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Autore: Sbrecks    03/09/2012    1 recensioni
“Anche se fosse, resterebbe tra noi, non credi?”.
“Credo che....in questo momento tu sei l’unico, a cui credo.”
“Credo che in questo momento tu sei l’unico. E basta”.
John Lennon si accostò all’imponente porta finestra dirimpetto e tirò con rabbia le tende. Non voleva vedere scendere la sera. Non voleva imbambolarsi a guardare di nuovo quella cazzo di luna che gli ricordava quanto fosse impossibile schiodare l’ombra di Paul dal ricordo di tutto ciò che aveva vissuto...

John/Paul attraverso gli anni. Uniti dal loro legame inscindibile, dalle loro assenze e presenze, da ciò che è stato detto o non detto. Ma soprattutto, tenuti insieme da qualcosa che non i rancorosi silenzi, non il tempo, non la morte, potranno mai del tutto recidere.
Genere: Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Lennon , Paul McCartney
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Note:Niente di quanto da me (alla cazzo di cane) narrato è (PROBABILMENTE) accaduto realmente (PER DISGRAZIA).  Ringrazio e incolpo mia sorella, per avermi incoraggiato ad appassionarmi ufficialmente all’aureo mito della McLennon, augh.


Just a Feeling


Liverpool, 1958

 
 

-Eccomi. Sono arrivato, appena ho potuto. Che c’è?
 
John era seduto su una panchina, ubriaco fradicio e con le braccia conserte in petto. Non rispondeva e tremava visibilmente, a causa del freddo della notte. Paul scosse la testa, esasperato. E come avrebbe potuto non tremare!?  Quel pazzo era in camicia! In camicia DANNAZIONE! In pieno novembre...!
-Sei in ritardo, McCartney. E’ mezz’ora che me ne sto qui da solo, come un perfetto imbecille. Tuo padre doveva tagliarti i capelli di nuovo?
-Piantala. Guarda che me ne vado...-
 
Paul si sedette accanto a lui, contrariato. Lo detestava quando faceva battute cretine, per mascherare quanto in realtà stesse male, e cercava oltretutto di umiliare chi non aveva intenzione alcuna se non quella di aiutarlo.  Ma al tempo stesso lo ammirava, a dire il vero.
John era così........determinato, per essere poco più di un ragazzino. Sempre risoluto a restituire di sè un’immagine assolutamente inattaccabile.
-Beh? Perchè te ne stai qui a marcire di freddo, anziché essere a casa? Mimi ti ha  sfrattato, dopo aver raccolto dalla strada l’ennesimo felino?- Indagò, cercando di farlo ridere. Ma John non raccolse.
-Ho alzato le mani su Cynthia, Paul...-
- Oh.
-E lei....mi ha piantato.
-Beh...senza offesa, John. Te la sei cercata, se è andata così. In ogni caso, mi dispiace..-
 
Paul si preparò a vedere riversata su di sè una micidiale scarica di epiteti, se non a beccarsi un pugno in faccia. Aveva visto John scazzottare senza mezzi termini Pete Shutton, alla veglia funebre di sua madre, e non si sarebbe quindi sorpreso in alcun modo di ricevere egli stesso un pugno particolarmente violento. Forse, era stato indelicato: probabilmente avrebbe dovuto fingersi maggiormente solidale , con John, nonostante avesse torto... anche solo per amicizia!
Ma con sua grande sopresa, John, tacque, continuando a guardare dritto davanti a sè. Paul lo fissava con la coda dell’occhio, a sua volta in silenzio. Si accorse con stupore, dopo qualche istante, che le sue spalle sussultavano sempre maggiormente.
John era scoppiato in lacrime.
-Sono un cretino, una bestia. Ma.....lei faceva la svenevole con Stuart ed io non c’ho più visto. E adesso ...- Mugugnava John, con la testa fra le mani -...adesso mi ha piantato, Paul. Come mia madre. Sono una cazzo di merce difettosa da rispedire al mittente, io: per trovarsi un nuovo fidanzato da scopare, o magari nuovi figli migliori da crescere. Non valgo niente. Ed anzi...perchè non ti trovi anche tu un nuovo amichetto, di cui fare il lecchino? Mi hai sentito?
 
