua psicologa, e aveva continuato il suo cammino, la sua riabilitazione, da solo. Non stava funzionando ma, cosa ben peggiore, non aveva nessuna voglia che la cosa funzionasse. Davanti agli altri non zoppicava e non portava il bastone (cose che invece faceva in casa), semplicemente si appoggiava ai muri o ai corrimano con un gesto casuale, ignorando il dolore alla gamba e continuando a sorridere come niente fosse. Avrebbe dovuto fare l’attore, era troppo bravo.
Prese il bastone da dietro il divano -doveva pur nasconderlo, non fosse mai che qualcuno andasse malauguratamente a trovarlo- e s’incamminò ai fornelli. Il cellulare vibrò.
«Buongiorno» rispose allegro, senza nemmeno guardare il numero, solitamente a quell’ora del mattino era Mary.
«Ciao John, senti, ricordi per caso dove ho messo il mio ferma capelli?»
Quella donna era esilarante e impossibile.
 

        *         *         *

 
Mycroft per una volta in vita sua, anzi, per l’unica volta in vita sua, non sapeva bene come gestire la situazione. Sherlock era seduto sul divano del salotto e lo guardava in tralice. Erano passati diversi giorni da quando gli aveva mostrato la foto della signorina Morstan e da allora era rimasto chiuso in camera sua senza mangiare nulla e senza lasciarsi avvicinare da nessuno. Doveva pensare. “Dio onnipotente, come se non si fosse già ridotto a uno scheletro che cammina” pensava Mycroft ogni volta che lo vedeva e il cuore gli si stringeva sempre di più, mosso da compassione e senso di colpa.
«Vado da John» era stata la prima cosa che aveva detto uscito dalla stanza. Da bravo fratello maggiore misto a Governo Britannico qual era, Mycroft dovette ricordargli che non poteva farlo per qualche semplice motivo. Se non era potuto andare dal dottore prima non era perché si era svegliato di malumore o perché invece di trovarsi il solito cielo plumbeo di Londra si era ritrovato il Sole, avevano convenuto entrambi che per John Watson poteva risultare pericoloso, con ancora qualcuno alle dipendenze di Moriarty che poteva seguirlo e, in caso, eliminarlo.
Sherlock sembrò rifletterci sopra per un momento, guardandosi le scarpe e mettendosi le mani ai fianchi.
«Vado da John» ripeté come se non avesse sentito una sola parola dell’uomo davanti a sé, poteva anche essere così in effetti.
Un sospiro pesante e una mano sulla fronte fecero alzare gli occhi al consulente investigativo.
«Sherlock. Ora smettila». Il tono era serio, incredibilmente serio, dopo anni di un Mycroft tranquillo (perfino troppo) che faceva di tutto -o quasi- per compiacerlo, questa era la prima vera volta che gli dava contro.
«Qui stiamo parlando della vita del tuo caro John. Non puoi essere sempre egoista fino a questo punto, pensa a lui, per una volta.»
«Per una volta? Ci penso tutto il giorno, Mycroft». Il nome del fratello gli uscì come un rantolo.
«Tu ci pensi per tuo egoismo, fratellino. Pensi a voler tornare. A te, te e sempre e solo te. Quindi smettila. Non fare il bambino capriccioso. Questa volta non acconsentirò.»
Sherlock sembrava in procinto di rispondere qualcosa ma, evidentemente, il suo cervello elaborò l’ipotesi più plausibile in meno di un nano secondo, dando –purtroppo- ragione a Mycroft. Non era tornato per proteggere John e così sarebbe dovuto continuare a essere, a costo di non rivederlo mai più.
I due si fissarono per pochi secondi in un silenzio pesante. «Sono rimasto abbastanza chiuso in questo posto noioso, direi di poter tornare sul campo.»
«No.»
Si ricordava perfettamente perché Sherlock si ritrovasse ancora chiuso in casa sua, era quasi morto –per davvero, questa volta- in Iran, dove gli avevano conficcato un coltello nella milza e lo avevano quasi sbudellato. A dimostrazione dell’accaduto, una cicatrice che partiva da metà fianco e gli arrivava poco sopra il bordo dei pantaloni; c’erano voluti i più bravi chirurghi e settimane di riposo forzato. Inutile dire che lo avevano quasi dovuto legare al letto, febbricitante e angosciato. Questa era stata la ferita più vicina a portargli via il fratello, ma non l’unica.
«Ascoltami, Mycroft. Non me ne starò chiuso qui ancora per molto. Ero quasi riuscito a prenderlo e… no! Non mi guardare così, lo sai che è vero! Il fatto che io sia quasi morto è un dettaglio», aveva iniziato a gesticolare e a vagare per il salotto. «Quindi ora riprenderemo come prima, siete troppo lenti, troppo! E io ho bisogno di rivedere John». Questa era la sua ultima parola e il fratello lo sapeva, sarebbe stato inutile cercare di dissuaderlo o tentare di rinchiuderlo (di nuovo).
Un lieve bussare interruppe la discussione.
«Avanti» fece il maggiore degli Holmes.
Una cameriera in età avanzata entrò esitante. «Mi scusi, Signor Holmes, ma è ora di andare. L’autista la sta aspettando.»
L’uomo ringraziò la cameriera con un cenno del capo e la congedò. «Hai cinque minuti per vestirti. Verrai con me e faremo il lavoro insieme, niente colpi di testa, niente azioni in solitaria e, soprattutto, non uscirai dalla Gran Bretagna. Quel capitolo è chiuso.»
Sherlock annuì controvoglia. Non voleva dare la soddisfazione al fratello di ascoltarlo e ben che meno di sottostare alle sue regole ma, se questo era l’unico modo per rivedere John, non avrebbe potuto agire diversamente.. «Solo se mi dai tutte le informazioni sul caso, questa volta.»
I due si strinsero la mano e, mentre il maggiore andava ad informare di un piccolo ritardo l’autista, il minore andò a vestirsi, concentrato ed entusiasta come non lo era da tempo.
 
