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Autore: Aki_Saiko    01/09/2012    5 recensioni
Camille è una ragazza, sedicenne, che vive nel Distretto 11. Quando il suo migliore amico Al viene scelto per gli Hunger Games, le crolla il mondo addosso; ma questa potrebbe anche essere l'occasione che da tempo aspetta per dire al ragazzo quello che prova per lui. Ci riuscirà?
[gran parte di ciò che viene detto sul Distretto 11 in questa One Shot l'ho inventato io di sana pianta, quindi spero che non ci siano incongruenze con quanto affermato nei libri.]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Allento i nodi delle corde che mi permettono di non ammazzarmi se mai dovessi perdere l’equilibrio e mi sporgo leggermente fuori dalla piattaforma, aggrappandomi al ramo sopra di me.
Le ombre iniziano ad allungarsi, tra un’ora o due dovrebbe venire il gruppo del turno di notte a darci il cambio.
Lascio vagare lo sguardo sugli ettari di piantagioni, ammirando quello spettacolo da anni sempre uguale, ma che non smetterà mai di piacermi.
Al contrario di molti, attendo con un certo fervore l’inizio della stagione del raccolto: scalare gli alberi, aiutare i Veterani a posizionare le piattaforme, raggiungere le vette per raccogliere anche l’ultimo frutto rimasto e godersi il panorama del Distretto visto dall’alto sono tutte cose che mi lasciano un profondo senso di soddisfazione, e che mai baratterei con la tranquillità e la monotonia della vita tra i banchi di scuola.
Nel preciso istante in cui la nostra piccola squadra si raccoglie davanti al Veterano per decidere come procedere con una certa area o su
quale biforcazione posizionare la nuova postazione di raccolta, solo allora per me comincia la vita vera.
Sugli alberi mi sento a mio agio, mi sento libera: amo le altezze, non sono nata per stare con i piedi per terra.
E nei pochi mesi del raccolto lavoro sempre con costanza, anche agli incarichi più faticosi o pericolosi, perché so che poi dovranno passare altri otto mesi circa prima che io possa nuovamente indossare quella sorta di imbracatura fatta esclusivamente di corde ed iniziare una nuova scalata, ogni volta sempre diversa.
-Hei, Cam! Ho trovato un ramo pieno così di frutti, portami su altri due cesti!-
La voce di Al, oltre a provocarmi brividi per tutto il corpo, mi distoglie dai miei pensieri e, mio malgrado, devo interrompere la contemplazione del panorama e stringere nuovamente i nodi dell’imbracatura per portargli su quei due stramaledetti cesti. Non che non mi faccia piacere raggiungerlo, in effetti.
Con dei nodi veloci li assicuro a quella che dovrebbe essere la cintura e inizio a salire verso i rami centrali, dove il fogliame è più fitto.
-Dove sei, Al?- chiedo, non essendo riuscita a capire da che direzione provenisse la voce.
Lui mi urla in risposta: -Sali altri tre rami e segui la stoffa rossa, non è distante: da qui riesco a vederti.
Seguo le istruzioni e giungo presto a quella che mi sembra una nuova biforcazione. Guardo Al perplessa, perché non sono del tutto sicura che sia la zona che ci hanno assegnato, però devo ammettere che ha ragione: i rami qui sono stracarichi di frutti, e benché sia lì da pochi secondi, mi sta venendo una certa fame. Non che ci voglia molto, comunque: anche se nel periodo del raccolto aumentano le razioni per permetterci di lavorare tutti quanti, normalmente ci sono sere –forse non così frequenti, ma sono certamente capitate- in cui siamo andati a letto, io, mamma e papà, con solo una fetta di pane nella pancia. Ma non dovrei lamentarmi troppo: per molti miei compagni, andare a letto con molto meno del pane nella pancia è la norma.
Guardo i frutti con desiderio: non ci è permesso mangiarne nessuno. Se ti sorprendono a mangiare un frutto del raccolto, ti spetta la pubblica fustigazione; se tenti di rivenderli, potrebbe andarti anche peggio.
Sgancio i cesti dalla cintura e li porgo ad Al –Come pensi di portarli giù entrambi, di grazia?- gli chiedo fissandolo perplessa. –Oh, ma infatti uno dei due è per te, Cammie cara.- Odio quando mia chiama Cammie, non lo sopporto. Gli lancio un’occhiataccia e sbuffo, ma mi tengo un cesto e mi dirigo verso l’estremità dei rami. –Io dai rami, tu dal tronco e ci incontriamo a metà strada?- domando.
-Devo sempre iniziare io dal tronco!- si lamenta Al, rivolgendomi uno sguardo supplice.
Gli mostro la lingua e gli rispondo: -Non è colpa mia se io sono più agile e anche più leggera-. Punto nel vivo. Stavolta è lui che mi rivolge un’occhiataccia e, borbottando parole incomprensibili, si avvia verso la biforcazione.
Io faccio lo stesso nella direzione opposta, assicurandomi di non lasciarmi scappare il cesto e di non danneggiare i frutti che pendono abbondanti sopra e sotto di me.
