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Autore: Phoenixstein    06/09/2012    4 recensioni
Nel 1876 la cittadina di Cave Creek era solo una delle tante lungo la Gila Route, pista del Vecchio West che da Santa Fè digradava seguendo il corso del Rio Grande, si fletteva verso ovest e scivolava oltre la Paradise Valley fino a Phoenix.
Cave Creek dunque non aveva niente di più e niente di meno degli altri ammassi di casupole disseminati in quelle lontane terre. Di lì non passava ancora la ferrovia, ma una volta alla settimana arrivava una diligenza. Cave Creek custodiva gelosamente i propri segreti, alcuni sotto la luce polverosa del giorno, altri fra le morbide spire della notte nera.
[Seblaine Week, giorno 4: Crossover/AU]
[FAR WEST]
Genere: Sentimentale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Sebastian Smythe | Coppie: Blaine/Sebastian
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno
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Seblaine Week, giorno 4: Crossover/AU.

 

Solo due paroline, prima di lasciarvi alla lettura… :)

Attualmente non ho idea di dove sia finita la mia ispirazione.

Quella bastardona si diverte tanto a nascondersi e riapparire a random e,

devo dire la verità, mi sento molto in colpa perché probabilmente questa

OS sarà l’unico mio contributo alla Seblaine Week.

Nonostante questo, e nonostante non ritengo che la fic

sia proprio un capolavoro, la pubblico con una calda, intima soddisfazione.

Haters gonna hate, mi sta benissimo.

Ma… EHI, finché noi Seblainers campiamo, le vostre frecciatine non servono a nulla! :’D

Bon, fine, dovevo fare giusto le mie precisazioni.

 

 

 

 

Ho scritto sulle ali di questa canzone.



Dire che la amo è riduttivo.

Cash

 

 

 

 

Are you scared of ghost riders in the sky?

 

Nel 1876 la cittadina di Cave Creek era solo una delle tante lungo la Gila Route, pista del Vecchio West che da Santa Fè digradava seguendo il corso del Rio Grande, si fletteva verso ovest e scivolava oltre la Paradise Valley fino a Phoenix.

Cave Creek dunque non aveva niente di più e niente di meno degli altri ammassi di casupole disseminati in quelle lontane terre. Di lì non passava ancora la ferrovia, ma una volta alla settimana arrivava una diligenza. Cave Creek custodiva gelosamente i propri segreti, alcuni sotto la luce polverosa del giorno, altri fra le morbide spire della notte nera. I suoi abitanti erano grandi lavoratori; si spaccavano la schiena nei campi o appresso alle mandrie, mandando avanti la famiglia come meglio si poteva. Le donne, fra una mansione e l’altra, ricamavano pettegolezzi sui forestieri che percorrevano quelle strade sterrate, e nel frattempo crescevano ragazzi robusti e fanciulline destinate a diventare brave mogli. Quei cittadini che avevano la fortuna di esser riusciti a tirar su un’attività più che redditizia mandavano i figli a studiare alla scuola elementare di paese, situata a pochi tiri di schioppo dall’emporio della vecchia Daisy.

I cowboys si sbronzavano al saloon, pattugliato a intervalli regolari dallo sceriffo e dal suo vice per limitare le risse. Quelle erano più numerose dei duelli, dove era richiesto agli uomini sangue freddo e grande precisione… Dove, insomma, si vedeva quanto un uomo fosse davvero tale. Le risse erano facili, invece, perché nella mischia anche un codardo poteva sentirsi valoroso, raccontando di aver assestato questo e quell’altro pugno.

Il ritmo con cui le giornate trascorrevano era cadenzato dalle campane della chiesa e dagli schiocchi degli spari, dalle donne che andavano e venivano dal fiume con i panni da lavare, dagli arrivi e dalle partenze della diligenza, dalla frequenza con cui Daisy riforniva il suo emporio…

 

Il vice sceriffo Blaine Anderson, in quel tardo pomeriggio sonnolento, era alle prese con Jebediah Waylon, un trafficante di bovini che rubava il bestiame ai mezzadri. Si era proposto lui stesso di andare a catturarlo, dopo l’ennesima accusa di un allevatore coraggioso che aveva osato puntare il dito.