 

           *         *         *             

              
Sherlock stava iniziando a impazzire. Erano già passati diversi mesi da quando si era rimesso sulle tracce di Moran -Sebastian Moran, un nome finalmente- ma i pedinamenti, le trappole, i servizi segreti, tutto sembrava inutile, un ammasso di cose messe a caso senza un senso. Dov’era suo fratello quando serviva? Chi era a capo di quegli incompetenti? Come si potevano perdere le tracce di una singola persona per tutto quel tempo? Stava smaniando per tornare fuori, in pochi mesi era riuscito a fare molto di più, da solo, che quelle persone (pagate appositamente) in tanti anni. Sentiva la maglietta di Moran stretta tra le dita, la sentiva come se ce l’avesse in mano in quel attimo, si gustava ancora il momento in cui l’aveva quasi preso, l’aveva quasi visto in faccia, quando –troppo preso dall’entusiasmo- non si era reso conto di un iraniano che gli si avventava contro e lo accoltellava, mentre l’altro tornava a nascondersi in chissà quale anfratto oscuro. E da quel giorno erano passati mesi.
John. Che cosa stava facendo John in quel momento?
 
Mary si stava provando un vestito che le arrivava poco sopra il ginocchio -mettendo in mostra le gambe lunghe- di un bel azzurro intenso, con le spalline trasparenti e una cintura legata in vita. John doveva ammetterlo, era veramente una bella donna. Peccato alle volte aprisse bocca. «Mah, sinceramente boh!», ecco appunto.
Il dottore sorrise, quasi rise. Era stata l’unica a fargli venire un sorriso quasi naturale già dalla prima volta che si erano visti. L’aveva abbordato lei -e già qui era tutto un dire- una sera in un bar. Se ne stava con Greg a bere birra, non era dell’umore (in realtà non lo era mai) ma aveva iniziato a fingere poche settimane prima che tutto stesse tornando alla normalità, così almeno la gente lo avrebbe lasciato in pace.
Quando vide Mary avvicinarsi sperò fortemente che stesse puntando Greg, e invece era toccato lui. La prima cosa che disse?!      
«Sai io ho un figlio, Michael, ora ha quasi otto anni» e semplicemente John si era fatto incantare, si era fatto prendere da una donna divorziata, con un lavoro fisso (almeno uno dei due lo aveva) e un figlio, e da quel giorno non si erano più lasciati. Non avevano iniziato subito come amanti. No, John non ce l’avrebbe mai fatta. Erano semplicemente amici; dei buoni amici, oltretutto. Poi il tempo aveva giocato il suo ruolo, avevano iniziato a passare molto tempo insieme, Michael si era affezionato a John e viceversa. A parte dormire ogni tanto l’uno a casa dell’altra però, non avevano mai deciso di andare a convivere. Mary era una donna incredibilmente empatica; sapeva come prendere John, sapeva quando rimanere in silenzio quando lui s’incantava e sapeva quando fare una battuta quando lo vedeva stranamente giù di morale ma, soprattutto, non osava fare pretese. Non era amore, ma ci si avvicinava pericolosamente e per quanto lo riguardava non poteva chiedere di meglio. O meglio, poteva, ma Dio non lo avrebbe accontentato, dopo tre anni aveva capito il concetto. 
 
