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Autore: CowgirlSara    04/09/2012    6 recensioni
John, di base, era un tipo tradizionalista. Gli piaceva la monarchia, il roast beef con il purè, il pudding di Natale e aprire la porta alle signore.
Sherlock era un anticonformista. Con tendenze distruttivo-rivoluzionarie. Ma non per cattiveria. Era solo che le convenzioni sociali, le tradizioni, i pudori, gli sembravano solo una massa di cose inutili, sopravvalutate e noiose.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'The Great Divide'
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Countin on a miracle
Beh, visto che il finale della mia long fic sembra non aver spronato le recensioni, vedrò di rimediare con questa… cosa, che non so bene cosa sia.
Ho delle pretese per un grosso Boh come questo? In realtà no, volevo solo farvelo leggere per capire se ha senso o meno. ^_^ Vi prego, vi prego, fatemi sapere qualcosa, non lasciatemi vagare in questo deserto esistenziale!

Ok, non sono una persona seria, spero lo abbiate capito XD

I personaggi usati appartengono ai loro legittimi autori e sono usati senza scopo di lucro. La canzone che introduce e chiude la storia è l’intensa “Countin’ on a miracle” di Bruce Springsteen, su cui non guadagno una lira e che è perfetta per John.

Vi lascio alla lettura, grazie in anticipo!
Baci
Sara


Countin' on a miracle

If I'm gonna believe
I'll put my faith
Darlin' in you


John, di base, era un tipo tradizionalista. Gli piaceva la monarchia, il roast beef con il purè, il pudding di Natale e aprire la porta alle signore.

Sherlock era un anticonformista. Con tendenze distruttivo-rivoluzionarie. Ma non per cattiveria. Era solo che le convenzioni sociali, le tradizioni, i pudori, gli sembravano solo una massa di cose inutili, sopravvalutate e noiose.

John era un tipo metodico e preciso. La mattina si alzava di buon ora ed era veloce nel prepararsi, come gli aveva insegnato la sua vita militare. Lavato, sbarbato e vestito, in pochi minuti era perfettamente pronto alla giornata.
Solo la domenica si concedeva più tempo. Faceva una lunga doccia e si permetteva di oziare col giornale in mano, restando in accappatoio. Sempre che non ci fosse un caso in corso.

Sherlock riteneva che l’ordine fosse un qualcosa di assolutamente necessario solo nel suo palazzo mentale e nel cassetto dei calzini. Svernava in bagno, perché era particolarmente fissato con l’igiene personale. Ma a qualsiasi ora lo cogliesse un nuovo caso, lui era sempre perfettamente pronto all’azione con barba fatta, camicia pulita e calzini abbinati.
Tranne quando si concedeva di riflettere nella vasca da bagno. Immerso fino al collo nell’acqua calda, sostava ad occhi chiusi e mani giunte; pensava e pensava, vagando nei meandri del proprio cervello, almeno finché John non lo obbligava ad uscire prima che gli si staccasse la pelle di dosso.

I sonni di John potevano essere anche piuttosto brevi, ma fondamentalmente tranquilli. Specie da quando si era trasferito a Baker Street. Sognava ancora l’Afghanistan, ma ora si permetteva di ricordare quanto erano belle le montagne di notte, quando c’erano milioni di stelle come mai ne avrebbe viste in Occidente, e faceva freddo ma c’era la voglia di fare qualcosa di buono.
I sogni di John, da quando era a Baker Street, non avevano più il rumore dei colpi di mortaio e l’odore arso di un deserto lontano.

I sonni di Sherlock erano brevi e fugaci, necessari soltanto a riempire momenti di noia estrema o ad una breve ricarica fisiologica. Quando aveva un caso, Sherlock poteva anche non dormire per giorni. Salvo poi precipitare in letarghi comatosi da cui si svegliava più annoiato che mai.
I sogni di Sherlock erano veloci come immagini subliminali. Riassunti di osservazioni, deduzioni, informazioni, volti, storie e voci. Tutto necessario ad una migliore catalogazione e gestione nel suo meraviglioso cervello.

John, quando avevano un caso, si riduceva in condizioni pietose, per stare dietro a Sherlock. Stropicciato, spettinato, con la barba di tre giorni, il sonno arretrato ed un urgente bisogno di una doccia. Sempre che non fosse addirittura ferito.

Sherlock, quando avevano un caso, si esaltava a livelli ingestibili. Non dormiva, non mangiava e si fermava solo per riflettere. E tutto ciò senza che gli pendesse mai un pelo. Dove diavolo lo trovava il tempo per radersi?!

A John piacevano le donne. Come si muovevano, come parlavano, come pensavano. Gli piacevano anche, a volte, quando ridevano come galline. Gli piaceva il loro profumo, il loro corpo, il modo che avevano solo le donne di essere accoglienti. Gli piaceva Sara, perché era intelligente e pratica. Gli piaceva Molly perché era dolce e ingenua. Gli piaceva anche il modo supponente con cui Donovan trattava lui e Sherlock. Insomma, le donne erano stupende.