Paul si ritrovò afferrato per il collo della sua giacca nera e sballottato violentemente, ma non si scompose. Era perfettamente avvezzo ai clamorosi sbalzi d’umore di John e, delicatamente, posizionò le sue mani sugli avambracci di lui, abbassandoli con lentezza sino a quando non mollarono la presa, tornando a ricadere lungo il busto.
-Con calma, John. Prima di tutto, non sono il lecchino di nessuno. Tantomeno il tuo...- Gli disse, guardandolo dritto negli occhi. -E poi... ma vaffanculo, scusa! Magari, a differenza di tutte queste altre persone, io sono più che felice di leccare il tuo!
John sbattè gli occhi, interdetto. Le sue iridi nocciola erano specchiate in quelle di Paul, che ne avvertiva la profondità anche nel buio. Non sembrava lo stesso, così fragile e smarrito. Un improvviso tuffo al cuore lo fece sussultare, anche se Paul si ritrovò a dare la colpa al solo gelo pungente.
- McCartney, sei disgustoso...-
- Può essere. Ma intanto, ho reso l’idea.  John, io non sono come tutti gli altri e non me ne vado da nessuna parte! E poi non siamo soli, stasera! Guarda!...-
John si lasciò docilmente stringere dal braccio di Paul, che lo attirò a sè per permettergli di sbirciare tra le fronde , intricate ed oscure, degli alberi sopra di loro.
-La Luna?
-Sì, la Luna!..- Sorrise Paul, protendendo verso John un lembo del proprio giaccone per coprire lo scriteriato Lennon, seminudo in pieno inverno -...guarda com’è grande, stasera! E non fare quella faccia, suvvia! STAVOLTA, CHE C’E?
 
“C’è che...sembriamo due deficienti, che guardano la Luna!”
 
Paul sogghignò di nuovo: riuscendo a strappare anche a John, per la prima volta in quella serata il primo, e del tutto sincero, sorriso.
 
“E non è quello che siamo, forse?”
 
 
 
 

New York, Dakota Building- 1976

 
-Fuori di qui. Non è più come quando avevamo quindici anni, non lo capisci, Paul? Che diamine! Non voglio trovarti in mezzo alle mie palle più di quanto non ci stia Yoko. Devi andartene di qui..-
Il sorriso di Paul – quella solita, vecchia espressione un po’ maliziosa, con gli incisivi leggermente sporgenti (quegli stessi incisivi da criceto che avevano tante volte fatto commentare a John, durante le interviste, con una delle sue solite facce terrificanti :“some kind of hamster..”)- gli scomparve immediatamente dal viso, mentre sulla soglia del Dakota Building, -settimo piano, appartamento “LennOno”- , con una chitarra tra le braccia che avvertiva improvvisamente troppo pesante, Paul “The Cutie”, probabilmente il Beatle più amato dalla stampa e dalle ragazze si sentiva per la prima volta, di fronte agli occhi della persona con cui aveva diviso nelle puzzolenti  retrovie del Bambi Kino un letto  troppo piccolo nel travagliato periodo “della formazione”, uno sgradito sconosciuto. Certo; oramai, i dorati anni dei Beatles, gli anni dei capelli che avevano scandalizzato il mondo e della musica che, probabilmente, aveva addirittura il merito di averlo cambiato erano finiti. Ognuno di loro se ne era andato per la propria strada, stufo di vedersi incatenato al mito giovanile dei bellimbusti in giacca e cravatta più inscindibili di una catena di montaggio , tentando di costruirsi una carriera da solita...ma...
 