Punire le ingiustizie, si disse Blaine, era una di quelle cose che più lo soddisfaceva intimamente… ed era ora di far vedere al suo capo che era in grado di affrontare una missione da solo.

Non amava far ricorso alle armi da fuoco come prima istanza, preferiva trattare con diplomazia. Waylon invece, ritrovatosi con la collottola stretta dalle mani di Blaine, sembrava non sapere cosa fossero le buone maniere; sorrideva, un ghigno pregno di tracotanza, occhi stretti a due fessure cattive, buie come la notte.

«Sai che la gente chiacchiera, vice sceriffo? A Stevenson Place dicono che ti piace prenderlo ne-»

Uno sparo impedì che il turpiloquio fosse portato a termine; il proiettile, fischiando paurosamente, passò così vicino alla faccia di Waylon che gli fu possibile percepire lo spostamento d’aria. Si coprì immediatamente la faccia sgraziata e sudicia con le mani, iniziando a tremare come una foglia e rivelando la sua infima natura: lo sceriffo Smythe era in piedi a pochi passi di distanza, la canna della pistola ancora fumante e uno sguardo furente impresso sul volto.

Il vice ne approfittò per rimettersi in pari. Sfruttando la paura dell’uomo alla vista dello sceriffo, riuscì a bloccarlo contro la colonna di un porticato e stringergli i polsi nelle manette. Il cappello del ladro rotolò per terra. «Faresti meglio a tenere chiusa quella boccaccia, ora. Ti sbatterò in cella io stesso.» sibilò Blaine, odiando quell’uomo dal profondo dell’anima. L’aveva fatto sentire colto in fallo, annullando tutti i suoi sforzi di non sentirsi “sporco”.

Sebastian si avvicinò in gran fretta, puntando l’arma alla tempia di Waylon. La sua voce era fredda, acuminata. «Cammina, e non fare scherzi, perché sai che non mi farei problemi a farti saltare la testa.»

Così si avviarono verso la prigione. Una processione di tre uomini: Waylon davanti a tutti, Blaine dietro di lui con presa salda sulle manette e una mano pronta a sfoderare la pistola, lo sceriffo che con nervi saldi la manteneva puntata contro il furfante…

Oltrepassarono il saloon e un tizio sulla porta con un cappello lacero fischiò alla vista di Waylon. Questi sputò a terra in segno di disprezzo, le punte degli stivali si incagliarono nella polvere. «Tieni la lingua a freno, Scott. Questa non la dimenticherò.» disse, facendo saettare nella sua direzione un’occhiata incattivita.

Sebastian lo spinse, suggerendogli di non fare troppo lo sbruffone, dato che era già abbastanza nei guai.

Giunsero alla prigione, un edificio spoglio, mesto, dove li attendeva Bob, il carceriere.

Bob aveva una barbetta perennemente incolta, rossiccia; diceva d’essere di origini irlandesi anche se il suo cognome non lo confermava. Bob aveva occhi azzurri e scrutatori, sempre attenti in ogni ambito, che si trattasse di sorvegliare i prigionieri o capire quello che la gente non riusciva ad esplicare a parole. Bob aveva un passato di cui non parlava mai a nessuno, appesantito da qualcosa di orribile che a volte lo costringeva ad agitarsi ancora nel sonno. Bob non cercava la compagnia delle donne, erano le donne che cercavano la compagnia di Bob; Sebastian spesso gli lasciava la serata libera per concedergli lo svago che meritava…

Bob era loquace, ben piazzato di spalle, col passo lento. Bob doveva avere circa trentacinque anni, ma ne dimostrava di più su quel volto affascinante ma schiacciato e rovinato da una bruciatura. Una striscia lunga e rossastra che correva su tutta la guancia sinistra fin sotto al mento; come se la fosse procurata era un mistero per tutti.

