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Autore: PuCcIaFoReVeR    01/09/2012    0 recensioni
Nasuada, ventiquattro anni e ragazza madre, abita con i suoi due figli gemelli in un’abitazione che cade letteralmente a pezzi. Murtagh, il padre dei due bambini, pensa che la ragazza sia emigrata in Brasile per farsi una nuova vita, mentre lei abita casualmente poche case dopo la grande villa della famiglia del ragazzo. Ignaro della sua paternità, si trova i due bambini sulla porta di casa, che cercano di vendere biscotti per racimolare qualche soldo per aiutare la madre a pagare le bollette. Intanto Nasuada conoscerà Eragon, il fratello minore di Murtagh, del quale non era mai venuta a conoscenza. Il ragazzo s’innamora della giovane donna e versa anonimamente tutti i mesi una modesta somma di denaro nel conto corrente della fanciulla. A causa di un incidente, il padre di Nasuada è sottoposto ad una difficile operazione e lei è costretta a lasciare i figli ad Eragon per un po’ di tempo. Proprio nella stessa dimora dove vive Murtagh...
Genere: Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Murtagh, Nasuada, Nuovo Personaggio, Un po' tutti | Coppie: Selena/Morzan
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Pov Nasuada
Mifermai di colpo davanti alla porta di ferro e vetro dell’umile palazzo di una via di New York City. Aprii la zip della borsa di Prada falsificata e infilai il braccio fino al gomito per cercare le chiavi. Dovevo sbrigarmi: quella non era esattamente una delle vie migliori della metropoli. Delinquenti e drogati affollavano la strada e i marciapiedi tutte le sere, tranne quando poliziotti che erano a conoscenza della situazione della via venivano a pattugliare armati di pistole e manganelli. Mi guardai intorno: quella sera la strada era deserta. L’unico lampione, davanti alla bianchissima e lussuosissima villa vittoriana di una famiglia ricca che, per non si sa quale motivo, si ostinava a voler vivere nella periferia della Grande Mela. Distolsi lo sguardo. Il nostro alloggio andava più che bene. L’autobus per portare i miei due angioletti a scuola passava proprio a venti metri dalla porta di casa. Era più sicuro che andare a piedi fino a tre isolati dopo, come erano costretti a fare quando abitavamo ancora a Seattle. La mia mano urtò qualcosa di metallico. Le ho trovate!
Estrassi la mano molto velocemente. Troppo, forse perché la chiave cadde con un tintinnio in mezzo al buio pesto. Mi misi una mano nella tasca dei jeans attillati, frugando tra i chewingum e i tamponi interni. Poi lo trovai. Sfilai la mano e accesi lo schermo del mio cellulare all’ultimo grido, regalatomi dalla mia adorata sorella – sorellastra – Arya. Puntai la flebile luce a terra, vicino a dove credevo che fosse caduto il mazzo di chiavi. Un rumore improvviso mi fece raddrizzare. Sulla soglia della grande villa c’era un ragazzo moro, dagli occhi dello stesso colore dei capelli, che teneva in mano le chiavi. Le mie chiavi! Riuscii a riconoscere il portachiavi con la foto dei miei figli regalatomi da loro per la festa della mamma qualche anno prima. Spensi velocemente lo schermo del cellulare e, cercando di sembrare disinvolta mi avvicinai al ragazzo.
«Bella serata, eh?»dissi cercando di sembrare più cortese possibile. Lui mi guardò incerto. Si morse il labbro e disse: «Avete bisogno di qualcosa, signorina?»
Annuii. «Quel... quelle chiavi che avete in mano... dove le avete trovate?»chiesi cercando di non dare a vedere che ero stata io a perderle. «Oh... Mi sono arrivate in testa mentre chiacchieravo con i miei genitori. Sono vostre?»
Sorrisi avvampando. «S-sì. M-mi dispiace che vi siate fatto male. Non l’ho fatto apposta.»