Un altro motivo per cui io inizio sempre dall’estremità esterna è che mi piace perdere tempo ad ammirare la vista di ettari ed ettari di sconfinate piantagioni. Aumenta la mia capacità di concentrazione, e mi aiuta a riflettere e a fare mente locale di quanto successo nel corso dei mesi passati, ma soprattutto di quel che mi aspetta, specialmente in questi ultimi giorni di raccolto. Perché gli ultimi giorni di raccolto sono diversi dagli altri, specialmente oggi, l’ultimo: il giorno in cui termina la stagione del raccolto dista infatti solo quarantotto ore dalla mietitura.
I lavoratori sono estremamente più silenziosi del solito, se si parla è solo per scambiarsi ordini ed indicazioni. I giovani dai dodici ai diciotto anni cercano di non pensare a quello che potrebbe accadere a loro o ai loro fratelli e sorelle. I genitori pregano affinché non venga estratto uno dei loro figli.
E poi ci sono i ragazzi e le ragazze dai diciannove ai venticinque anni circa: troppo grandi per gli Hunger Games, ma ancora troppo giovani per avere dei figli di cui preoccuparsi. Chi di loro è in pena per un fratello o sorella minore si unisce al silenzio generale, gli altri lo fanno più per rispetto che per vero timore. Ormai per loro la paura è passata, non hanno di che preoccuparsi. È un ragionamento egoistico, è vero, ma le persone troppo altruiste non sopravvivono alle leggi dei Distretti.
Sto giusto pensando a quanto, anche quest’anno, la mietitura sia inevitabilmente arrivata troppo in fretta, cogliendomi ancora una volta impreparata; quando un grido di Al mi distoglie,di nuovo e altrettanto bruscamente, dai miei pensieri.
-Insomma, Cam, smettila di startene lì imbambolata e dammi una mano!-
-Ho capito, ho capito, arrivo!- gli urlo di rimando, sbuffando e iniziando guardarmi intorno per decidere da dove cominciare.
Al è incredibile, ogni anno la stessa storia: mai una volta che si fermi a riflettere su quello che lo aspetta, mai una volta che si deprima. Sempre ottimista, lui. Forse è per questo che mi piace da matti: io tendo sempre a pensare al peggio, e lui mi...controbilancia. Mi rassicura, almeno un po’. Io che sono figlia unica e non dovrei avere niente da temere, se non per me stessa: la mia sorellina è morta di una grave malattia quando avevo tre o forse quattro anni. Invece Al ha un fratello di tredici anni e una sorella di quindici di cui preoccuparsi, oltre a se stesso; anche se in effetti questo è il suo ultimo anno alla mietitura.
Scrollo la testa per allontanare quei pensieri molesti: dovevo godermi l’ultimo giorno di raccolto dell’anno, cercando di non sostituire mentalmente “anno” con “vita”.
Avevo già raccolto frutta a sufficienza da ricoprire tutto il fondo del cesto, e mi stavo giusto sporgendo per raccogliere una pesca particolarmente distante da dove mi trovavo, ma anche altrettanto matura; quando,rapida, una mano me la soffia letteralmente da sotto il naso.
-Hei, hai superato la tua metà di ramo!- gli dico, piccata. Non sopporto quando Al mi fa passare per una ragazzina impacciata. È terribilmente imbarazzante.
-Tanto non ce l’avresti fatta. Non senza spiaccicarti a terra, comunque.- mi risponde lui, con sguardo beffardo.
-Ci sono le corde apposta.- gli faccio notare, fissandomi gli scarponi ormai vecchi e, per quel che sento, arrossendo parecchio.
-Non smetterò mai di ripetere che quelle funicelle hanno ben poco di sicuro, per quel che mi riguarda.- replica Al, fissando con una certa diffidenza le corde che gli cingono la vita e le cosce.
In effetti non è che siano qualcosa di particolarmente robusto o professionale. Danno solo una (poco) maggiore garanzia di sopravvivenza, poiché un lavoratore in meno è frutta in meno che viene raccolta e tempo in più che viene sprecato. Di norma, alle piantagioni lavorano solo i contadini e i ragazzi sopra i diciotto anni che non si sono ancora trovati un lavoro, ma durante il raccolto viene impiegato ogni cittadino dai dieci ai sessant’anni che non sia malato o robe del genere. I più giovani sugli alberi, i più anziani a terra ad accumulare, scartare e dividere e i più robusti a trasportare le casse di frutta, verdura o quel che è fino ai camion diretti alla stazione.
Al tira fuori una pesca dal suo cesto, quasi pieno, e fissa il mio, pieno neanche per metà, con aria di compatimento. L’ho già detto che è imbarazzante?
-È proprio impossibile farti lavorare seriamente l’ultimo giorno, eh? Sempre a fare riflessioni su chissà cosa, tutti e santi gli anni. – Credo di essere arrossita un po’, e per l’imbarazzo fisso un ramo distante, parecchio sotto di noi. Non è colpa mia, solitamente sono quella che porta giù più cesti, ma l’ultimo giorno proprio non riesco a lavorare ai soliti ritmi.
