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Autore: Lue    10/09/2012    3 recensioni
Per tutto il giorno, guardando il suo viso illuminarsi davanti alle onde blu ho davvero creduto che non tutto fosse perduto, ho pensato che avessimo ancora una possibilità, e che Hamish avrebbe visto il mare ancora tante volte nella sua vita. Ma poi, mentre la barca attraccava e il piccolo cuore di mio figlio, che mi si era addormentato in braccio, batteva contro il mio petto, ho guardato le occhiaie violacee sotto i suoi occhi e la pallidezza del suo incarnato, e una desolazione struggente si è aggrappata al mio cuore come un artiglio. Ho pensato: “Dio, lascia che viva, Dio ti prego, non me lo portare via”, perché sapevo che solo un miracolo avrebbe potuto salvarlo.
Genere: Angst, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Con il sole nel sorriso

 
Mio figlio Hamish voleva diventare un pirata, da grande. Era l’assurda idea che gli aveva messo in testa Sherlock una sera, mentre lo mettevamo a letto. Sarebbe stato un gran pirata, e avrebbe solcato i mari con il suo pigiama di Batman. Per questo, verso la fine, lo abbiamo portato al mare. Abbiamo noleggiato una barca e siamo stati fuori un’intera giornata, a dieci minuti dalla riva. È stato bello. Per tutto il giorno, guardando il suo viso illuminarsi davanti alle onde blu ho davvero creduto che non tutto fosse perduto, ho pensato che avessimo ancora una possibilità, e che Hamish avrebbe visto il mare ancora tante volte nella sua vita. Ma poi, mentre la barca attraccava e il piccolo cuore di mio figlio, che mi si era addormentato in braccio, batteva contro il mio petto, ho guardato le occhiaie violacee sotto i suoi occhi e il pallore del suo incarnato, e una desolazione struggente si è aggrappata al mio cuore come un artiglio. Ho pensato: “Dio, lascia che viva, Dio ti prego, non me lo portare via”, perché sapevo che solo un miracolo avrebbe potuto salvarlo.
 
L’abbiamo tanto cercato, un bambino, io e Sherlock. Dopo il matrimonio abbiamo avviato le pratiche per l’adozione: avevo sempre voluto dei figli, creare una piccola famiglia era stato il mio sogno, e avevo pregato Sherlock di realizzarlo. C’erano voluti due anni prima che qualcuno ci contattasse per dirci che sì, presto saremmo stati genitori, e io avevo aspettato quella telefonata ogni giorno. Capimmo che sarebbe stato lui  quando ci dissero il nome: Hamish. Sembrava un buffo scherzo del destino. Aveva già un anno, ma nessuno voleva prendersi la responsabilità di amarlo: Hamish era malato di una grave forma di leucemia. Quando ce lo dissero, io e Sherlock restammo interdetti: volevamo davvero correre il rischio di amare un bambino e poi perderlo? La risposta sorse spontanea. Sì, lo volevamo. Hamish portava con sé una parte di entrambi: di mio aveva il nome e di Sherlock la maledizione di non avere nessuno abbastanza coraggioso da amarlo. Nessuno tranne me.
 
Il giorno in cui lo incontrammo per la prima volta mi sentivo un bambino la vigilia di Natale. Sherlock mi disse con un finto tono annoiato di smetterla di comportarmi in quel modo, ma vedevo nei suoi occhi una luce nuova, un barlume di felicità.
Stava disegnando, quando lo vidi per la prima volta. Tracciava linee di ogni colore su un foglio bianco, con aria concentrata, cambiando pennarello a ogni tratto. Alzò la testa quando entrammo. Aveva dei finissimi capelli biondi, e un paio di grandi occhi scuri. Lo guardai e pensai: “Questo è mio figlio”. Lui sorrise. Ci volle un tempo incredibilmente breve perché cominciasse a fidarsi di noi: dopo una settimana urlava di gioia e ci saltava addosso appena ci vedeva entrare nella stanza. Non so descrivere la sensazione che provavo quando mi abbracciava, era come se sapessi di doverlo tenere stretto e proteggerlo da ogni cosa, di regalargli le cose più belle del mondo e far sì che non fosse mai, mai infelice nella sua vita.
 
Lo portammo a casa un mese dopo. Lo tenevamo in camera con noi: non ce lo dicemmo mai veramente, ma sia io che Sherlock eravamo terrorizzati all’idea che potesse stare male nella notte e noi non riuscissimo a fare qualcosa in tempo. Lo iscrivemmo all’asilo, e per i primi sei mesi, per un tacito accordo, io e Sherlock rimanemmo nelle vicinanze, trascurando i casi e andando semplicemente in giro per il quartiere. Poi, un giorno, Hamish ci colse di sorpresa chiedendoci perché ci vedeva sempre camminare sul marciapiede fuori dall’asilo. Da quel momento ricominciammo ad andare in giro per Londra, con un peso silenzioso sullo stomaco. Non sapevamo esattamente cosa fosse, ma lo imparammo col tempo: era il segno che eravamo diventati genitori.
 
I primi tempi riuscimmo a convivere piuttosto bene con la malattia di Hamish. Richiedeva vari cicli di chemioterapia, ma c’erano periodi di mesi in cui non erano necessari. Però era dura. Ogni volta che sembrava che Hamish stesse meglio provavo un irragionevole sollievo: forse significava che la malattia se n’era andata, che non sarebbe tornata. Ma poi, una mattina, Hamish era troppo stanco per alzarsi dal letto, o la sua pelle perdeva colore, e io capivo che era ricominciato tutto da capo. Abbiamo cercato di farlo vivere nel modo più sereno possibile, ripetendogli ogni giorno quanto eravamo fortunati ad averlo come figlio e soddisfacendo ognuna delle sue (pochissime) richieste. Sherlock gli mostrò tutte le sue provette e gli fece guardare dentro il microscopio ogni volta che Hamish glielo chiese. Una volta passò una serata intera a tradurgli in russo le sigle dei cartoni animati. Ma non gli pesava. Non ci pesava. Un suo sorriso valeva più di ogni altra cosa.
 