                                                                                     
                                                                                             *         *         *
 
Sherlock segnò con una croce un altro giorno sul calendario.
«Buon anniversario, John» scherzò amaramente con se stesso. «Tre anni che non ci vediamo», gettò il pennarello senza nemmeno chiuderlo mandandolo a sbattere contro il muro. I domestici non sarebbero stati contenti.
Aprì di malagrazia una finestra e mise la testa fuori per prendere aria, si sentiva chiuso, claustrofobico e suo fratello era sparito. Sparito. Disparu, verschwunden, desaparecido. Perché tra i due, lui era quello meno intelligente? Avrebbe capito subito gli spostamenti del maggiore, dove si fosse andato a cacciare e perché. Prese una profonda boccata d’aria e si trattenne dall’urlare, stringendo talmente forte il contorno della finestra da far diventare le sue nocche bianche.
Si guardò le mani. Erano ancora un po’ abbronzate dal Sole iraniano e, francamente, non vedeva l’ora che quel colorito se ne andasse com’era venuto. Tornò a guardare il cielo che si schiariva pian piano. A lui l’alba non piaceva, non trasmetteva assolutamente niente, probabilmente  invece  John si sarebbe incantato. Chissà se ancora andava a trovarlo al cimitero o se, dopo anni, aveva perso l’abitudine. Forse era cambiato? Mangiava ancora come prima? Prendeva ancora il the? Guardava ancora le persone con quei suoi profondi occhi blu e sorrideva loro felice? Okay, doveva smetterla o sarebbe impazzito e, francamente, non era questo ciò che gli serviva al momento.
Bussarono alla porta ma non aveva voglia di vedere nessuno, quindi non rispose, sperando che chiunque fosse se ne sarebbe andato senza fare troppe storie.
Entrarono piano e Sherlock sbuffò, chiudendo gli occhi e abbassando la testa, spazientito ma in silenzio; se non era importante, non lo disturbavano mai.
«Sono io.»
Sherlock spalancò le palpebre e si voltò verso la porta di scatto. «Alla buon’ora. Che fine avevi fatto?»
Mycroft lo guardò con aria di sufficienza, dando un’occhiata al suo orologio da taschino per rimetterlo poi a posto. «Veramente io sono in perfetto orario.»
Il minore degli Holmes si limitò a un’occhiata omicida per riprendere poi una parvenza di normalità.
«Non mi hai risposto.»
L’altro ghignò.
«L’abbiamo preso.»
Silenzio.
«Potresti ripetere?»
«L’abbiamo preso, Sherlock. Si trova chiuso in…»
Ma non poté finire la frase. Sherlock scattò verso la porta prendendo con sé solo il cappotto, non salutando niente e nessuno, correndo giù per le scale dell’enorme residenza Holmes.
«Per l’amor del Cielo, Sherlock, togliti almeno il pigiama e mettiti qualcosa di decente!»
Non fosse stato per i domestici, che lo presero di forza mentre correva verso la porta, sarebbe uscito così com’era. Pigiama, nudo, vestito da clown, non avrebbe avuto importanza.
Mycroft sorrise; doveva fare una telefonata.
 
Il telefono vibrava non volendogli dare pace. John aprì un occhio con tutta la calma del mondo, fissando la sveglia: le 5 e 40. Alzò di malavoglia un braccio per prenderlo e premette il tasto per rispondere. Forse Michael si era sentito male o Mary aveva bisogno di aiuto, ci avrebbe impiegato un po’ per riprendere lucidità ma se fosse servito si sarebbe alzato, vestito e sarebbe andato da loro.
«Buongiorno, Dottor Watson. Non credevo mi avrebbe risposto subito.»
John chiuse la chiamata e appoggiò in malo modo il telefono sul comodino -rischiando di rompere lo schermo-, incredibilmente sveglio e sull’attenti.
Si alzò a sedere appoggiandosi alla testata del letto, dando le spalle al cellulare e guardando dalla parte opposta mentre iniziava a respirare forte, tremando fin nelle viscere.
Cosa diavolo poteva volere Mycroft da lui? Era stato abbastanza chiaro anni addietro, e con “abbastanza” intendeva dire che se Mycroft era ancora vivo lo doveva solo al fatto di avere buone guardie del corpo.
Il telefono vibrò di nuovo ma questa volta John lo lasciò suonare per una, due volte consecutive. Alla terza, prese un bel respiro e si voltò, facendo tornare i suoi nervi saldi e si schiarì la voce per non farla tremare appena avrebbe risposto.
«Cosa vuoi?» non c’erano convenevoli da fare, non c’era nemmeno niente da dire a parer suo ma sapeva, conosceva, Mycroft abbastanza da pensare che non lo avrebbe cercato se non per qualcosa d’importante. Non dopo il pugno nelle costole che era riuscito perlomeno a piantargli, prima di essere portato via a forza.
La voce dall’altra parte rimase in silenzio per un tempo che gli sembrò infinito.
«Ha impegni per oggi?»
Perché proprio quella domanda? Perché proprio quel giorno?
«Sì» rispose senza aggiungere altro.
Poteva quasi sentire, anzi, vedere il sorriso dell’altro estendersi e chiuse il pugno più forte contro il telefono.
«Se ne ricorda ancora, vedo.»
«Mycroft. Un’altra insinuazione del genere e ti giuro su Dio che non basterà l’intera Scotland Yard, le tue guardie del corpo, la CIA e qualunque altra cosa in cui tu sei implicato a fermarmi dal venire là e ucciderti con le mie mani». La voce gli era uscita arrabbiata, troppo per quel che lo riguardava, ma già si ritrovava al telefono con l’ultima persona che avrebbe voluto sentire sulla faccia della Terra, inoltre quest’ultima pareva non ricordare nemmeno la morte del suo migliore amico…
«Sa che alla fine non l’ho mai persa totalmente di vista…» e John sapeva che quella frase stava a significare che lo aveva seguito sempre negli ultimi anni. «E vederla così attaccato a una donna… credevo stesse meglio.»
Okay, ora avrebbe chiuso quella conversazione, prima di fare qualcosa di veramente stupido.
«Sì, beh, non è così. Addio Mycroft, spero per sempre.»
«Aspetti un attimo.»
Silenzio.
«Volevo solo dirle che oggi sarebbe meglio che non uscisse e possibilmente se ne stesse sul divano; tutto il giorno e per tutto il tempo. Non vorrei che qualche… sorpresa, le facesse cedere le ginocchia.»
Quella conversazione era la più assurda che avesse mai sentito negli ultimi anni ma cosa poteva aspettarsi in realtà?
«Oggi ho un appuntamento, al solito posto,alla solita ora, con la differenza che per una volta non ci andrò da solo. Ora lasciami in pace. Non abbiamo niente da dirci e francamente non mi interessano telefonate di questo genere», chiuse la chiamata e gettò il telefono sul pavimento rimettendosi a letto tirando le coperte fin sopra la testa. Voleva solo sparire.
 