Tranne Una. Ma non aveva molto peso, a livello statistico.

A Sherlock non piaceva l’umanità. Era rumorosa, noiosa, ignorante, superficiale e occupata per la maggior parte del tempo a fare cose inutili. E poi, perché avere comprensione per qualcuno che, ad andar bene, ti considerava un freak, uno strambo, un matto, un rompipalle. Solo poche persone erano riuscite a colpirlo, a guadagnarsi il suo rispetto e la sua fiducia. Soltanto due erano riuscite a sfiorare quell’involucro indifeso che era la sua anima, oltre la corazza protettiva che si era costruito intorno.

Uno era Lui. L’altra era Lei. Non c’era bisogno di molto altro, per descriverli.

Il piatto preferito di John era il maiale arrosto con la salsa di mele che faceva sua madre a Natale. Ma sua madre era morta da dieci anni, Harry poteva tranquillamente concorrere per la peggior cuoca d’Inghilterra e non aveva speranza di poter commuovere tanto Mrs. Hudson da convincerla a farglielo. E poi, nessuno garantiva che sarebbe venuto bene come quello della sua infanzia.
Il piatto preferito di John, da quando era a Baker Street, erano diventati i noodles con pollo e fagioli neri del cinese all’angolo.

Sherlock non aveva mai avuto un piatto preferito, sebbene la povera Dotty – cuoca di famiglia – gli preparasse piatti che per chiunque sarebbero stati prelibati. Ma lui preferiva leggere, fare esperimenti, esplorare in lungo e in largo il parco, qualsiasi cosa tranne mangiare. Ora viveva di shortbreads, patatine e bibite energetiche. E, naturalmente, delle torte al rabarbaro di Mrs. Hudson.
Da quando, però, c’era John a Baker Street, ogni mercoledì, mangiava insieme a lui i noodles con pollo e fagioli neri del cinese all’angolo.

A John piacevano le camicie a quadri, i maglioni a rombi, i pantaloni a coste di velluto e non metteva mai la sciarpa. E tutto questo anche se Sherlock pensava che si vestisse come un nonno di provincia affetto da demenza senile. Per lui contava più la comodità che la bellezza di quello che aveva addosso.

Ma non poteva immaginare il segreto desiderio di Sherlock, negato perfino a se stesso, di vederlo in divisa, come in quella vecchia foto del diploma all’accademia che aveva trovato per caso in un suo cassetto. Il fascino dell’uniforme.

Sherlock era sempre impeccabile. Completi scuri, camicie eleganti – bottoni, niente gemelli – scarpe nere. E quel cappotto – un buon cappotto, se vuoi sembrare più alto – che gli andava a pennello ed a cui poteva tirare su il bavero quando c’era da enfatizzare il momento, da sottolineare un sorrisetto beffardo o far risaltare degli zigomi particolarmente affilati.

John, però, avrebbe davvero voluto vederlo una volta con jeans e una maglietta. Così, solo per vedere se stava tanto bene lo stesso. Senza l’uniforme che si era creato da solo.

John Watson non era un uomo che provava particolari sentimenti negativi, tranne verso le casse automatiche, chi sfruttava il prossimo per il proprio tornaconto e i tornelli della metropolitana.
Ah, e verso Sherlock. Quando era particolarmente pedante, saccente, complicato, ermetico, irraggiungibile, chiuso in se stesso.

Sherlock Holmes si era imposto fin dalla più tenera età di non provare sentimenti di alcun genere per nessuno. E, a dire il vero, gli era riuscito piuttosto facile, nel corso del tempo. Bastava guardare ogni esperienza della vita dal lato razionale e scientifico. C’era sempre una spiegazione e, se eri così bravo da tenere lontana ogni tentazione di contatto umano, potevi tranquillamente farcela.

Se c’era una cosa che John veramente odiava, era non capire le conclusioni di Sherlock prima che lui fosse costretto a spiegargliele. Soprattutto perché, in quei casi, leggeva una certa delusione nei suoi occhi chiari, come fosse dispiaciuto di non trovarlo all’altezza.
Ed era deluso anche John, perché lui adorava le deduzioni di Sherlock, pendere dalle sue labbra mentre esponeva a velocità impressionante i collegamenti che il suo cervello faceva ancora più velocemente, vederlo muoversi sulle scene del crimine, esaminare gli indizi, sondare i testimoni.

Sherlock non sapeva esattamente cosa provava – provava? Il verbo provare sottintendeva sentimenti? – quando John sembrava non seguirlo, non afferrare il suo ragionamento, non concludere le sue frasi. E non fargli i complimenti quando finiva di esporre una deduzione brillante.
Delusione? Frustrazione? Mancanza? Sentimenti inutili che, continuava a pensare, non gli servivano a niente. E allora perché provarli? Finora, infatti, non gli aveva dato troppo peso, li aveva ignorati. Fino a John.