La situazione peggiorò poco prima del suo quarto compleanno. Ormai la chemio era necessaria ogni tre mesi, e Hamish era sempre più stanco, sempre più stufo di stare male. Un giorno, mentre sedeva accanto a me sul divano, mi chiese: “Papà, perché gli altri miei amici non stanno male e io sì?”. Era una domanda del tutto lecita e io non sapevo cosa rispondergli. “Peter dice che forse è perché sono stato cattivo”, continuò lui.
Io ricacciai indietro le lacrime e lo guardai.
“Vieni qui”, gli dissi, battendomi le mani sulle cosce. Hamish, obbediente, mi si accoccolò in grembo.
“Tu non hai mai fatto niente di male, mai. E io e papà ti vogliamo un bene dell’anima. Sai perché ti abbiamo scelto?”. Lui mi guardò in cerca di una risposta. “Perché eri perfetto, Hamish. Eri perfetto”.
Lui scoppiò in una risata e poi mi posò la testa sul petto. “E perché allora?”.
“Non lo so”, sussurrai, “Non lo so”.
Quando Sherlock tornò a casa, quella sera, io mi chiusi in bagno e piansi tutte mie le lacrime. La domanda di Hamish mi risuonava nelle orecchie: perché?
 
Provammo a cambiare terapia, intervallando chemio a radioterapia. Andammo avanti così per quasi un anno, non potevamo arrenderci, anche se ormai Hamish non aveva nemmeno la forza di andare a scuola e passava le giornate a letto. Io stavo con lui. Gli accarezzavo la fronte e gli raccontavo storie che avevano lui come protagonista: era un eroe, un cavaliere, un capitano. Vinceva sempre, ogni battaglia. E doveva vincere anche quella. Sherlock stava fuori quasi tutto il giorno, andava in giro a consultare quei medici che erano considerati i migliori del paese, ma tutti scuotevano la testa: se nessuna terapia funzionava, allora significava che non c’era più nulla da fare. Non potevamo, non volevamo  arrenderci, perché una vita senza Hamish non era neanche lontanamente accettabile, non era possibile. Ma arrivò il giorno in cui non potemmo più permetterci di andare avanti: Hamish disse basta. Stavamo tornando da un’ennesima sessione di chemio,  eravamo in taxi quando Hamish, in braccio a Sherlock, mormorò: “Basta, papà”.
“Cosa basta?”, gli domandò subito lui.
“Basta con gli aeroplani”, disse. Gli aeroplani. Così li avevamo chiamati, gli aghi della chemio. Era stato un modo stupido per renderli meno paurosi.
“Basta”.
 
Non volevamo ascoltarlo, non volevamo ascoltare le richieste di aiuto del nostro piccolo bambino, nonostante una parte di noi sapesse che non c’era altro da fare. Come potevamo ignorare la sua volontà? Come potevamo farlo soffrire ancora, con la promessa illusoria di un futuro migliore? Capimmo presto che non era possibile. Firmammo un modulo contro l’accanimento terapeutico e portammo Hamish a casa dall’ospedale definitivamente, per l’ultima volta. Lo portammo al mare, l’ho detto, e fingemmo che tutto andasse bene, che fossimo soltanto una famiglia in vacanza, una famiglia felice. Passammo lì il suo quinto compleanno, in un paesino non troppo lontano da Londra, Whitby. Hamish rimase a bocca aperta quando vide il mare, mai lo aveva immaginato così grande. Chiuse gli occhi, sulla barca, mentre un venticello al sapore di sale gli accarezzava il corpo tanto provato.
“Sei felice?”, gli chiesi.
Lui annuì e sorrise.
 
È morto di mattina, il mio bambino, il mio piccolo tesoro, il mio ometto tanto amato. Le luci della casa erano spente, e un solo raggio di sole penetrava dalle imposte. Ha chiuso gli occhi contro il mio petto, mentre le sue gambe erano adagiate su quelle di Sherlock, seduto accanto a me sul divano. Gli abbiamo detto quando lo amavamo, gli abbiamo detto di essere coraggioso, perché era un pirata, un grande pirata. Gli abbiamo raccontato per la centesima volta quanto era stato meraviglioso avere l’opportunità di essere i suoi genitori, gli abbiamo sussurrato ninnananne all’orecchio e siamo morti anche noi, lentamente, mentre lui esalava il suo ultimo respiro.
 
Se potessi averlo ancora accanto gli direi tutte le cose che non sono riuscito a dirgli: gli spiegherei la scorciatoia che usavo da bambino per tornare da scuola e gli insegnerei i nomi scientifici delle parti del nostro corpo, gli racconterei tutti i segreti che non ho mai detto a nessuno e inventerei mille altre storie su di lui, sul mio piccolo eroe. Ma lui non c’è. E mi manca ogni giorno. Hamish è stato il dono più grande che io abbia mai ricevuto, e di questo ringrazio chiunque mi abbia dato l’opportunità di essere suo padre, ma il dolore che provo ogni istante da quando se n’è andato è qualcosa di inspiegabile. Quando sto troppo male immagino che sia qui con me. Con il sole nel sorriso e la brezza del mare che gli scompiglia i capelli. Un piccolo pirata. Il mio pirata.
 

   
 
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