Al mi tira un buffetto affettuoso sulla guancia e mi pone la pesca che aveva preso prima:
-Vuoi favorire, Cammie cara?-
-Non chiamarmi “Cammie”!! E lo sai benissimo che è proibito mangiare la frutta del raccolto.- gli rispondo con un tono che spero non sia troppo acido.
Voglio un sacco di bene ad Al, forse anche troppo, però mi irrita leggermente questo suo fregarsene bellamente delle regole. Io mi limito ad ignorarle, lui si diverte ad infrangerle apposta.
-Oh, avanti, Cam! Per una pesca, cosa vuoi che faccia? È l’ultimo giorno e manca ancora un’ora e mezza alla fine del turno!-
Mi fissa con quei suoi occhi bellissimi, uno color nocciola e l’altro tendente al verde.
Il mio cuore perde un battito, e mi affretto a rispondergli: - S-se proprio insisti! Ma se poi ci beccano dirò che mi hai costretta.-
-Tanto non ci beccano mai. Sono anni che l’ultimo giorno ci concediamo un frutto... ed è mai successo qualcosa? No.- mi fa notare lui, con un sorrisetto.
Ha sempre regione, sempre. Mai una volta che io riesca ad obbiettare qualcosa senza vedere la mia tesi smontata come se nulla fosse.
Mi limito dunque a fissarlo mentre tira fuori il suo coltellino (Dio solo sa come fa a nasconderlo ogni santa volta) e taglia in quattro parti la pesca, dandone due a me e infilzando le altre due con il coltellino.
Io mordo uno dei due pezzi e lo assaporo con gusto: raramente mi capita di mangiare pesche così buone, a noi danno solo gli scarti del raccolto; che comunque non durano a lungo, e diventano immangiabili già dopo pochi giorni.
Una mia compagna di classe, il cui padre lavora per i treni che portano la nostra frutta a Capitol City, mi ha detto che nella capitale (ma, a rigor di logica, anche nelle poche case ricche del nostro distretto) esiste una versione casalinga dei container frigoriferi dei treni, capace di mantenere per più giorni frutta, verdura, latte e altri prodotti freschi senza che vadano a male.
Io, dal canto mio, non posso dire di nuotare nell’oro qui, ma paradossalmente non vorrei mai vivere a Capitol City. Nonostante a scuola ci ripetano più e più volte che la bellezza, la ricchezza e la maestosità della nostra capitale non ha eguali,e che dovremmo essere profondamente grati al governo per avere una simile perla nel nostro paese; io non ci ho mai creduto più di tanto. Tutte le cose che ci dicono a scuola, la metà delle volte, mi tornano di fesserie. Ma questi non sono certo pensieri che puoi andare in giro a spiattellare ai quattro venti.
Evidentemente troppo presi, io dalle mie solite riflessioni, Al dalla sua pesca, nessuno dei due aveva più spiccicato parola.
Per rompere quel silenzio, dico la prima cosa che mi viene in mente: - Prima, quando ero ai rami bassi, ho pensato ad una cosa...-
-Tanto per cambiare.- mi interrompe Al, con un sorriso, sarcastico eppure bellissimo.
-Simpatico! Comunque,- riprendo io – pensavo: cosa c’è oltre Panem?-
Al pare non capire, perché mi rivolge uno sguardo interrogativo: -Oltre... Panem? In che senso?- domanda.
- Nel senso di “oltre Panem”. Il nostro non può essere certo l’unico Paese sulla faccia del pianeta... gli esseri umani non possiamo essere solo noi! Ci deve essere per forza qualcun altro... magari distante ettari ed ettari, o magari su un’isola in mezzo all’Oceano... ma ci deve per forza essere un’altra nazione, o qualcosa del genere!- concludo, sperando di essere riuscita a spiegare abbastanza decentemente il mio contorto pensiero.
Al fa un fischio, e nulla più. Si limita i fissarmi. Io ricambio lo sguardo, ma poi sento che il mio battito sta iniziando ad aumentare, così fisso l’ultimo spicchio di pesca e me lo ficco tutto in bocca. Accidenti, quanto è buona.
-Cavolo, se ti sentissero, come minimo ti sbatterebbero in prigione.- commenta finalmente Al. Io lo guardo:- Non ho mica detto che il governo di Capitol City è un branco di schifosi approfittatori, cosa che comunque penso.- rispondo alla fine.
-Wow, Camille non-voglio-mangiare-una-stupida-pesca Johnson pronta addirittura ad insultare il Governo. Agguerrita. E comunque, per la cronaca, se tutti si chiedessero cosa c’è oltre Panem, come fai tu, probabilmente ci sarebbe una seconda rivolta. Sappiamo bene entrambi cosa vuol dire far valere le proprie opinioni.- dice Al.
Probabilmente si riferisce a quando, tre anni fa, una madre il cui figlio era stato chiamato come Tributo aveva, davanti alle telecamere, insultato apertamente Capitol City.
I cameramen avevano fatto giusto in tempo ad interrompere la diretta prima delle nefaste parole, ma tutto il Distretto 11 era lì presente.