Bob era il fratello che Sebastian non aveva mai avuto. Bob conosceva il suo segreto e non l’aveva mai giudicato.

Bob era forte d’animo, tanto forte da compensare quello che a volte lo sceriffo Smythe non era. Perché sì, lo sceriffo Smythe era un duro solo a metà, solo all’esterno, solo sulla corazza. Dentro era fragile, per merito di una persona, una soltanto. Eppure nemmeno a quella persona lo dava a vedere, perché a Sebastian spettava il ruolo di chi non ha paura, di chi ha la situazione in pugno, e non poteva tradire le aspettative…

«Siamo tornati, Bob!» annunciò Blaine. Il carceriere vide che avevano acciuffato Jebediah Waylon e si affrettò ad aprire la cancellata che dava sulle celle. Il vice sceriffo congedò Sebastian con un’occhiata truce, molto alla “so cavarmela benissimo da solo”, e sbatté il malvivente dietro le sbarre. Con un gran clangore, chiuse la cella girando nella toppa la chiave che gli aveva lanciato Bob. Senza rispondere agli improperi che Waylon gli stava rovesciando addosso, gli voltò le spalle e tornò nell’altra sala, dagli altri due.

Il rosso, mani nelle tasche sformate, guardava i suoi ragazzi con aria soddisfatta. «Ci avete messo poco, eh?»

«Avrei preferito che tu non intervenissi. Non sono un incapace!» fu tutto quello che replicò Blaine, alterato, facendo saettare uno sguardo aspro verso lo sceriffo.

Sebastian si irrigidì nelle spalle, stringendo la pistola avvolta dal fodero. Il cuoio era fresco e liscio sotto il suo palmo, mentre il suo animo ribolliva ed era pieno di asperità. Come poteva dirgli che aveva il timore di lasciarlo da solo? Non voleva che ritornasse da lui un giorno con una gamba acciaccata da un proiettile, oppure che, col petto perforato da un colpo preciso, non tornasse affatto. Lo squadrò a lungo, ma Blaine aveva abbassato gli occhi già da un pezzo. Alzare la voce non faceva per lui.

«Se tu non avessi paura di usare quella dannata pistola!» sbraitò Sebastian, più feroce del necessario, prima di versarsi del caffè nero da un pentolino sbeccato «Non ti ho assunto come vice sceriffo perché è un gioco divertente! Una volta o l’altra ci rimarrai secco. Devi essere il primo a tirar fuori le armi. Abbi un po’ di autorità! Non so come funzionassero per te le cose a Stevenson Place, ma non vedi che tutti ti trattano come un perdente? Cosa ti stava dicendo quella feccia, prima? Non devi lasciare che gente come quella ti manchi di rispetto…»

Blaine rimase a sorbirsi la pesantezza di quel rimprovero senza riuscire a spiccicare parola. Non gl’importava se lo pensavano gli altri, ma anche Sebastian lo credeva un perdente? Un uomo fiacco? Debole? Non capiva quanto fosse semplicemente tormentato da quello che dovevano nascondere? Quanto ogni giorno il loro segreto lo logorasse? O quante volte di notte sognava i cavalieri fantasma nel cielo?

Bob si accorse di quanto angoscioso fosse quell’attrito e, bruscamente, interruppe la sceneggiata dei due giovani uomini con una proposta. «Siete stanchi, è evidente. Io rimarrò comunque qui… Perché voi due non scendete al fiume? C’è ancora luce, ne avremo almeno per altre due ore… Non vi voglio qui fra i piedi a bisticciare. Sparite. Poi passate dal saloon e portatemi una bottiglia di whiskey.» disse, col tono di un padre che comincia a perder la pazienza.