Mycroft chiuse il telefono e sospirò tra il preoccupato e il rasserenato. In fin dei conti, sembrava che il Dottor Watson non avesse cambiato i suoi sentimenti verso Sherlock; la sua minaccia di morte gli era giunta abbastanza veritiera. Per una volta, però, non aveva idea di come si sarebbe comportato il caro vecchio John nel rivedere –vivo- il minore degli Holmes. I sentimenti. No, non li avrebbe mai capiti.
 
Sherlock fu costretto ad aspettare… Aspettare. Come se non lo avesse già fatto abbastanza.
“Sherlock ti devi calmare”, “Signor Holmes, è troppo presto, e se le sparasse per la collera svegliando il vicinato?” (ipotesi tentata dalla cameriera più anziana che ricevette un’occhiata talmente glaciale che se ne andò quasi piangendo), “Sherlock, non puoi presentarti così, pensa almeno a cosa dirgli” (come se non avesse pensato a mille e più ipotesi ma con John tutto era imprevedibile, i sentimenti facevano fare al medico strane cose e quindi era semplicemente uno spreco di tempo), “Sherlock! Sherlock! SHERLOCK!”
«Dio, SILENZIO!»
La stanza in realtà era vuota; aveva mandato fuori tutti quanti ore prima –ore! Era fermo là dentro da ore sapendo di poter andare da John- e da allora era rimasto nel suo palazzo mentale cercando, inutilmente, di calmarsi.
Si sedette sul letto duro della camera, iniziando ad analizzarlo. Lo odiava. La prima cosa che gli faceva ricordare era la sua infanzia; non del tutto infelice ma avrebbe preferito passare all’età adulta e potersene andare in un batter d’occhio piuttosto di doversene stare lì, sotto regole assurde come “non toccare il microscopio Sherly, potresti farti male!”; sua madre era troppo apprensiva alle volte. Gli ricordava oltretutto la scomodità (sulla quale aveva dormito di nuovo in quegli anni) che aveva provato ogni notte fino all’adolescenza, la durezza che in quella casa sembrava regnare sovrana su tutto e tutti; iniziava a capire perché lui e Mycroft erano cresciuti così.
Ripensando al fratello, i primi ricordi risultavano brutti. Gli scherzi, le storie dell’orrore che gli raccontava per non farlo dormire, il nascondergli le cose più care che aveva, l’incolparlo di cose non fatte o non dette (anche se lì, almeno la mamma, capiva quando uno dei due mentiva e quando no) e avanti così; cose che comunque si ripercossero sul maggiore dal momento che Sherlock, quando diventò abbastanza grande per ingegnarsi e riuscire almeno qualche volta a tirargli qualche brutto tiro, gliele fece pagare con la stessa moneta. Poi però i ricordi cambiavano; Mycroft che gli leggeva storie di pirati, che gli portava un pezzo di torta quando era in punizione, che alle volte (ma questo capitava raramente) veniva a dormire con lui perché sapeva quando aveva paura o era preoccupato per qualcosa. Anche quando fingeva serenità, sia Mycroft che la mamma (chi per intelligenza e capacità deduttive, chi per istinto materno) riuscivano a capire quando qualcosa non andava, ed essendo la mamma la persona più empatica di solito Mycroft mandava lei. A ripensarci, forse, doveva a Mycroft più di quanto credesse.
Tornò a guardare il letto e il secondo paragone fu quello con Baker Street. Nulla a che fare con questo letto duro e incolore che sembrava fatto per far dormire la gente scomodamente.
Era vero, Sherlock non dormiva molto, ma questo non voleva dire che non dormisse affatto. Oltretutto dipendeva da Lestrade o, alle volte, da John. Se Lestrade gli dava un caso interessante per le mani, si ritrovava a dormire quattro ore a notte, né una più né una meno, aveva molto più tempo nell’arco della giornata e questo gli era indispensabile; se invece Lestrade non si faceva vivo, dormiva le normalissime otto ore per poi passare il resto della giornata ad annoiarsi; almeno finché non vedeva John.