I pacificatori sono intervenuti subito, circondandola e portandola via. Di lei non si è saputo più nulla.
Mi mordo un labbro con amarezza: quel ricordo mi fa tornare in mente che tra quarantotto ore rincomincerà l’incubo della mietitura. È solo un’ora, ma porta con sé lo stress di un anno intero.
Al sembra preoccuparsi davanti alla mia espressione, perché sposta via entrambi i cesti e mi tiene ferma per le braccia. –Al, ma cosa diamine...?!- mi volto verso di lui, ma rimango paralizzata davanti ai suoi occhi.
-Solletico!- grida lui all’improvviso, prendendo a farmi il solletico sulla pancia con una mano e usando l’altra per bloccarmi le braccia.
Io cerco di dimenarmi dalla stretta, ma finisco solo col far quasi cadere il mio cesto di pesche.
-Dillo che ti ho salvata dalla depressione. Avanti, ammettilo, ti si legge in faccia.-
Io tento di protestare, ma poi sorrido. Sempre ragione, sempre.
-Bene, oh mio prode salvatore, direi che sarà anche il caso di metterci a raccogliere pesche, dato che mancheranno si e no tre quarti d’ora al cambio di turno.- dico, per togliermi dall’imbarazzo di stare fra le sue braccia.
-Non potrei essere più d’accordo, Cammie cara.-
-Non. Chiamarmi. Cammie!- gli grido io, tentata di lanciargli la pesca che ho in mano, ma optando alla fine per un borbottio incomprensibile perfino a me stessa, che in teoria voleva essere un insulto.
Alla fine, tra chiacchiere e risate varie, arrivano le quattro note che ormai conoscevamo bene, e che da tempi immemori annunciavano la fine del lavoro nel Distretto 11.
Scendiamo alla piattaforma dove mi trovavo io prima, poi a quella sotto e a quella sotto ancora, fino a toccare terra.
Ci slacciamo le imbracature di corda e le appendiamo ai pali per chi inizierà il turno a breve. Portiamo i nostri cesti di frutta al Veterano capo della nostra squadra, che li svuota tutti dentro una cassa.
Il Veterano guarda i frutti del mio lavoro e mi chiede: -Anche quest’anno con la testa per aria l’ultimo giorno, Camille? Male, farò rapporto.-
Non l’ha mai fatto. Ho sempre pensato che il nostro Veterano sia il più in gamba che ci potesse capitare. Ha trentacinque anni, e sua moglie aspetta il secondo figlio. Ha perso una sorella negli Hunger Games quando aveva undici anni, e sa cosa vuol dire avere la testa affollata di pensieri. Se la prende con me ogni volta che non porto giù quanti cesti si aspetta, ma non l’ultimo giorno.
Io fingo, come ogni anno, un’aria terribilmente mesta, e mi allontano al fianco di Al, non potendo fare a meno di scoppiare a ridere appena voltato l’angolo.
 

***

 
 
Un raggio di sole passa attraverso una fessura delle tende, cadendo vicino alla mia guancia. Mi rigiro e mugugno che voglio dormire, tirandomi le coperte fin sulla testa. Poi realizzo: è oggi. Oggi è il giorno della mietitura.
Un brivido mi percorre tutto il corpo, e mi alzo a sedere di scatto.
Le mie mani iniziano a tremare leggermente. Sorrido, ma è un sorriso amaro: eccola lì, l’ansia che ogni anno si ripresenta, e di cui non ne ho mai visto traccia sul volto di Al. Abbraccio il cuscino desiderando che sia Al e mi accorgo che il raggio di sole si è spostato di pochi centimetri. Allungo una mano. È caldo, incredibilmente caldo. Come se volesse dirmi che andrà tutto bene.
“Devo essere messa proprio male per pensare che un raggio di sole voglia consolarmi” penso tra me e me. Stringo ancora di più il cuscino e mi addormento di nuovo.
 

***

 
- Tesoro...- sento una mano che mi scuote leggermente.
-Chi, cosa?...- dico, tra uno sbadiglio e l’altro.
-Camille, è ora di svegliarsi. Sono quasi le undici.-
Anche quest’anno è mamma a svegliarmi. È sempre lei. Papà non sa trattenere le emozioni, e comunque è a letto con la febbre alta da tre giorni... mi sto un po’ preoccupando.
Mamma mi sorride, ma è un sorriso forzato.
-Ti ho preparato il bagno e i vestiti.-
-Va bene, grazie.-
Una volta in bagno, mi spoglio ed entro nella tinozza. L’acqua è tiepida, chissà quanto gas ha sprecato per scaldarla.
Lavo via lo sporco, ma non l’agitazione. È come un tarlo che continua a roderti l’anima, e più tenti di scacciarla, più si fa insistente.
Uscita dalla tinozza afferro l’asciugamano e mi ci avvolgo dentro, come se fosse una coperta, anche se ormai non è più tanto morbido. Mi tampono alla bell’e meglio i capelli castano chiaro e leggermente mossi e afferro il vecchio pettine di mamma per provare a districarli. Dopo un minuto di inutili tentativi decido che lasciare quel compito a mia madre è l’alternativa migliore.