Sebastian e Blaine, indecisi, si guardarono l’un l’altro e poi stabilirono di ascoltare il consiglio. Dovevano dirsi parecchie cose, trovare un luogo appartato e qualche minuto da spartirsi unicamente in due. Non ci fu bisogno di parole, se lo stavano comunicando con una rapida occhiata.

Lo sceriffo annuì soltanto, facendo un cenno a Blaine con la mano affinché lo seguisse. Nella stalla, sellarono i cavalli. Il mustang color sabbia di Sebastian non vedeva l’ora di darsi alla corsa, scalpitava nel suo spazio, agitando la coda con entusiasmo. L’appaloosa pezzato di Blaine invece, docile, rimaneva più composto. Neppure durante la sellatura i due giovani uomini si scambiarono una parola. La cittadina costringeva entrambi a costruire muraglie di silenzi. Appena fossero stati liberi, nell’abbraccio della natura, quelle barriere potevano essere abbattute.

Abbandonarono Cave Creek al galoppo, alzando un polverone all’entrata della città, dov’erano situati gli abbeveratoi per i cavalli. Il fiumiciattolo a un miglio di distanza li avrebbe accolti con piacere, da discreto amico qual era, come ogni volta…

 

Scelsero una delle zone dove la vegetazione si faceva più fitta, concentrandosi attorno a un ramo del piccolo fiume come muta guardiana. Si erano spinti abbastanza oltre, lontano, dove nessuno si muoveva se non per dirigersi in un’altra contea. Forse sarebbero rincasati più tardi del previsto, forse non ci sarebbe stato il tempo di prendere quella bottiglia di whiskey a Bob… Forse dormire all’aperto, accanto al corso d’acqua, sarebbe stato meglio. Forse perché troppo tempo era passato dall’ultima volta…

Appesero le cintole con le pistole al ramo più basso di un acero, insieme alle camicie. La stella da sceriffo di Sebastian riluceva anche sotto l’ombra delle fronde. I loro pantaloni finirono ai piedi dell’albero e, sopra di essi, i cappelli, uno dentro l’altro.

Sebastian si avvicinò al corpo dell’altro beandosi di ciò che vedeva. Blaine si lasciò sfuggire un respiro sconsolato mentre sentiva quello sguardo accarezzarlo come un guanto di velluto. «Pensi che io sia un debole?»

Lo sceriffo, che senza distintivo si sentiva uomo, puramente uomo con forza e irrisolutezza in pari misura, tutto istinto e pensiero, e nient’altro, si accigliò. «Non dovevo parlarti in quel modo. Sei semplicemente la persona migliore che conosca. Sei buono.»

«Non vado bene per questa professione. Forse dovrei… lasciare tutto, tornare a Stevenson Place… e…»

«E… cosa?» ringhiò Sebastian, messo in agitazione dalla vaga intenzione appena espressa. Stringeva con forza il polso di Blaine, ansimando contro la sua guancia tutta la propria frustrazione. Perché sì, dietro la sua rabbia si celava un oceano di dolceamara tristezza, di senso di impotenza. Si rese conto che la sua reazione burrascosa aveva messo il bruno in soggezione, così lasciò la presa. Senza dire nient’altro si immerse nell’acqua limpida del fiume.

Blaine lo vide fare un paio di bracciate e lottò contro il desiderio di urlargli addosso quello che avrebbe voluto. «Perché non provi a capirmi?» disse, poco convinto, muovendo il primo passo nell’acqua.

Sebastian smise di nuotare, voltandosi. «Vieni qui.» replicò con tono asciutto. Mano a mano che si accostava, Blaine notò che il suo amante aveva la mascella contratta, serrata in una morsa nervosa e che, per la prima volta, non sembrava molto convinto di avere la situazione in pugno.