A John piacevano molte cose di Sherlock, ma soprattutto il modo che aveva di liquidare gli scocciatori. Bastavano trenta secondi netti delle sue deduzioni e prima annichilivano, poi se ne andavano imprecando a testa bassa. Il problema era che questa cosa la faceva anche con chi scocciatore non era…

Sherlock si meravigliava sempre di come, la maggior parte delle volte, John piacesse alle persone. Beh, era senz’altro una persona piacevole, ma di solito lui non amava quello che piace alle altre persone: era superfluo. John, però, non era noioso o banale. Ma piaceva alle persone. E anche a lui.

John adorava le mani di Sherlock. Perché non ne aveva mai viste di così belle. A parte che sembravano di marmo, tanto erano bianche. Ma poi, nonostante fossero grandi, si muovevano sempre con grazia, che suonassero il violino o stringessero la sua Browning. Ed erano forti. Cosa da non sottovalutare, se sono la sola cosa a cui aggrapparsi quando stai per cadere da una scala antincendio o da un ponte sul Tamigi…

A Sherlock piaceva l’odore di John. Ed era strano a dirsi, perché solitamente lui odiava l’odore delle persone. John, però sapeva di buono. Camicie pulite, dopobarba leggero, disinfettante, the, vento di Londra, lubrificante per pistole, sapone liquido. Tutto un insieme di profumi e sapori che gli faceva venire in mente una sola parola: casa. Ed era la prima volta in vita sua che ci si sentiva davvero.

John spesso si meravigliava di quanto potesse essere attraente Sherlock. Non che la sua fosse una bellezza ordinaria, non con quel viso pieno di spigoli. Però aveva un modo di fare, di muoversi, di sfiorare, di guardarti con quegli occhi da felino selvaggio, che potevano portarti ad avere dei dubbi. Perché a volte, la voglia di picchiarlo, veniva sostituita da altre…

Sherlock pensava che John non fosse un uomo particolarmente attraente. Non nel senso comune del termine, per lo meno. Non era alto, né atletico, i tratti del suo viso erano… buffi. Ma non era certamente il corpo a rendere John Watson una persona attraente. Era una bellezza, la sua, che proveniva da dentro. Una bellezza che Sherlock ammetteva di invidiargli, perché pensava di non possederla.

John voleva bene a Sherlock. Perché era solo, abbandonato a se stesso, senza uno scopo nella vita. E poi aveva conosciuto lui, che la sua vita l’aveva riempita come mai John avrebbe immaginato. Lo aveva reso forte, consapevole, più coraggioso che mai. Perché aveva qualcuno in cui credere, di cui prendersi cura, da proteggere. Una persona che lo aveva sfidato a diventare migliore. E quella sfida l’aveva vinta.

Per Sherlock era stato un lungo percorso, quello per ammettere di voler bene a John. L’affetto era un sentimento che lo spaventava, perché metteva a nudo, rendeva fragili. Ne era sempre stato convinto. Era arroccato nella sua solitudine e non aveva mai capito quando gli pesasse. Ma poi era arrivato John e all’improvviso la vita sembrava tanto migliore.


Ma amare si era rivelato il suo più tremendo punto debole. Una frattura nella corazza, fino a quel cuore che lui proclamava di non avere, ma che qualcuno gli aveva rivelato più vivo e sanguinante che mai. E allora era solo potuto volare giù…

Giù… Sprofondando entrambi in un lungo addio fatto di bugie che forse li avrebbe divisi per sempre, lasciandoli di nuovo… soli.

°°°°°

A John mancavano un’infinità di cose di Sherlock. Gli mancavano i suoi esperimenti, le sue deduzioni, il suo camminare nervoso per casa, il suono del suo violino, la sua irritante capacità di farlo sentire un idiota, la sua parlantina, i suoi silenzi, il suo disordine vitale, la sua noia, la sua incapacità di occuparsi di cose normali, lo spazio fisico occupato dal suo corpo…

Gli mancavano disperatamente la sua voce ed i suoi occhi.

E allora abbracciava la vestaglia azzurra e aspettava il suo miracolo.

°°°°°

Sherlock era incredulo di quanto potente fosse la mancanza di John. John col suo giaccone e le sue smorfie. Le sue espressioni stupite davanti ad un nuovo pezzo di cadavere in frigo. Quel suo riuscire sempre a farlo ridere. La preoccupazione sincera quando vedeva che lui mangiava e dormiva troppo poco. Quel modo di essergli sempre vicino senza farglielo pesare.

Ma la cosa più tremenda era non poter vedere più i suoi sorrisi comprensivi e quello sguardo premuroso che lo facevano sentire veramente speciale. Più del suo cervello.

E allora guardava fuori dalla finestra un cielo straniero, immaginando le luci di Londra e gli occhi di John.

Prima di ricominciare la caccia e sperare che finisse presto.


I'm countin' on miracle to come through


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NOTE
Forse il titolo non c’entra tanto con il contenuto della storia, ma avrete certamente capito quanto c’entra col finale. Qualsiasi altro dubbio avrete, ditelo nei commenti, vi risponderò!
A presto!
 
   
 
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