Lui sorrise, vedendomi così agitata e dispiaciuta. Un sorriso così bello l’avevo visto soltanto una volta in tutta la mia vita. E quella volta mi sono ritrovata All’ospedale a fare un’ecografia per vedere i miei figli. Poi mi ricordai dell’appuntamento con loro. «Ehm... mi piacerebbe stare qui a chiacchierare con lei, ma... ho il disperato bisogno di rientrare in casa mia.» dissi troncando bruscamente il discorso. Il ragazzo, che doveva avere la mia età, tese la mano con le chiavi. Le afferrai e corsi verso casa mia. «Aspetta! Non mi hai detto come ti chiami!» mi gridò.
«Domani ve lo dirò. Prometto.» risposi sol prima di entrare nel grande palazzo dove vivevo. O meglio, dove sopravvivevo. Salii le sei rampe di scale che portavano al pianerottolo dove c’era il mio appartamento. Beh, più che mio era nostro. E più che nostro era di qualcun altro. Eravamo in affitto. Non potevamo ancora permetterci una casa nostra. Se solo Murtagh fosse a conoscenza di Gemma e Ryan... Potrebbe aiutarci, lui è ricco...
Infilai una grossa chiave nella serratura di metallo placcato e iniziai a spingere mentre cercavo di farla scattare. Da dietro sentii dei passi che si avvicinavano e la porta si aprì. Gemma, la mia bambina era sulla soglia con l’aria scocciata. «Grazie...» mormorai sorridendole. Lei addolcì un po’ lo sguardo e mi fece entrare. «Sei in ritardo.» mi rimproverò Ryan mettendosi a sedere sul divano, anche lui con la stessa aria scocciata della gemella. «Lo so. Ma avevo perso le chiavi al buio. Sono arrivate in testa ad un ragazzo e mi sono dovuta scusare.» dissi sedendomi accanto a lui. I suoi occhi castani si posarono su di me. Al contrario della sorella, che aveva ereditato gli occhi e i capelli del padre, lui era la mia esatta copia. A parte il colore della pelle. I miei figli avevano un misto tra la carnagione bianca di Murtagh e la mia – colore dell’ebano –. Mi alzai dal divano color crema e mi diressi in bagno. Mi spogliai e aprii l’acqua della doccia. Chiusi a chiave e mi sedetti su uno sgabello. Di fianco a me le strisce depilatorie mi attendevano. Misi il piede sul lavandino e appiccicai la striscia rosa sulle mie gambe scure. Rosa. Come le linee nel test di gravidanza che Arya mi aveva dato quando ero stata male otto anni prima. Quelle strisce che avevano segnato la mia felicità. Applicai e strappai via diverse volte, finchè le mie gambe non tornarono lisce come il sederino di un bambino. Passai il dito lungo i miei arti inferiori, ammirando il mio lavoro pressoché perfetto. Misi la lozione idratante e m’infilai sotto all’acqua bollente. M’insaponai i capelli con lo shampoo alla ciliegia per bambini di mia figlia e mi cosparsi il corpo con il bagnoschiuma di Thor del mio bambino. Mi risciacquai velocemente e mi avvolsi in un asciugamano. Mi intrufolai nella nostra stanza da letto, l’unica della casa ad avere un giaciglio. Gemma mi seguì e aprì l’armadio.
«Mamma sexy o super presente?» mi chiese riferendosi allo stile dei miei vestiti.
«Tanto lo so che opterai per una minigonna da urlo...» borbottai incrociando le braccia al petto.
«Già...» disse lanciandomene una lucida rossa. Mi fece indossare anche i collant neri e un paio di scarpe con un tacco vertiginoso. Si fermò a guardarmi mentre pensava a cosa mettermi nella parte superiore. Poi optò per un top lungo senza spalline con un’immagine di Lola dei Looney Tunes piena di strass e paillettes.
«Vestita così per andare a fare shopping?» le domandai dubbiosa rigirandomi davanti allo specchio. Lei annuì sorridendo e aggiunse: «Magari vedi papà e fai colpo su di lui...»
Sorrisi, ma sapevo che non era possibile. Suo padre era chissà dove con chissà chi, a fare chissà cosa.
 
  
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