«Stavi meglio a Stevenson Place…? Voglio dire… senza di me?» domandò Sebastian, col tremolio nella voce come un infante. Poteva recitare il ruolo del duro quanto voleva, ma Blaine, irrimediabilmente, era la sua debolezza più grande.

Il moro avvertì una fitta al cuore. Un dolore lancinante, e pensò che magari beccarsi una pallottola doveva essere qualcosa di simile. Gli specchi d’ambra lucidi che erano gli occhi di Blaine, cercavano riparo nelle praterie verdi scosse dal vento che erano quelli di Sebastian.

«Non sto dicendo questo. Il tempo passato con te è l’unico in cui so di vivere… ma, ad ogni modo, non riesco a cancellare dalla mia testa quanto sia sbagliato.»

Sebastian deglutì e allargò le braccia, pronto a stringerlo dolcemente e fargli dimenticare che il loro amore era proibito. Il tepore umido dell’abbraccio era quanto di più confortevole esistesse al mondo, lo sapevano entrambi. La pelle bagnata di uno era incollata a quella dell’altro, ed erano tutt’un bacio… fra i capelli, sulle spalle e in piena bocca, al centro del peccato… La tenerezza cedette il passo alla foga e il bacio si fece poderoso, irrorato da un senso di temporanea libertà; era come se l’infinito, l’intero universo e anche oltre, fosse racchiuso fra le loro labbra, a sprigionarsi con un’energia che solo loro due potevano percepire e che distruggeva i ponti con il reale, proiettandoli in un luogo ove loro soltanto erano i re.

«Conosci… conosci la storia dei cavalieri fantasma?» chiese Blaine, ansante, mentre tornavano a riva. A quattro zampe scivolarono sul manto erboso, poi si lasciarono cadere a pancia in su. Il terreno aderiva ai loro corpi gocciolanti.

«Non la conosco.» disse Sebastian in un mormorio rasserenato, lo sguardo puntato al cielo che andava tinteggiandosi dei colori rosseggianti del tramonto. Un giorno avrebbe tanto voluto portare Blaine fra le montagne rocciose ad ovest, ad ammirare da lì il crepuscolo impossessarsi della Terra, con una bottiglia in mano, fumando tabacco e facendo promesse un po’ sciocche; l’idea era bella, la desiderava così spesso che a volte era come se l’avesse già vissuta e fosse un ricordo intenso, ma la realtà era che i doveri da tutori della giustizia rendevano i loro spostamenti molto limitati e, probabilmente, ad ammirare il tramonto a ovest non ci sarebbero andati così presto.

Comunque non importava quanto, sotto gli occhi della gente, tutto quello che condividevano fosse sbagliato; quando erano nient’altro che loro due, quel sentimento era come una camminata in paradiso.

«Mia nonna me la raccontava quand’ero piccolo…» iniziò Blaine, sforzandosi di non sembrare patetico «C’era questo tizio, Arwin, che cavalcava giù in Texas. Il cielo cominciò a tuonare, e fra le nubi nere correvano delle bestie paurose. Bufali! Bufali con gli occhi infuocati e zoccoli d’acciaio… La mandria del diavolo, ecco cos’era. Li inseguivano le anime dei cowboys che erano stati dannati… e questi cantavano un pianto spaventoso. Uno di loro disse ad Arwin che se non avesse cambiato le proprie maniere, che se non avesse intrapreso la retta via, in morte si sarebbe unito a loro, a cercare invano di catturare la mandria per quei cieli infiniti…» Blaine aveva parlato tutto d’un fiato, cercando le dita di Sebastian affinché si infilassero fra le sue. Quella vecchia storia lo terrorizzava. Lo terrorizzava fin da quando era un bambino e pregava la nonna di non ripetergliela più. Ma la nonna voleva crescere un ragazzo forte, non una donnicciola, e così la raccontava ancora e ancora.