Indosso il vestito che ormai inizia ad andarmi stretto ma che, se sono fortunata, dovrò mettere solo quest’anno e il prossimo. È un vestito molto semplice, verde chiaro, con una cintura marrone appena sotto il seno. Mia mamma l’ha indossato il giorno dei suoi diciannove anni, solo che doveva essere decisamente più mingherlina di me, se a diciassette anni iniziava già ad andarmi stretto.
Vado nel soggiorno-cucina, dove mia mamma si è già seduta su una delle sedie. Prendo posto su quella di fianco, le do’ le spalle e le porgo il pettine.
Mai un anno che riesca a farmi la pettinatura da sola. Che poi, i miei capelli, pur non esseno ricci, sono talmente indomabili che ogni volta che abbiamo provato a fermarli in due trecce c’erano sempre ciuffi e ciuffetti che se ne andavano per conto loro.
Così alla fine si è deciso per due piccole trecce fatte con i ciuffi davanti, tirate ai lati della nuca a formare una specie di coroncina. Gli altri li lascio sciolti sulle spalle.
Sistemati i capelli, entrambe ci alziamo. È ora. Bisogna andare in piazza.
Entro nella camera dei miei: mio padre sta dormendo tranquillamente, non voglio svegliarlo. Sussurro un “Ci vediamo dopo” non troppo sicuro ed esco di nuovo.
Mia mamma è fuori che mi aspetta. Mi prende per mano e insieme, in silenzio, ci dirigiamo in piazza, dove il resto degli abitanti sta già iniziando a radunarsi.
La abbraccio forte e vado a registrarmi. Grazie a Dio non ho mai avuto bisogno di aggiungere un ulteriore biglietto con il mio nome a quelli che normalmente sono nella grande boccia di vetro, al contrario di Al. Lui ne ha ventidue, di biglietti, e non è neanche quello messo peggio, tra i miei amici.
“Come cazzo fa a non preoccuparsi?!” mi domando per l’ennesima volta, cercando di non pensare ai miei sei contro i suoi ventidue.
Eccolo lì, in prima fila, tra i più grandi, quelli che l’anno prossimo, se saranno ancora vivi, potranno tirare il fiato, o al massimo preoccuparsi per uno dei loro fratelli o sorelle.
L’orologio della piazza segna le due, il Sindaco si alza, cammina verso l’altoparlante e inizia il suo discorso, ogni anno sempre uguale e sempre noioso allo stesso modo; con tutte quelle scemenze su Panem, la nazione risorta, sulla splendente Capitol City, sui Giorni Bui e la distruzione del Distretto 13.
Finito il discorso, il Sindaco legge la lista dei vincitori passati: tre in quarantuno anni di Hunger Games. Non un gran risultato, eh?
Finite le presentazioni dei passati vincitori, l’accompagnatrice per il Distretto 11, Ally, si alza dalla sedia ed esclama: -Felici Hunger Games, e possa la buona sorte essere sempre a vostro favore!-.  Poi si dirige ancheggiando verso la boccia delle ragazze.
-Le signore per prime.- dichiara.
Io la guardo con ansia. Il mio battito accelera mentre fisso la sua mano dipinta di verde e arancione immergersi nella boccia delle ragazze. Non io, penso. Non io.
Ally si porta di nuovo al centro del palco. Fisso il suo vestito viola e oro, con il cuore che mi martella in petto. Quest’ansia è di gran lunga peggiore di quella di stamattina.
Avete presente quando il prof stronzo annuncia che ti vuole interrogare, e tu non sai come accidenti uscirne fuori perché non hai studiato un bel niente? Ecco, prendete quell’ansia e moltiplicatela per mille. Perché i brutti voti non uccidono.
Ormai faccio fatica persino a respirare, non so nemmeno perché ogni anno mi prende quest’ansia tremenda, io che ho solo 6 nomine. Cinque anni di mietitura e ancora non ho imparato a gestire l’ansia. Ma è poi possibile non essere ansiosi quando sai che uno stupidissimo pezzo di carta, nella maggior parte dei casi, potrebbe decretare la tua morte?
Ally si schiarisce la voce.
-La nostra vincitrice è...- Dio, avevano anche il coraggio di chiamarli vincitori.
-... Vera Kingsley! Complimenti, Vera, Sali pure sul palco!-
Ally sorride fiduciosa verso la folla, dove una ragazzina bassa e mingherlina con dei capelli biondo scuro si sta facendo largo verso il palco, il terrore negli occhi.
La conosco. Non di persona, ma so chi è: ha fama di essere una buona raccoglitrice.
Vera si posiziona alla destra di Ally, con l’aria di chi potrebbe svenire da un momento all’altro, tremando violentemente. Ha solo tredici anni.
Ally, tutta pizzi e sorrisi, si dirige dunque alla boccia dei ragazzi.
All’improvviso mi tornano in mente Al e le sue ventidue nomine. E l’ansia torna ad impadronirsi di me.