..Ma...Paul....ODIAVA, (sì.. ODIAVA!),  la distanza che si era creata tra lui e John. Oramai si erano procacciati ambedue due esistenze separate, certo. Non erano più quei due ragazzini che piangevano l’uno tra le braccia dell’altro e ai quali bastava scambiarsi uno sguardo complice per cominciare a ridere. Quasi sicuramente, anzi, tutto ciò che in quegli anni era avvenuto, così come i tempestosi postumi della separazione dei Beatles, aveva provveduto a separarli più che a
ri-avvicinarli, ma...  
Paul non riusciva a rassegnarsi comunque  all’idea di aver “perso” John (il suo stronzissimo, insopportabile e caotico John) ancora prima di  averne avuto “abbastanza” di lui.
Aveva sempre immaginato, in quei duri giorni in cui quello stronzo non aveva la benché minima intenzione di mettersi a sedere e di lavorare seriamente e a Paul toccava, perfezionista come al solito, reprimere a stento gli istinti omicidi per privilegiare la diplomazia, che d’altro canto non avrebbe tardato a farsi attendere il giorno in cui si sarebbe sentito saturo, perfettamente stufo di quell’eterna Sciarada con le gambe, a tratti aggressiva e a tratti fragile, capace di mandarti affanculo con rabbia inaudita per poi gettarti, tutt’a d’un tratto, le braccia al collo, sussurrando..”Non lasciarmi..perfavore....!”.

Eppure, quel momento, ancora non era arrivato. Almeno, non per lui. Gli mancava dannatamente John. 

Avrebbe voluto di nuovo poterlo chiamare in piena notte, se solo gli frullava una canzone nella testa.

Presentarsi a casa sua senza essere accolto con notevole perplessità, ma bensì con il solito “entra, coglione” .

Di nuovo, non riuscire a trattenere le risate quando, come sempre dimostrando di non possedere il benché minimo senso della decenza , John ne approfittava per rivolgere a suo indirizzo qualche faccia imbecille, strafregandosene di essere sopra ad un palco, e mandando così proverbialmente a puttane anche la facciata di compunzione di Paul “Il bello”. Quante immagini, quante riprese li ritraevano a sbellicarsi dalle risate, dopo essersi lanciati uno sguardo complice!

Gli mancava anche arrossire come uno scolaretto sotto lo sguardo di John, a dire il vero. Quello sguardo assurdo che lo faceva andare su tutte le furie, con cui tante volte l’aveva beccato a fissarlo, dentro al quale Paul leggeva un misto imprescindibile di affetto e di emozione.

-Mio dio, Lennon ! La vuoi smettere di guardarmi?Si può sapere....che cos’hai?
-Hai presente la prima chitarra che avresti tanto volute comprarti, quando invece tuo padre ti regalò una tromba, Paulie?
-Sì. Cazzo, che tristezza. La odiavo, quella tromba. Ma non vedo che cosa c’entri...!
- Ecco. Ti ricordi come la guardavi ,dalla vetrina, la chitarra che desideravi tanto disperatamente ma che non avresti mai potuto comprarti perchè un deficiente di padre ti  aveva appena appioppato una tromba..?
-Eh?! Non insultare mio padre! Ma che cazzo significa, poi? Comunque, sì... certo, che me lo ricordo...!
- Bene. E allora, non chiedermi” che cos’ho”, McCretiney. Cristo....-
 
Paul sorrise, riportando brevemente alla mente quel ricordo.  Per tutta risposta, John lo fulminò nuovamente.
 
-Mi hai sentito, Paul? Cazzo, vattene. Yoko è uscita: se quando torna ti trova qui, sfolla di brutto. In questi giorni non è dell’umore. Sta entrando in menopausa, temo. E, a giudicare dal rincoglionimento, anche tu. Che cosa fai lì impalato?...-
 
Paul si riscosse, ripuntando i suoi giganteschi occhi felini, ancora vivi e speranzosi come nella sua prima giovinezza, sull’amico. Era magro, avvolto nel completo del pigiama a righe trasversali e con gli occhialini rotondi ormai caratteristici della sua immagine, gli stessi con i quali da ragazzo rifiutava categorico di mostrarsi in pubblico, sistemati sulla punta del naso leggermente aquilino. 
Non era più il John “morbido”, che con George e Ringo si divertiva tanto a prendere in giro per le sue checchissime manie alimentari, le quali gli imponevano di lamentarsi mezz’ora, al termine di ogni pasto, del proprio presunto lardo.  Paul si chiese un po’ preoccupato se sarebbe riuscito a raggiungere, così sciupato com’era, i settanta chili. Con un paio di scarponi da montagna addosso, forse.
 
