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Autore: EsseTi    11/09/2012    9 recensioni
Dominik è un pianista ceco…e cieco.
Suona il pianoforte da quando ha sei anni, e a 13 ha lasciato Praga per raggiungere Milano e studiare al Conservatorio Giuseppe Verdi.
A 18 anni è una promessa della musica, con la passione per Mozart e Chopin.
Suona il piano perché è come vedere i colori.
Vive per la sua musica, ma si ritroverà a dividere il bilocale in cui vive con Federico, un barista estroverso e terribilmente disordinato. Federico, però, gli insegnerà che i colori non sono solo nella musica.
A lui piaceva l’arancione; la mamma diceva sempre che era un po’ come il calore delle coperte d’inverno, quando fuori faceva freddo e si mettevano a dormire insieme.[...]
Gli avevano insegnato le note, l’adagio, il notturno. Gli avevano insegnato Mozart, Chopin, Bach.
Nessuno, però, gli aveva insegnato di quanto fosse bello il calore di un bacio.
Quello, doveva essere il rosso.

Revisione in corso. Ci saranno modifiche importanti.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Dove c'è molta luce, l'ombra è più nera.
Johann Wolfgang GoetheGötz von Berlichingen, 1773

 

Chapter 1st:  Il gatto blu sulle tende
 
Il numero civico sul palazzo era un 11 di un bianco sporco su uno sfondo scuro un po’ arrugginito.
Su ciascun lato del pesante portone di legno c’erano delle curatissime aiuole delimitate da una ringhiera di ferro rovinata dal tempo.
Tutto l’insieme rendeva quel palazzo di quattro piani simile a un castello, o ad un’opera d’arte del periodo barocco.
Federico strinse la mano intorno al manico del trolley.
Immaginare quel condominio come la sua nuova casa era difficile: non somigliava per niente alla vecchia villetta a due piani dove era nato e cresciuto, alla periferia di Palermo.
Ma, probabilmente, nulla sarebbe più stato come prima, come tutto quello cui si era abituato in venticinque anni: il caos cittadino, il sole caldissimo anche in pieno inverno, le urla degli ambulanti e il continuo e assordante rincorrersi dei clacson delle automobili.
Via Passione, nel centro di Milano, sembrava una via tranquilla, come quei quartieri residenziali dove viveva solo la gente per bene, come si vedeva nei film. In uno dei condomini di quella via, Federico aveva preso in affitto una stanza in un appartamento al piano terra.
Aveva visto delle foto su internet, e quando aveva contattato la proprietaria, si erano accordati su un prezzo ragionevole, pur essendo, quello,  un appartamento ristrutturato e praticamente nel centro di Milano. Anche se avrebbe potuto cercare una sistemazione più economica, Federico aveva scelto comunque quello: si trovava vicinissimo alla facoltà di Scienze Politiche, che rappresentava il motivo principale per cui aveva lasciato Palermo e si era trasferito nella grande metropoli lombarda.
L’altro motivo per il quale aveva preferito quell’appartamento era, invece, il fatto che ci fosse già un inquilino; in questo modo avrebbe avuto qualcuno a fargli compagnia, e ad aiutarlo ad affrontare, almeno all’inizio, quell’insieme di novità che pareva volergli piombare addosso come una valanga.
Perché la verità, alla fine, era che Federico se la stava facendo sotto.
Era terrorizzato all’idea di ritrovarsi per la prima volta, completamente solo, in una città nuova, totalmente diversa dalla sua, e a centinaia di kilometri da casa.
A centinaia di kilometri dalla persona che lo aveva sempre aiutato ad affrontare qualsiasi cosa.
La stessa persona che rappresentava il vero motivo per cui aveva lasciato Palermo senza voltarsi indietro.
Federico trovò il cognome che cercava tra quelli sul citofono: Gigliotti.
Quando ci premette sopra il dito, si sentì come un condannato a morte in piedi di fronte alla forca.
- Si? – rispose una voce maschile, dopo quella che gli parve un’eternità.
Era una voce calda, soffice, non troppo grave.
- Sono Federico, il nuovo inquilino – disse.
Il portone d’ingresso scatto immediatamente, e quel suono fu abbastanza per immobilizzarlo sulla soglia, con il suo trolley e i suoi borsoni di fianco alle gambe.
Avrebbe ancora potuto cambiare idea: riprendere le sue cose, scappare di lì, tornare a casa. Non avrebbe mai saputo cosa si sarebbe perso, cosa ci sarebbe stato dietro quel portone di legno scuro, cosa avrebbe trovato a casa, chi avrebbe conosciuto.