Ally ha immerso di nuovo la mano tatuata nella boccia di vetro contenente chissà quante migliaia di bigliettini. Ne ha tirato fuori uno. Si sta avviando nuovamente verso il centro del palco.
-E il nostro uomo è...- apre il bigliettino e lo liscia. Si schiarisce la voce.
“Non Al. Ti prego. Chiunque, ma non Al” penso più intensamente che posso.
-... Alexander Mason!- di nuovo Ally rivolge lo sguardo al pubblico.
Penso che il mio cuore si sia fermato, perché faccio ancor più fatica di prima a respirare. Le mani mi tremano da far paura. Alzo lo sguardo verso il palco, dove un Al ora decisamente preoccupato prende posto alla sinistra di Ally.
Cerco di non piangere. Non devo piangere. Non devo.
Vera e Al si stringono indecisi la mano, prima che un gruppo di Pacificatori li porti dentro al palazzo comunale.
Presto, c’è poco tempo: i tributi hanno solo un’ora di tempo per salutare i propri cari, e sicuramente l’intera famiglia vorrà dirgli... addio. Solo pensare a quella parola mi fa  sentire male.
Scuoto la testa e mi avvio in fretta all’entrata del municipio. La folla si sta disperdendo, un grosso peso è stato tolto dalle spalle degli abitanti del Distretto. Solo due famiglie non potranno fare a meno di disperarsi, stasera. Scorgo mia mamma, che mi fa cenno di entrare nell’edificio. Ha capito che voglio andare a salutare Al.
Mi saluta ed indica la via che porta verso i campi.
Io entro, e rimango shockata: il municipio del Distretto è uno spettacolo veramente incredibile. Nella grande hall, il cui soffitto è costituito da una cupola di vetro, ci sono un sacco di vasi di piante che chissà da dove provengono. Quadri, arazzi e antichi manoscritti racchiusi in cornici sono appesi alle pareti, che dall’odore direi tinteggiate di fresco.
Un grande tappeto di velluto rosso mi guida verso la scala. Al primo piano, ci sono le due stanze riservate ai Tributi e alle loro famiglie, per un ultimo, doloroso saluto.
Inghiottisco il groppo che mi si è formato in gola e mi dirigo verso la sala all’estremità sinistra del corridoio. La porta è chiusa, non c’è nessuno oltre a me, suppongo che la sua famiglia sia già entrata.
Quindi mi siedo per terra e aspetto. E penso. Rifletto su cosa dire ad Al una volta entrata in quella stanza. Cerco di immaginarmi se lo troverò in lacrime, oppure sorridente.
Opto per una via di mezzo: magari sarà un sorriso amaro, come quello che solca il mio viso al pensiero di Al.
Non sono mai stata brava con le parole, è da sempre un mio grande problema.
Lui mi piace. Da un sacco di tempo. Non gliel’ho mai detto, ho sempre vissuto nel dubbio, accontentandomi della sua amicizia, ma essendo gelosa ogni volta che aveva una ragazza. Non che durasse molto, comunque, ma ero gelosa lo stesso. E mi do della stupida, adesso, per essere gelosa, perché non ne ho diritto. Io non gli ho mai detto niente. Non ho mai avuto il coraggio di fissarlo negli occhi, uno nocciola, l’altro tendente al verde, e dirgli: “Ehi, cretino, mi piaci da una vita!” come invece avevano fatto altre ragazze. Alcune avevano avuto fortuna, altre meno, ma che importava ormai?
-Mi piaci, Al. E io sono una cogliona. La peggior cogliona di sempre.- sussurro a fior di labbra.
Alzo la testa di scatto. Ma certo. Ora so cosa dirgli! Non voglio che vada agli Hunger Games senza sapere che mi piace da impazzire.
Anche se sarà inutile, perché è alquanto improbabile che torni vivo – “fattene una ragione, Camille, sono le statistiche che parlano” mi dissi- devo comunque farlo. Voglio che lo sappia.
Un Pacificatore arriva, mi guarda, e bussa alla porta: -Il vostro tempo è finito!- dice. Quasi subito l’intera famiglia di Al esce dalla stanza, la madre in lacrime, gli altri semplicemente troppo sconvolti per piangere.
Una volta allontanati, il Pacificatore mi fa un cenno: -Dieci minuti, signorina.- e, dopo che ho varcato la soglia, mi richiude la porta alle spalle.
Al mi guarda con sorpresa: non ha gli occhi rossi, ma anche se tenta di nasconderlo si vede che è pervaso dallo sconforto.
Non gli lascio il tempo di dire o fare niente, e mi butto subito fra le sue braccia. È alto una buona decina di centimetri più di me, ed abbracciarlo è sempre un piacere.
In risposta, lui mi stringe altrettanto forte, sprofondando il viso nei miei capelli. Prego che non pianga, o non riuscirò a trattenermi neppure io.
Essere abbracciata in questo modo mi  fa venire il batticuore a più non posso, e voglio che lui non mi lasci mai, ma entrambi sappiamo che non è possibile. Forse è questa la cosa peggiore di tutte.