Da quando quella cosa fra loro due era cominciata, Blaine aveva sognato così tante volte di essere al posto di quell’Arwin e che i cowboys condannati gli rinfacciassero i suoi peccati… oh, sì, così tante volte da farlo sentire il peggior essere -il più disgustoso, probabilmente- sulla faccia della Terra. Era attanagliato dai rimorsi, sempre. Sempre, tranne quando gli occhi di Sebastian riuscivano a cullarlo teneramente. Sempre, tranne quando gli occhi di Sebastian riuscivano a ergerlo su un piedistallo fatto di desiderio e riguardo.

«Hai paura… dei cavalieri fantasma nel cielo?» la domanda dello sceriffo suonò scettica, come quando si vuol prendere in giro un credulone.

«Dannazione.» si lamentò Blaine, allontanando la mano dalla sua «Tu… non immagini quanto questa storia mi abbia segnato. Ogni volta che ci tocchiamo e poi chiudo gli occhi, vedo il fiato infuocato della mandria e quello sguardo da demoni. Chi può dirci che non sia vero? Chi può dirci se non ci aspetta quell’inferno, in cambio di quello che abbiamo ora? Siamo solo uomini, Sebastian. Non siamo niente. Non abbiamo niente, in fondo.»

«Sei proprio come un bambino…» disse Sebastian, voce di miele, sfiorando la spalla nuda del compagno «Credi ancora alle favolette? Credi in questo, invece.» aggiunse, sovrastandolo con tutto il corpo. Preferiva dimostrargli con i fatti che quello che li univa non poteva essere così errato se la componente fisica risultava così piacevole da togliere il fiato. La frizione dei loro bacini tolse a Blaine ogni replica. Le mani affusolate dello sceriffo s’infiltrarono fra i ricci neri dell’altro, mentre l’ardente pulsione che li univa non tardava a farsi sentire. Blaine affondò i polpastrelli nella schiena di Sebastian, allargando le gambe per accoglierlo, aprendosi alla perdizione che -al diavolo tutto!- era un capogiro di estatica bellezza.

Lo sceriffo raccolse con un bacio una lacrima salata che, silenziosa, filava sulla guancia arrossata dell’altro.

«Sì, sei proprio come un bambino…» il sorriso di Sebastian era uno squarcio di luce fra i pensieri bui di Blaine «Proprio per questo non posso lasciarti tornare a Stevenson Place. Hai bisogno di me, lo sai? Avrai bisogno di me per tutta la vita…»

Si rifiutò di ammettere che valeva anche il contrario, che era lui ad aver bisogno del moro, che sarebbe morto di dolore per un solo giorno trascorso senza di lui. Ma una tale confessione sarebbe stata stucchevole e, per colpa di quegli occhi sgranati, si rendeva già più melenso del necessario.

Blaine curvò le labbra in un sorriso timido, spinse con delicatezza la nuca di Sebastian verso di sé e gli sussurrò una piccola sconcezza nell’orecchio.

Risero insieme.

Due giovani uomini bloccati fra le restrizioni sociali del 1876. Due giovani uomini che si amavano anche se non se lo dicevano spesso, perché suonava ancora come un tabù. Era più semplice, anche da sopportare per la coscienza, vivere di un amore fatto di gesti, di sguardi, di brama selvaggia e sospiri strozzati strappati alla notte, di empatia profonda e mai sottintesa, di brevi fughe e sussurri mattinieri fra le tazze di caffè…

«Ad ogni modo… non…» gemette Blaine, parlando a scatti, per distrarsi dal tocco di Sebastian che lo preparava, lo dischiudeva con quanta più delicatezza potesse «Non è vero che ho paura di sparare. Sono un gentiluomo, e-cco tu…tto.»

«Bè…» ghignò Sebastian, strofinando il naso sul mento dell’altro, appena appena ruvido per la barba «…i gentiluomini non vivono molto a lungo. Dovrai sparare, amore mio, perché io voglio che tu viva il più a lungo possibile. Con me.»

   
 
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