Federico si era chiesto spesso come sarebbe stata la sua prima notte a Milano, se avrebbe trovato una festa in corso al suo arrivo o se quel sabato sera lo avrebbe passato in giro per locali con il suo nuovo coinquilino.
Fu quell’interrogativo a spingerlo a prendere una decisione: tese la mano in avanti, spinse il portone, trascinò le sue cose dentro.
Non doveva tornare a casa.
Avrebbe dovuto affrontare quello che il destino gli stava offrendo.
Avrebbe conosciuto persone nuove, si sarebbe costruito una vita diversa, lontano da Palermo.
Una vita vera.
Quando si trovò dentro, si prese qualche secondo per guardarsi intorno.
L’ingresso era nello stesso stile del portone: ampio, con le pareti di un opprimente ocra, e sulla sinistra le scale che portavano ai piani superiori, con un corrimano di freddo ferro finemente lavorato.
La porta del suo appartamento si trovava sulla destra, ed era già aperta.
Dall’interno giungeva un fascio di luce.
Federico prese le sue cose, facendosi strada verso l’appartamento: sembrava tutto tranquillo e silenzioso, dentro doveva esserci soltanto il ragazzo che aveva risposo al citofono, magari in compagnia di qualche amico.
Prima di entrare, guardò il proprio riflesso sullo specchio nell’androne, vicino alla gabbiola del portiere: aveva i capelli completamente spettinati, il viso pallido e un po’ di occhiaie, a causa del viaggio. Si augurò di fare almeno una buona impressione.
Quando entrò nell’appartamento, quello che si trovò davanti lo sorprese; tutto, dall’arredamento agli accessori, stonava completamente con lo stile del palazzo.
Era moderno: l’ambiente unico che si trovò davanti aveva le pareti di un caldo salmone.
C’era una rientranza, a sinistra, chiusa da una penisola con due sgabelli, a delimitare una zona cottura con una cucina dalle ante di un rosso acceso. Sulla destra, invece, c’era un divano imbottito con vicino un bel tavolo quadrato e un mobiletto con una tv a schermo piatto. C’era anche una poltrona che aderiva alla parete.
Nella parete di fronte a lui stavano le tre porte che dovevano portare al bagno e alle due camere da letto; una aveva un nastro rosso sulla maniglia.
La cosa che lo stupì maggiormente, però, fu l’enorme pianoforte nell’angolo più lontano dalla porta d’ingresso, nero, maestoso e lucente.
Non ne aveva mai visto uno da vicino.
Sembrava enorme in quell’ambiente occupato da mobili non troppo ingombranti.
Strumenti come quelli li aveva visti solo nei film che piacevano a sua madre, quelli ambientati nell’800 e fatti di amori tra conti e serve e di faide familiari.
Era abituato a vederli in quelle stanze enormi, vuote.
Lì, in quella casa moderna e un po’ piccola, sembrava quasi fuori posto.
Dietro al tavolo da pranzo, vicino alla penisola della cucina, seduto a fissare una serie di fogli, c’era un ragazzo che gli dava quasi le spalle: non poteva vederlo in viso, ma solo scorgerne i capelli biondi, che con qualche ciocca gli finivano sul viso.
Non lo aveva notato subito, concentrato com’era ad ammirare il resto dell’appartamento: e quello, congelato nel suo silenzio, sembrava invisibile.
Federico rimase a fissargli la schiena per un po’.
Credeva che, prima o poi, si sarebbe voltato almeno per salutarlo. Ma quello, ostinatamente, pareva far finta di non essersi nemmeno accorto di lui: era rimasto sulla sua sedia, una gamba prigioniera sotto il corpo e un gomito puntellato sul tavolo, mentre con la mano libera sfiorava la superficie dei fogli che aveva di fronte. Così, deluso, Federico trascinò le sue cose dentro, chiudendo la porta.
Il silenzio che regnava in quella casa era opprimente: la tv era spenta, lo stereo anche, e le finestre chiuse schermavano i rumori provenienti dall’esterno.
Federico si guardò intorno un altro po’, e rimase particolarmente colpito dall’ordine quasi asettico che regnava in quell’appartamento. Lui era sempre stato un tipo disordinato fino allo stremo, e sperava che le sue cattivi abitudini non sarebbero state un problema.
A giudicare dall’accoglienza, il suo nuovo coinquilino non era felice di averlo lì già in partenza.
- Ciao eh? – salutò alla fine. Si sentiva trasparente, e la cosa lo irritava non poco.