Rimaniamo così per un minuto buono, nessuno dei due dice niente.
Ci separiamo, e io gli leggo il terrore negli occhi. Quegli occhi stupendi che tante volte mi hanno fatta sentire a disagio... un bellissimo disagio.
-Non voglio andare là, Cam.- mi dice finalmente.
Lo guardo bene in viso. I fratelli devono avergli scompigliato tutti i riccioli neri, ma quella non è una novità. Quel che mi stupisce è l’espressione: gli occhi, la bocca, le sopracciglia –perfino il naso un po’ a patata, se potesse- sono contratte una specie di smorfia.
Ma che dico, è peggio: è come se terrore, pietà e una profonda tristezza facessero a gara per prendere posto sul suo viso.
-Nessuno vorrebbe andarci- rispondo alla fine. Complimenti, Camille, davvero le parole giuste da dire.
Lui, però, sorride inaspettatamente, ed è un sorriso vero. O almeno, l’espressione più vicina ad un sorriso che si può permettere in questo momento.
Ma anche così, il mio cuore non può fare a meno di accelerare i battiti. Non so cosa farei, pur di non perdere quel sorriso. Pur di non perdere lui.
-Sei e sarai sempre uno schifo con le parole, Cammie cara.- replica Al, guardandomi con espressione leggermente beffarda.
-Neanche gli Hunger Games ti impediscono di chiamarmi Cammie.- gli faccio notare tentando di sdrammatizzare.
Forse un po’ ci riesco, forse non faccio così schifo come credo.
Entrambi ci giriamo verso la finestra: l’orologio segna le tre e cinquantasei minuti. Non ci rimane molto tempo.
-Potresti farcela, sai?- gli dico.
All’inizio sembra un’affermazione buttata li a caso, ma man mano che me la ripeto mi convinco sempre di più.
-A fare cosa?- mi domanda Al.
-A vincere gli Hunger Games. Sai arrampicarti, tuo zio ti ha insegnato a cercare l’acqua, sai come si usa un coltello, e di sicuro lì ci saranno armi molto più pericolose di un coltello. E sei anche forte. Sei grande e grosso. Potresti allearti con... i favoriti... e poi farli fuori tutti mentre dormono, o qualcosa del genere.- dico tutto d’un fiato.
Mi guarda con aria perplessa: -Cam, non è sicuro che ci siano degli alberi... e poi non è che posso andare dai favoriti e dire “ehi, sentite, io so fare questo e quest’altro, mi prendete con voi? Non è che voglio ammazzarvi quando meno ve l’aspettate o cazzate varie, eh!” la fai troppo semplice!-
-Almeno stavo provando a fornirti qualche idea!- ribatto, irritata. Ma subito dopo mi pento di quello che ho detto. Non deve essere facile per lui. Sono un’insensibile, oltre che una cogliona.
-Scusami, non deve essere piacevole trovarsi in questa situazione- grandioso Camille, usa pure l’eufemismo del secolo!
-Figurati, sono solo nervos... no, ok, sono terrorizzato- ammette infine.
Lo abbraccio un’altra volta. Mai dati tanti abbracci in vita mia.
Questa volta mi godo decisamente di più il momento. Ispiro a fondo il suo profumo, che non ho idea di cosa sappia... cioè, sa.... di Al!
Lui mi stringe forte. –Non voglio andare via. Non voglio lasciarti.- dice.
Capisco di arrossire parecchio e picchio ancora di più la testa contro il suo petto. Mi meraviglio: anche il suo cuore batte forte quanto il mio.
-Ti devo dire una cosa, Al. – sussurro, prima di riuscire a fermarmi.
-Dimmi. – risponde lui, ed inizia ad accarezzarmi i capelli.
Si può morire per il piacere? Credo proprio di sì. O almeno, per l’infarto che quel piacere ci provoca.
Allento un po’ la presa e lo guardo negli occhi. Mi sta sorridendo, con un sorriso decisamente strafottente, eppure caloroso. Oh, cosa non farei pur di tenere per me quel sorriso!
È ora o mai più, lo sento, devo dirglielo.
Non posso continuare a far finta di niente, a rifugiarmi nella mia codardia. Devo lanciarmi.
Prendo fiato, ma abbasso lo sguardo, sono sicuramente diventata rossa, e fisso un vaso da fiori posato sul tavolo alla nostra destra. Mi manca la voce.
-Al, tu mi...- ma non faccio in tempo a concludere la frase. Al prende il mio volto tra le mani e mi bacia, con quelle sue labbra carnose pronte a regalarmi ogni volta un sorriso diverso, eppure bellissimo.
È un bacio delicato, dolce, è il più bello che potessi ricevere. Ma è un bacio d’addio.
-Anche tu. - mi sussurra Al, prendendo di nuovo ad accarezzarmi i capelli.
Devo proprio avere un’espressione strana, perché Al mi chiede: -Va tutto bene?-
-Si- mi limito a rispondere, prima di alzarmi sulle punte e baciarlo io, questa volta.