John. L’unico motivo per cui non riusciva veramente a dormire erano le urla che ogni tanto sentiva provenire dalla camera di sopra nel pieno della notte. A quel punto si alzava, indossava la vestaglia, prendeva il violino e saliva le scale, raggiungeva la porta del coinquilino –senza entrare- e iniziava a suonare finché non sentiva l’altro smettere di dimenarsi e rilassarsi nuovamente. Chissà perché il suo violino rilassava il medico. Fatto sta che poi non riusciva più a prendere sonno, preoccupato che l’altro potesse fare nuovi incubi.
Il suo sguardo vagò nuovamente per la stanza, non trovando niente di meglio da fare e si fermò sulla sua colazione, composta da un succo d’arancia, dei cornflakes e del pane tostato con sopra marmellata di fragole.
Tre anni che abitava là e la cuoca ancora gli propinava quella roba chiamandola “colazione”; la Signora Hudson lo conosceva meglio dopo dieci minuti di conversazione. John alla fine aveva capito benissimo quando fargli qualcosa da mangiare e quando era meglio evitare. E anche lì, dipendeva quasi sempre da Lestrade. John si era abituato a proporgli un pranzo o una cena solo se non avevano casi, aveva capito che la digestione lo rallentava (sia nel pensiero che nella corsa) e Sherlock gli era grato di aver smesso d’insistere dopo nemmeno qualche giorno di convivenza; non perché a John non importasse di lui ma perché semplicemente aveva capito che era meglio così. E quando non c’erano casi, uscivano a mangiare, od ordinavano ad asporto (solitamente la sera, dato che nessuno dei due aveva voglia di cucinare) ed entrambi mangiavano di gusto.
Sospirò pesantemente; stava peggiorando, stava decisamente peggiorando. Scosse la testa e si poggiò le mani sugli occhi per poi passare a scompigliarsi i capelli. Non poteva collegare tutto a John, stava diventando ossessivo.
Stava…
Si alzò di scatto e prese il cappotto dalla sedie, al diavolo la decenza, al diavolo se John gli avrebbe sparato, al diavolo se non avrebbe saputo cosa dirgli, al diavolo tutto!
Diede una spallata alla porta chiusa a chiave dall’esterno.
«Ora mi farete uscire di qui o esco dalla finestra» iniziò urlando per farsi sentire per bene. «Non sarebbe una bella pubblicità per te se qualcuno mi vedesse! Non potresti chiamare la polizia, a meno che tu non voglia uno scandalo. E prima che arrivino i tuoi “agenti segreti”…» fece le virgolette con le dita e col tono della voce fece capire il grado di rispetto che nutriva nei riguardi di questi ultimi «…sarò già troppo lontano affinché tu possa prendermi». Non prese fiato mezza volta, com’era da lui. Aspettò qualche secondo e, quando stava per ricominciare, la porta si aprì e comparve Mycroft sulla soglia.
«Fai quello che vuoi, Sherlock, ma vedi di darti una calmata», detto questo prese l’orologio da taschino e guardò le lancette scorrere inesorabili. «Sono le otto. Il dottore non sarà già più a casa; aveva da fare. Ora non credi sarebbe meglio se tu restassi…»
«No.»
Il maggiore fece un cenno d’assenso col capo e si fece da parte. «Allora vai. Non salutarlo da parte mia, non apprezzerebbe.»
Sherlock superò la soglia e si fermò pochi passi oltre Mycroft.
«Senti…» gli dava le spalle, guardarlo in faccia avrebbe solo reso la situazione più imbarazzante. «Grazie di tutto, Mycroft. Davvero.»
Non aspettò risposta e iniziò a correre giù per le scale, perdendosi il sorriso –per una volta grato e sincero- che il fratello gli stava rivolgendo.
«Ah, Sherlock!» Mycroft si avvicinò alle scale guardando l’altro raggiungere la porta. «Possibilmente, se il dottore decide di spararti sul serio, manda un SMS. Sai quanto la mamma si preoccupa per certe cose.»
 