- Ciao – lo sentì sussurrare, senza nemmeno alzare il capo. Aveva parlato così piano che se non ci fosse stato quel silenzio probabilmente non lo avrebbe nemmeno sentito: ostinatamente, tra l’altro, lo sconosciuto continuava a restare immobile.
- Io sono Federico. Tu? – insisté.
Il ragazzo non sembrò infastidito dalla sua ostinazione, ma continuò a non muoversi.
- Ti chiami come Chopin – gli rispose.
Federico sollevò le sopracciglia, portando le braccia sui fianchi.
- E tu invece, come ti chiami? – gli domandò di nuovo.
- Dominik. Sono cieco. –
Federico scosse le spalle.
Il suo nuovo coinquilino si chiamava Dominik ed era straniero. Poteva essere quello il motivo per cui non era stato tanto accogliente: forse non parlava bene l’italiano. Aveva, in effetti, un accento particolare, però aveva parlato velocemente, senza quel modo strano di arrotondare le lettere che avevano gli stranieri.
Si guardò intorno per qualche altro istante, cogliendo degli altri particolari del suo nuovo appartamento: c’era un forno a microonde sulla cucina, e la lavatrice sulla sinistra, sotto il piano in muratura.
C’erano delle letterine colorate attaccate, la rendevano quasi infantile.
- Beh, e…di dove sei esattamente? – pensò di chiedergli, per rompere il ghiaccio.
- Praga –
-  Bella, ci sono stato in gita in quinta liceo!  - gli disse, il tono di voce un po’ più alto per l’entusiasmo. Di Praga si ricordava soprattutto le strade illuminate e trafficate anche durante la notte, e soprattutto lo straordinario ordine che si ritrovava dappertutto. Guardando bene quel ragazzo, non era difficile immaginarselo dentro quel mondo. - E cosa fai qui a Milano? - 
- Studio la musica. Al Conservatorio. - 
- Ah, sì! Wow, dev'essere proprio figo! - esclamò. Prima di arrivare a casa, a bordo del taxi che lo aveva accompagnato, era passato proprio di fronte ad un edificio maestoso, con di fronte una piazzetta dalla quale partiva proprio Via Passione. Il tassista, un tipo simpatico e incline a fare conversazione, glielo aveva presentato come "il conservatorio Verdi, dove studiano musica i figli dei ricchi". - Io sono qui per studiare Scienze Politiche. Lavorerò anche  in un bar, sai, per non chiedere sempre soldi ai miei. Domani devo andare a conoscere i proprietari, iniziò lunedì. Magari vieni con me domani? – gli propose.
Gli sarebbe piaciuto avere un compagno con cui girovagare per le vie di Milano, nel suo primo giorno lì. Ma dall’altra parte proveniva solo silenzio. Probabilmente era prerogativa della gente dell’est essere così antipatica e chiusa, ma non gli piaceva per nulla.
Era partito da Palermo carico di aspettative: aveva sperato di farsi una vita nuova, divertente, in una città immensa come Milano, conoscere persone magari bizzarre e avere episodi divertenti da raccontare a casa quando fosse tornato per Natale.
Invece si trovava di fronte un tipo che non aveva alcuna intenzione neppure di fare conversazione.
- Qual’è la mia stanza? – chiese alla fine.
- La porta a sinistra, senza il nastro – lo sentì mormorare.
Federico prese le sue cose per portarle nella sua stanza, e come prima Dominik non mosse un solo muscolo per aiutarlo.
Quando si chiuse la porta alle spalle, si lasciò cadere sul letto, a occhi chiusi;: avrebbe dovuto svuotare la valigia e i borsoni, controllare che tutto fosse a posto, sistemare le sue cose per iniziare le lezioni in università, il lunedì successivo.
Ma non gli andava di far altro che crollare sul quel morbido materasso.
Il letto era matrimoniale, lo aveva chiesto apposta; odiava dormire troppo stretto, e se avesse voluto portare qualcuno non avrebbe potuto farlo dormire sul divano.
No, lo avrebbe fatto dormire nel proprio letto, come si era ripromesso.
Avrebbe potuto fare qualsiasi cosa avesse voluto, senza preoccuparsi che i suoi genitori potessero scoprire la verità.
Avrebbe potuto aprire la porta di casa e portarsi dietro un bel ragazzo conosciuto al bar.
Avrebbe potuto dormirci insieme senza subire le conseguenze che un’azione come quella avrebbe potuto portare in famiglia.
Avrebbe potuto dire: sì, sono gay e faccio quello che mi pare.
Federico si stropicciò gli occhi, espirando.