Ora è diverso: il bacio questa volta è...passionale. Romantico. Come se ci fossimo solo io e Al, solo noi due. Niente Tributi, niente Hunger Games, niente Distretto 11 e niente Panem.
Io e Al. E basta.
Quando ci separiamo, è come se improvvisamente sentissi la mancanza di qualcosa.
Voglio sentire quelle labbra posarsi sulle mie ancora e ancora, ma purtroppo non è possibile.
Il tempo a nostra disposizione è quasi terminato, mancherà poco meno di un minuto.
Restiamo abbracciati ancora, immobili, e nemmeno questa volta uno dei due dice niente.
Io passo la mani fra i suoi capelli, e lui fa lo stesso con i miei.
Sentiamo dei passi che si avvicinano: sta arrivando il Pacificatore. Ormai è ora.
Mi stringe forte, molto forte, e mi sussurra all’orecchio: -Mi mancherai nell’Arena, Cam. Mi mancherai più di tutto il resto.-
-Vinci.- gli dico. Il Pacificatore apre la porta, dice che il mio tempo è terminato e mi intima di uscire.
-Vinci!- ripeto. –Vinci e torna al Distretto 11!-
-Vincerò- risponde lui.
-Giuralo!- il Pacificatore sta chiaramente per entrare e tirarmi fuori a forza.
Al si posa una mano su cuore: -Giuro di vincere gli Hunger Games e ritornare vivo al Distretto 11.-
Mi sfilo in fretta il bracciale di corda ed erba essiccata che mi ero intrecciata anni prima e glielo porgo: -Tieni. E se ti dimentichi del giuramento, tiferò per i favoriti!-
Mi dirigo verso la grande porta di legno che da’ sul corridoio.
Quando mi volto, l’ultima cosa che vedo prima che la porta si chiuda è Al che stringe il bracciale. Mi fissa intensamente e mima con le labbra “Lo giuro”.
E questa probabilmente è stata l’ultima volta che avrei potuto vedere i suoi bellissimi occhi, uno color nocciola, l’altro tendente al verde.
 

***

 
I Pacificatori stanno scortando i due Tributi ai vagoni del treno che li porterà a Capitol City.
C’è una marea di folla attorno a loro, tra cameramen e curiosi.
Io no. Io assisto da lontano.
Sono sul tetto della farmacia, un po’ lontana dalla stazione a dire il vero, ma si riesce a scorgere qualcosa anche da qui.
Eccoli, ora salgono sul treno. Si chiudono le porte. La locomotiva fischia e, lentamente, inizia a muoversi. Va sempre più forte, sempre più forte, fino a raggiungere chissà quali velocità. E in breve tempo scompare dalla mia visuale, allontanandosi in direzione della Capitale.
Io mi giro, dando le spalle alla stazione, e lascio vagare lo sguardo sugli ettari di piantagioni, a stento distinguibili l’una dall’altra, ma comunque riconoscibili.
L’anno prossimo io sarò di nuovo là, su quegli alberi, invidiando Al perché ora non avrà più problemi con il cibo, le tessere e i vestiti, ma che se la spasserà al Villaggio dei Vincitori.
Perché Al tornerà indietro, no?
Un sorriso amaro mi solca il viso al pensiero che, con grande probabilità, la risposta a quella domanda è ‘no’.
Le lacrime a lungo trattenute durante la giornata scendono abbondanti, e io non faccio nulla per fermarle, o per frenare i singhiozzi e i tremiti del mio corpo.
-Tu mi piaci, Alexander Mason, mi piaci da impazzire.- dico, tra un singhiozzo e l’altro.
E quando alzo di nuovo lo sguardo sui campi, c’è solo il vento che mi scompiglia i capelli a tenermi compagnia.



















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Spazio Autrice (spero sia giusto metterlo qui ahahah):
Oddio, questa è la prima FanFiction che scrivo, sinceramente mi fa un sacchissimo strano essere qui su EFP, sito nominato da tutti, ma di cui io, fino a tipo sei mesi fa, non conoscevo l'esistenza. Non scannatemi, vi prego T-T
Tra l'altro, quando mi è venuta l'idea per la One Shot, stavo ascoltando "Moments" e le parole mi sono sembrate adattissime alla situazione! Anche se in effetti l'originale sarebbe: "I'll find the words to say, before you leave me today" senza la domanda. Solo che all'inizio il finale doveva essere diverso, e quindi ci doveva essere la domanda... vabbuò, lasciamo perdere gli inutili(?) motivi che hanno portato la mia mente bacata a scegliere questo titolo.
Allora, spero vi sia piaciuta questa One Shot decisamente lunga... ma non ho saputo regolarmi altrimenti. Ho dei grandi problemi con la sintesi e il divagare :3
Va beeene, dedico questa mi prima FF a Gio_Chan, incasinata come non mai(?).
Fatemi sapere cosa ne pensate u.u  grazie mille in anticipo a chiunque lo farà :D
Concludiamo qui questo assurdo Spazio Autrice ò.ò
Aki_Saiko
  
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