-Sembri uno spaventapasseri, John. Di’ un po’......ingerisci qualcosa che non sia fumo?
-Chi sei, mia madre? Porca miseria Paul....alza i tacchi, ti ho detto...!- John spinse Paul leggermente in avanti, come per rafforzare il concetto. Non lo voleva tra i piedi: Yoko l’avrebbe sgozzato, trovando McCartney in casa al suo ritorno, e lui non era oltretutto assolutamente in vena di sorbirsi bisticci ed urla. Tutto ciò che voleva era del fottuto silenzio..ed un buon e depurante thè verde...- mi farò risentire io, prossimamente.   
-Lo prometti?
-..Oh cielo. Lo prometto! Ed ora, va...-
- Aspetta, John...-
-Cosa?
 
Paul si fermò un attimo, immobile sulla soglia di casa.  Iniziava ad avere qualche ruga d’espressione.
Aveva trentaquattro anni.
Eppure, di fronte a John, non c’era storia.  Era sempre il ragazzino timido che suonava a Wolton, davanti ad un “pezzo grosso” con il gruppo Skiffle e due anni in più di lui: un ragazzino con il fiorellino nel taschino che si sentiva un perfetto stronzo sotto lo  sguardo di sufficienza di John, che sembrava scrutarlo in cerca della minima imprecisione tecnica.
 
Avrebbe voluto dirgli “perchè fai questo a te stesso, John?”.
Avrebbe voluto dirgli “perchè  è tutto così dannatamente complicato, adesso?”.
Avrebbe voluto dirgli “ehi, perchè non la smettiamo di farci la guerra, e....non vieni via con me?”.
 
 Invece, Paul McCartney –il Beatle “bello”, quello felice e realizzato, che si era costruito una famiglia, una nuova carriera ed era riconosciuto universalmente come leader creativo che si era conteso, negli anni d’oro del successo, con John Lennon il titolo di “mente” del gruppo- rimase immobile, senza sapere ben che dire.
 
-C’era qualcosa che volevi dirmi?
-Oh, no. Niente di importante. D-da un occhio alla luna, se puoi, stasera. A presto, John. Ci conto, eh..?-
 
John Lennon poté finalmente chiudere la porta del suo appartamento dietro le proprie spalle, tirando un profondo sospiro. Ma non riuscì certo a sentirsi più leggero o più sollevato, nonostante il silenzio fosse ritornato a pesare sulle sue spalle ed il pericolo di fare incazzare Yoko fosse stato miracolosamente scongiurato. Prima di andarsene, Paul gli aveva rivolto un altro di quegli stupidi sorrisi pieni di speranza. Vaffanculo!
Non importava quanto lo insultasse, cercasse di allontanarlo da sè o gli vomitasse addosso il suo veleno, il rancore che gli serbava per averlo “lasciato balia di sè stesso”. Paul tornava sempre, come un cane fedele, a seguire le orme di colui che aveva preso la sua vita e l’aveva inscindibilmente legata alla propria.
Lui Tornava! Sarebbe tornato sempre, sempre a ricordargli ciò che aveva perso! E lui non poteva che detestarlo, detestarlo con ogni fibra del suo corpo, per questo!
John Lennon si accostò all’imponente porta finestra dirimpetto e tirò con rabbia le tende. Non voleva vedere scendere la sera. Non voleva imbambolarsi a guardare di nuovo quella cazzo di luna che gli ricordava quanto fosse impossibile schiodare l’ombra di Paul dal ricordo di tutto ciò che aveva vissuto.
 