Si fece portare nei pressi della casa di John con una delle macchine di suo fratello (a piedi o con la metro ci avrebbe messo troppo), voleva evitare di parcheggiargli davanti per rievocare vecchi episodi e, sceso, iniziò a correre verso l’appartamento andando a sbattere contro diverse persone senza fermarsi per chiedere scusa (beh, quando mai?). Arrivato davanti al portone del condominio si fermò e… attese.
Cosa doveva fare?
Guardò in alto, sapeva perfettamente quale fosse il piano del dottore, e pensò a come agire. Entrargli in casa come se niente fosse forse sarebbe stato troppo traumatico, suonare il campanello e attenderlo giù? Forse avrebbe avuto una reazione più rabbiosa in mezzo alla strada ma, perlomeno, non lo avrebbe preso per una strana apparizione.
Si schiarì la voce e tirò su col naso. Intanto poteva iniziare col vedere se era in casa, magari Mycroft aveva ragione e non c’era.
Scosse la testa. Basta supposizioni. Servivano fatti.
Salì i tre scalini e suonò al cognome “Watson”; un brivido gli percorse la schiena.
Se avesse risposto avrebbe fatto finta di nulla e avrebbe atteso che uscisse di casa, sennò non gli sarebbe rimasto altro da fare che aspettare.
Niente; nessuno rispose e il cielo si stava annuvolando.
 
 

   *         *         *

 
 
John si alzò diversi minuti dopo, con i crampi allo stomaco per la rabbia che gli correva dentro. Cosa voleva dire quella chiamata? Perché dopo tutto quel tempo? Aveva ripetuto la conversazione a mente più e più volte e, come al solito quando si trattava degli Holmes, non aveva capito niente. “Sorpresa”, aveva detto. “Cedere le ginocchia”, aveva detto; gliele avrebbe fatte cedere lui le ginocchia a suon di mazzate da baseball.
Scosse la testa. Okay, no. Doveva calmarsi. Non aveva mai avuto istinti di quel genere verso nessuno in vita sua, neppure in guerra, e sinceramente voleva solo tornare a essere il vecchio John di prima, solo senza Sherlock. «Okay. E’ impossibile» si disse ad alta voce, andando a prendere il cellulare da terra.
Era presto. Incredibilmente presto per qualsiasi cosa ma di dormire di nuovo non se ne parlava. Sospirò, decidendo di farsi una bella doccia e di scrivere a Mary, magari se si fosse svegliata per un’ora decente avrebbero potuto anticipare la gita al cimitero. “Gita”, non sapeva veramente come altro definirla.
Andò nell’angusto bagno e aprì l’acqua per farla riscaldare un pochino, si spogliò ed entrò.
Per qualche tempo la mente sembrò svuotarglisi, scivolando giù assieme alla schiuma. “Se ne ricorda ancora, vedo…” batté il pugno contro le mattonelle scheggiate e ci si appoggiò poi con la fronte. Stronzo, stronzo, stronzo di un Mycroft. Come aveva solo potuto insinuare una cosa simile? E che avesse una donna cosa centrava? Cosa poteva cambiare?
Mary. Ah, Mary. Ringraziava ogni giorno il Cielo per averla mandata da lui ma era inutile mentire, se Sherlock ci fosse stato ancora probabilmente la loro relazione sarebbe durata come tutte le altre; non più di cinque giorni. E stranamente la cosa non lo infastidiva. Avrebbe preferito Sherlock a qualunque altra cosa, a qualunque altra persona.
Sherlock. Adesso il nome riusciva almeno a pensarlo, anche se il pronunciarlo gli era difficile e lo faceva solo se strettamente necessario.
Uscì dalla doccia con la rabbia esaurita ma il suo solito alone di tristezza a circondarlo. Doveva scrivere a Mary e doveva farlo subito.
 