Non era ancora il caso di confessare al suo coinquilino di essere gay, non dopo averlo conosciuto da appena venti minuti,. Si sarebbe preso qualche giorno, ci avrebbe fatto amicizia, e avrebbe cercato di scoprire cosa ne pensasse della sessualità delle gente e se fosse o meno un omofobo del cazzo.
In ogni caso, quella era casa sua, ed era libero di fare quello che gli pareva.
Aveva lasciato Palermo, si era gettato il passato alle spalle.
O almeno, avrebbe dovuto gettare il passato alle spalle.
- Che vuol dire che te ne vai? –
- Me ne vado. Mi trasferisco a Milano, vado a studiare lì. –
- Non dire cazzate, Federico, dai. Smettila.  –
- No, Manfredi, smettila tu. Io me ne vado. Quando troverai il coraggio di dire ai tuoi che sei gay e che stiamo insieme…beh, mi trovi lì. –
Federico chiuse gli occhi.
Il passato era già alle sue spalle.
Manfredi lo aveva lasciato andare.
Non sarebbe venuto.
 

§ § §

 
La porta si era chiusa, in casa era tornato il silenzio.
Dalla stanza di Federico giungeva il rumore soffocato del suo armeggiare.
Aveva una bella voce, calda: l’avrebbe paragonata a un colore come il corallo. Caldo e brillante.
Dominik moriva dalla voglia di toccarlo, di scoprire  come fosse: poteva avere gli occhi grandi o piccoli, il naso aquilino o all’insù, i capelli lunghi o corti, forse i riccioli, o magari i rasta.
E le labbra: poteva scommetterci che fossero piene. Doveva essere alto, se lo immaginava così.
Chissà come aveva le mani: le immaginava grandi, forse un po’ ruvide.
Gli ispirava sicurezza, una musica calma, con note lunghe, i tasti da premere con forza, a lungo, ma con un movimento morbido come una carezza.
Come la sonata 14 di Beethoven.
Dominik si alzò, raggiungendo il suo pianoforte.
Conosceva benissimo la strada: nei cinque anni che aveva trascorso in quella casa non aveva mai spostato niente. Si era creato un’immagine nella sua testa, e la seguiva; non aveva mai urtato nessun mobile.
Si sedette sulla panca, adagiando le mani sui tasti freddi, e fu come ritornare a casa dopo un viaggio lungo e poco piacevole. Iniziò a improvvisare una melodia lenta, malinconica, che lo faceva pensare al mare in tempesta. Federico doveva essere un po’ come il mare agitato.
C’era il verde, l’azzurro, c’erano le nuvole. Dovevano essere così belle le nuvole.
Le persone erano tutte una musica; c’erano quelle forti, quelle dolci, quelle tenere.
Ognuno aveva una melodia.
La mamma era  il notturno di Chopin, dall’opera numero 9, il suo preferito. Era il preferito anche della mamma, lo suonava sempre quando era a casa, e lei sorrideva sempre: lo sentiva dai suoi zigomi sollevati, che toccava con la punta delle dita.
Ogni tanto, quando suonava, la mamma piangeva, però poi sorrideva; gli diceva sempre di volergli bene, che era bravo, però piangeva. Non si era mai spiegato il perché.
Le lacrime della mamma erano come il celeste, chiaro e impalpabile.
Federico non era ancora una musica; avrebbe dovuto toccarlo, sentire il suo profumo, ascoltare la sua voce, prima di scoprire la sua musica. Non doveva sceglierla, era la musica a scegliere, la musica sceglieva sempre.
Però Federico sembrava buono, non aveva detto niente quando gli aveva confessato di essere cieco; non lo aveva trattato diversamente, non aveva mostrato pietà per lui.
Quando aveva parlato, la sua voce era passata da una tonalità all’altra; prima irritata, poi si era sciolta nell’entusiasmo quando aveva parlato di Praga, poi era tornata a spegnersi.
Gli sarebbe piaciuto entrare nella sua stanza, toccare le sue cose; dal modo in cui veniva arredata una stanza si capiva molto delle persone.
Lui la sua stanza la teneva quasi vuota: un piccolo lettino singolo, un mobile con uno stereo e al fianco una pila di cd di musica classica, e un armadio. Non gli serviva altro per vivere, oltre quello: il mobile era pieno di spartiti in braille, posti alla rinfusa, la sua unica ragione di vita.
Non passava molto tempo in quella stanza; tutta la sua giornata la viveva al  Conservatorio. C’era una signora che andava a prenderlo e lo riportava a casa alla fine delle sue lezioni, tutti i giorni; una volta lì si rintanava sulla sua poltrona, cercando rifugio nella bellezza del suo pianoforte.
