Torno a mangiare schifezze e ascoltare video youtube (<- clicca, ne sarai soddisfatto, o viandante su E!)... f p
B-bye!
eveyzonk.
(che, per inciso, dovrebbe smetterla di inserire migliaia di link di collegamenti, vero? oh sì)
~
La pioggia batteva forte contro il pavimento chiaro del deck; le gocce s’infrangevano contro la superficie ruvida e rimbalzavano sulla sua pelle abbronzata.
La inzuppava tutta, quella pioggia: i capelli, i vestiti, gli occhi, il cuore.
Si sentiva affogare, come se non ci fosse un motivo al mondo per sorridere; come se i sorrisi nati fino a quel giorno fossero stati meri errori. Perché? - si chiedeva - che motivo c’era di sorridere se poi alla fine tutto sarebbe sfiorito? Se le persone a te care sarebbero morte? Se addirittura sei tu ad accompagnare una persona cara alla morte? Se vivi e ami e adori una persona pur sapendo che un giorno morirà e dovrà lasciarti sola…- perché?
Rikku non capiva.
Il suo intelletto continuava ad urlarle che era solo una teenager immatura, che la morte faceva parte della vita. Le urlava: perché sei nata se hai paura di morire? È la natura.
E così stringeva le ginocchia contro il petto con troppa forza, stampando la forma delle sue dita sulla pelle delicata; sola, inzuppata, le labbra tremanti e le guance umide di lacrime e pioggia. Il respiro le si bloccava in gola al pensiero della morte; di non sentire nulla, d’essere sabbia, proprio come tutte le persone a lei care morte quel giorno.
Nessuno l’aveva protetta da quel dolore, neanche lui. E lei…lei voleva con tutto il suo cuore che lui l’avesse salvata, ma non era stato così. Lui era lì, intoccabile e grande e tutto adulto, lontano, e non aveva fatto niente. Non le aveva coperto gli occhi, né le aveva strappato il cuore per non farla soffrire. Perché?!
Perché doveva soffrire così tanto!? Perché si sentiva morire, proprio ora? Lo stomaco le si contorceva, i singhiozzi si inseguivano nel suo addome e la schiena saltellava sulla superficie fredda del deck.
Si mordeva le labbra, maledicendo quell’idealizzazione che l’aveva portata a credere che davvero lui, imponente, invincibile, l’avrebbe salvata da quel dolore.
Era così dolorante – dentro, fuori, la testa, il plesso solare, le dita – che non s’accorse d’essere presa tra le braccia. Di una presa solida che la riportava dentro.
Non si sentiva in grado di fare nulla; non poteva opporsi a quelle braccia sicure, né aveva la forza d’aprire gli occhi e controllare chi fosse. Come se le importasse.
Si lasciò trasportare a peso morto, i singhiozzi ancora doloranti nella sua gola, gocce di pioggia – o lacrime – che le scorrevano sul corpo, che colavano dalla punta del naso, che dalla fronte attraversavano le tempie e le facevano prudere le orecchie.
Rikku aprì lentamente gli occhi sbirciando il mondo reso grigio da quella pioggia mesta dalla sua spalla rossa; era lui, era lì, le sue spalle larghe, il suo respiro calibrato, i suoi passi.
Pochi, lunghi passi e il rumore della pioggia s’interruppe.
Di botto, quasi schiaffeggiandola e riportandola alla realtà, il silenzio illuminò tutto. In sottofondo, da qualche parte nel retro della sua mente, la pioggia ancora bagnava ogni cosa – il rumore ovattato delle gocce che colpivano il suolo era attenuato dalle porte dell’aereonave, ma nel suo cuore il diluvio continuava, scuotendola.
Eppure un tempo era stata così orgogliosa…
“Shhh” – nel suo orecchio sinistro, il sibilo quasi dolce, basso, rassicurante.
Le sue mani si mossero da sole e s’aggrapparono alle spalle di quel salvatore non richiesto.
“Shhh” – continuò.
Il respiro soffocato contro il suo petto. Il suo odore di polvere, alcool e qualcosa di indecifrabile – come fiori, ma più…sfocato – l’avvolse, imprimendosi dentro di lei, alla bocca dello stomaco, nella sua mente, nella sua gola, nel suo miocardio.
“Auron…”
“Shhhhh”
Si trovò in quella strana posizione – la guancia premuta contro il suo petto, la schiena (ancora tremante) avvolta dalle sue braccia, e quel suo lento dondolare, quasi stesse cullando una bambina.
L’uomo si sedette contro la parete dell’aereonave, sul pavimento dell’ascensore che attivato li avrebbe portati al ponte panoramico; insieme a lui, accucciata fra le sue braccia, Rikku, naufragata anch’essa verso il pavimento, fradicia, tutta brividi e sniff sniff.
“Sei in ritardo” mormorò lei, con un fil di voce roca.
“Lo so”
“Ma sei comunque qui” – gli disse poi, affondando nel suo grembo, accogliendo con un sorriso stropicciato i piccoli baci che l’uomo le rilasciava fra i capelli.
Infine, prima di abbandonarsi definitivamente all’oblio del sonno, fra quelle braccia calde e quei baci leggeri come battiti d’ali, strinse un po’ più forte la sua presa sul giaccone rosso, e mormorò, sfinita, “Non lasciarmi più”.
Auron deglutì.
Prossimo capitolo: Ballroom Dancing.