Alle otto e trenta Mary gli suonò al citofono. Doveva ammetterlo: quando aveva bisogno, lei c’era sempre. Le aveva scritto nemmeno mezz’ora prima e lei era già lì, con un completo nero sobrio e un sorriso leggero per dargli il buongiorno. Scese i tre gradini e le si avvicinò per baciarla.
«Michael?»
«Dai nonni.»
«Hai almeno fatto colazione?» le chiese sentendosi sinceramente in colpa.
Lei scosse il capo ridacchiando. «Pensavo potessimo farla assieme prima di avviarci.»
A essere sincero il suo stomaco era chiuso, per di più in maniera ermetica, ma non le avrebbe negato almeno un caffè.
«Certamente, dove hai parcheggiato?»
Lei scosse una mano in maniera furibonda. «Oh ti prego, non farmene parlare! Guarda, se la lasciavo a casa era praticamente uguale. Ma tu lo sai che stronzo è stato un poliziotto? Voleva mettermi la multa perché secondo lui avevo parcheggiato sul marciapiede.»
John inarcò entrambe le sopracciglia e alzò un angolo della bocca.
«E lo hai fatto?»
«Ma per l’amor del Cielo! No! Insomma, due ruote su quattro non è esattamente parcheggiare sul marciapiede!» si avviò non aspettandolo e continuando a parlare mentre gesticolava animatamente.
La solitudine di John e la sua inquietudine sparirono pian piano.
 
Scesi dalla macchina, John rimase un attimo fisso a guardare il cancello, mentre Mary, dopo aver chiuso a chiave, faceva il giro dell’auto per andargli incontro.
«Gli prendi dei fiori di solito?»
John aprì la bocca e rimase zitto, non distogliendo l’attenzione dal cancello. Aveva fatto bene a portarla lì? Non ci aveva pensato prima, ma probabilmente a Sherlock non sarebbe piaciuta; come nessuna delle sue altre ragazze.
Si sentì prendere per mano e si distaccò per un secondo da quei pensieri.
«Andiamo, lì c’è una bancarella», gli sorrise e lo accompagnò verso un banchetto poco lontano.
«Buongiorno, cosa posso darvi?»
John lasciò scegliere a Mary quasi tutti i fiori, tutti tranne uno, voleva fare anche lui la sua parte.
Si avviarono verso il piccolo cimitero, verso la lapide nera con le incisioni in oro.
A John salì un nodo in gola, come ogni anno, e rimase lì a guardare, senza dire niente.
Mary sparì per qualche secondo tornando poi con un secchio d’acqua che versò sulla lapide.
«Buongiorno, Signor Holmes. Mi chiamo Mary e quest’anno accompagno John. Le sto lavando la lapide.»
In altre circostanze sarebbe probabilmente scoppiato a ridere. Forse sarebbe potuta piacere a Sherlock.
Rimasero lì qualche minuto in silenzio.
«Si sta annuvolando» fece notare lei.
Alzò gli occhi al cielo e vide tutto coperto da nuvole grigie, avrebbe decisamente iniziato a piovere, non una cosa strana per Londra.
«Mary, potresti darmi qualche minuto?»
La donna sorrise. «Certo, ti aspetto in macchina». S’incamminò a passo lento, i tacchi non le permettevano un’andatura più svelta.
John aspettò di vederla arrivare quasi al cancello, poi si voltò di nuovo verso la tomba e si abbassò, reggendo tutto il proprio peso sulle punte dei piedi.
Sospirò pesantemente, chiudendo gli occhi per poi puntarli nuovamente davanti a sé. «Ancora nessun miracolo, Sherlock.»
Stava come aspettando una risposta che ovviamente non sarebbe arrivata.
Delle gocce di pioggia iniziarono a cadere leggere ma lui non ci fece caso. «Credo di non dover aspettare più niente, vero?»
Ancora un’inevitabile silenzio.
«Stavo pensando di chiedere a Mary di sposarmi, sai.» si passò una mano dietro al collo iniziando a massaggiarsi come se si sentisse in colpa per quello che stava dicendo. «Ha un figlio a carico, il padre è sparito, ma ha un lavoro fisso –al contrario di me- e quindi…»
Non finì la frase. Non ce la faceva. C’era qualcosa di assolutamente sbagliato in quello scenario e sapeva benissimo cosa. Una tomba, una tomba al posto della persona che realmente amava.
Si alzò di nuovo in piedi e la pioggia iniziò a cadere più forte.
Fece qualche passo avanti e carezzò il marmo nero facendo poi un gesto con la testa.
«Ci vediamo… Sherlock.» e si allontanò a piccoli passi zoppicando leggermente.
La pioggia non dava tregua da ore e iniziava a scendere stile acquazzone bagnando entrambi. Entrarono in un caffè dove rimasero a chiacchierare, guardando fuori dalle finestre panorami indistinti, resi tali dalla fitta pioggia. Mary chiamò Michael al telefono per sapere come andassero le cose e John tirò fuori dalla tasca il cellulare che vibrò. Un messaggio: Greg.
Sbuffò, non ci voleva un genio per capirne il contenuto, anche senza alcun bisogno di aprirlo.
Diede un’occhiata a Mary ancora impegnata nella conversazione; bene, non avrebbe fatto caso a qualche suo cambio d’umore.
Lesse il messaggio inarcando un sopracciglio e sospirando piano per poi sorridere. Greg. Gli scriveva sempre e continuava a tenersi in contatto con lui e gli mandava SMS –come quello- da tre anni a quella parte, sempre per l’anniversario. Iniziava con una battuta, per poi assumere un tono maggiormente serio e, infine, tornava a livelli più leggeri. John pensò a qualche risposta da dargli e magari a organizzare anche un’uscita. Sapeva che gli avrebbe fatto piacere, solitamente gli tirava sempre buca e sempre per i soliti falsi motivi, a cui Greg fingeva di credere ogni volta.
Digitò una risposta veloce, seguita da qualche altro scambio di battute, finché Mary non riattaccò e tornò a guardarlo.
«Sta smettendo.»
John guardò i pallidi raggi del Sole oltre le nuvole e annuì. «Speriamo regga.»
Lei annuì e intrecciò le dita con quelle del suo uomo. Erano rari certi gesti di affetto da parte sua, soprattutto in pubblico, e quindi John li apprezzava maggiormente. Strinse le dita con più forza e le sorrise affettuoso.
«Che dici allora? Facciamo un giro?»
«Assolutamente sì. Sai, ho visto in città uno di quei cani che sembrano topi, mia madre ne vuole tanto uno e pensavo che…»
 