“C’è che...sembriamo due deficienti che guardano la Luna!”
“E non è quello che siamo, forse?”
“Promettimi che non farai anche tu come quella stronza di Cynthia, McCartney..!”
“Ma...”
“PROMETTILO!”.
“Promesso, John! PROMESSO! Oh cazzo...ma che fai....piangi? Non si piange, qui! Don’t cry, don’t cry,pretty girl...!”
“Non migliori le cose, merda. Così mi fai sentire un frocio..!”.
“Anche se fosse, resterebbe tra noi, non credi?”.
“Credo che....in questo momento tu sei l’unico, a cui credo.”
“Credo che in questo momento tu sei l’unico. E basta”.
 
John Lennon si accese una sigaretta, sperando vanamente che il fumo gli strozzasse il nodo in gola. Mise la bustina in infusione e, imponendosi a tutti i costi di non piangere, (cazzo, NO! Era un uomo, adesso!) non riuscì tuttavia a soffocare un opprimente moto di rabbia. Perchè non era semplicemente capace di affrontare Paul, e tutto ciò che Paul comportava? Di chiedergli senza mezzi termini di ritornare a far parte della sua vita, nel senso più vero del termine, o di andarsene per sempre a farsi fottere? Perchè....perchè era una dannata mezza sega, ecco perchè.
Sapeva che gli sarebbe mancato per sempre il coraggio di chiamarlo. E così, per la frustrazione di averlo perso...l’aveva perso un'altra volta.
John scaraventò con aria rabbiosa la teiera contro al muro, che si frantumò immediatamente con un rantolo disperato, schizzandogli per protesta un fiotto di acqua bollente addosso. Quindi, incurante dei cocci di porcellana sparsi sul pavimento così come del suo pigiama fradicio, fece rotta verso la propria camera da letto, laddove aveva tutta l’intenzione di barricarsi.
Per la prima volta non gli importava assolutamente nulla del casino che avrebbe fatto Yoko, colta da raptus isterico alla sola vista di quel disastro seminato sul parquet, una volta rientrata in casa.
Lui non l’avrebbe ascoltata.
Avrebbe guardato la luna, dalla finestra della sua stanza, quella sera. E basta.
Ancora una volta...solo.
 
 
Paul si ritrovava di nuovo a dover fare dietro front, con un macigno sopra al cuore. Sapeva benissimo che John non aveva la benché minima intenzione di ricontattarlo , e mentre camminava tra la folla New Yorkese , distante e perennemente di fretta,  con la sua chitarra classica in grembo, non poteva fare a meno di chiedersi come avessero potuto arrivare a quel punto. Come avevano fatto due ragazzini cresciuti nella Liverpool devastata tra le bombe, nel dolore e nella solitudine immensa delle loro case senza madri; due eterni bambini forse mai diventati grandi, passati attraverso mille e più di mille avversità senza mai separarsi, dicendosi anche troppo...o, probabilmente, troppo poco... –sì, insomma; Due di loro- a diventare, in capo a qualche anno, due perfetti estranei, che sembravano non avere più niente da dirsi?
Come poteva, John, allontanarlo a quel modo? Quando ancora lo avrebbe rivisto? Che cos’era, in fin dei conti, un oceano di distanza rispetto ad...un oceano di ricordi?  Paul alzò lo sguardo, lasciandosi sfuggire un malinconico sorriso. Principiava a rabbuiarsi. Presto, sarebbe stata sera, e anche lui avrebbe ammirato nuovamente la luna.

“Oh...-Pensò, ipnotizzandosi a guardare una coppia di ragazzini con i roller brade, che pattinavano fianco a fianco e ridevano tra di loro -....al diavolo. Se John vuole fare finta che niente sia successo, non troverà in me un alleato. Niente impedisce a ME, di fare il contrario...”.

E fu così che Paul, camminando per le strade sopra le quali pesava la tiepida malinconia dell’autunno alle porte decise, facendo appello a tutta la sua memoria, di ricordare..... 
 

 
 

  
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