Mary parcheggiò a qualche isolato da casa di John. «Tanto figurati, mi ritroverei qualche altro cretino che si lamenta per il marciapiede» disse e insieme si avviarono lungo la strada semi deserta, la pioggia aveva portato anche un po’ di freddo con sé, quindi erano tutti chiusi in centri commerciali o bar.
 
 

 *         *         *

 
 
Sherlock era fermo nello stesso identico punto della mattina, intento a fissare la finestra di John; il cappotto zuppo d'acqua come tutto il resto del vestiario. Non si era tolto da sotto la pioggia perché John sarebbe potuto  tornare correndo per entrare in casa, al riparo, e avrebbe cosi perso un'occasione. Forse però non sarebbe tornato quel giorno... "Ha intenzioni serie con Mary Morstan". Scosse la testa. Non ci voleva pensare, non ci voleva proprio pensare. E se gli avesse detto di andarsene? Che ormai c'era Mary con lui? O peggio, se lo avesse riaccolto a braccia aperte restando però con quella e sposandosi, magari chiedendogli pure di fare da testimone di nozze?!
Tirò su col naso e si strinse nel cappotto, non trovandovi il calore che cercava. Supporre senza basi era fondamentalmente sbagliato ma, soprattutto, non era da lui. Molte cose non erano da lui negli ultimi tempi.
Poi, sentì dei passi. Passi diversi da tutti gli altri, passi che avrebbe riconosciuto in una strada affollata tra milioni di persone, figuriamoci lì dove c'erano solo pochi che sfidavano il freddo. Si voltò verso sinistra, pieno d'impazienza e aspettativa, e lo vide. John. Il suo John. Non guardò nemmeno per mezzo secondo la donna accanto a lui che lo teneva per braccetto e gli sorrideva amorevolmente.
«Oddio» gli sfuggì dalle labbra senza accorgersene. Era ancora meglio di quanto lo ricordasse; anche con le leggere occhiaie scure che dimostravano quanto poco e male dormiva, il passo leggermente zoppo -che tentava di nascondere- che lo faceva camminare con più lentezza, spalle incurvate come se avesse un peso addosso da tempo, i vestiti puliti ma sempre gli stessi che ricordava - evidentemente non aveva cambiato guardaroba-. Era rimasto fermo a tre anni addietro. Sorrise a quel pensiero; sapeva che era da stronzi, che John non avrebbe approvato o avrebbe detto che non era il caso, ma sorrise ampiamente lo stesso. Era lì, che si avvicinava con calma, sguardo rivolto a terra, mani nelle tasche, ogni tanto alzava gli occhi per guardare la donna e risponderle qualcosa. Sherlock voleva correre, andare da lui e abbracciarlo, lanciarglisi addosso togliendogli il fiato e restare in quella posizione -inzuppando pure l'altro con gli indumenti bagnati- per il resto della sua esistenza. Azzardò qualche passo in avanti  ma alla fine si fermò rimanendo dov'era, ancora quel poco di autocontrollo ma soprattutto le gambe che se ne rimanevano immobili, nemmeno fossero di piombo.
John, a pochi metri da casa, alzò gli occhi e lo fissò per qualche secondo per poi tornare a parlare con Mary.
Il sorriso di Sherlock svanì.
John gli passò vicino, non degnandolo di un altro sguardo e lo sorpassò continuando a parlare.
«John...» si ritrovò a dire, la voce quasi rotta, a mala pena udibile.
Alla fine era successo quello che temeva. John si era dimenticato di lui.



Note: La storia avrò in totale altri due capitoli che posterò in questi giorni. Sono già tutti scritti :)
   
 
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