Il Conservatorio era la sua casa, quella dove andava a dormire era solo una stanza dove dover passare la notte prima di rintanarsi di nuovo nella sua musica.
La musica al conservatorio era diversa: tutto lì dentro era musica, persino le pareti, seguendole con le dita, sembravano mormorargli una melodia.
Si respirava musica lì, e a nessuno importava che lui non vedesse dalla nascita.
La musica era l’unica cosa al mondo che poteva fare senza che gli altri lo trattassero con pietà.
A volte era contento di non aver mai visto niente, se non altro non poteva conoscere gli sguardi della gente, quella che lo trattava come un martire. Sapeva che lo guardavano in quel modo, lo sentiva dal cambiamento della voce della mamma quando si fermava a parlare con qualcuno e loro lo vedevano. La mamma si arrabbiava sempre e con il tempo Dominik aveva imparato ad associare la rabbia della mamma con la pietà della gente per lui.
Si chiedeva spesso perché suscitasse quella sensazione nelle persone.
Lui non era triste, era sempre felice.
Era felice di non vedere: se avesse visto i colori, le cose, le persone, non avrebbe imparato a suonare in quel modo, a disegnare da sé i colori e le cose, anche le persone, nella sua mente, con una melodia.
Prima di dormire, si raccontava anche una favola.
La mamma gliela raccontava sempre una favola prima di andare a letto: metteva su una canzone rilassante, di Mozart, il suo preferito, e gli raccontava la favola.
Ogni favola aveva la sua musica, e in quella lui si perdeva, immaginando scene e paesaggi nel buio dei suoi occhi chiusi.
Lo faceva ancora: suonava, immaginandosi un paesaggio da portare con sé nel sonno.
Le note che stava improvvisando sul pianoforte erano scivolate pian piano verso la sonata 14 di Beethoven; gli era venuta in mente pensando a Federico, ma non era quella la sua musica.
La sua musica doveva ancora arrivare.
- Complimenti. Sei davvero bravo. –
Le dita si  schiacciarono sui tasti: stava per lanciarsi in un virtuosismo che l’avrebbe condotto in paradiso, e Federico l’aveva interrotto.
Nessuno lo interrompeva mai. Non lo aveva nemmeno sentito arrivare, era così preso dal mare che stava creando da essersi estraniato da tutto il resto.
Si alzò, senza rispondergli, cercando rifugio nella sua poltrona.
- Senti, ma…io non ho fatto la spesa, abbiamo qualcosa? O prendiamo una pizza? –
- In frigo c’è tutto. –
Lo sentì, mentre apriva il frigo: nel buio poteva quasi immaginare quello che doveva sentire lui.
Il freddo del portellone, poi l’aria fresca sulle braccia, l’odore del cibo. Lui non ci faceva sicuramente caso, come tutte le persone  che vedevano.
Loro usavano solo gli occhi, non vedevano davvero.
Loro non si preoccupavano delle inflessioni della voce, dell’odore di sudore che precedeva uno scatto nervoso, del profumo. Guardavano e basta, senza vedere davvero.
- Ehm, ma…c’è solo questo? – gli chiese.
La sua voce veniva da lontano, doveva essere ancora davanti al frigo.
Dominik non gli rispose; era così bello restare raggomitolati sulla poltrona, con il capo affondato nel tessuto. Le immagini che aveva evocato con la musica non se ne erano ancora andate, gli sembrava di sentire il rumore del mare nelle orecchie. Poteva sentire persino l’odore, era come quello che aveva sentito l’unica volta che era riuscito ad andare al mare, con la mamma, d’estate. Sapeva di buono.
Alle orecchie gli giunse il rumore della busta dell’insalata che veniva strappata.
Quel ragazzo era divertente, lo trattava davvero come se fosse una persona come tante; si era chiesto persino se ci fosse solo quello. Cosa poteva mangiare un cieco che viveva da solo se non insalata già pronta, in busta, e alimenti precotti da infilare nel microonde? Sì, era divertente.
Doveva essere anche bello.
L’idea di non sapere come fosse fatto iniziava a tormentarlo. Sarebbe bastato così poco per toccargli il viso e vederlo.
- Hai una bella voce – gli disse alla fine. Sentì di averlo imbarazzato, aveva smesso di mangiare; il rumore dei suoi denti che sgranocchiavano l’insalata era cessato.   
- Grazie…e… -
- E’ calda. Somiglia al mi, sul pianoforte –
- Suoni da molto? –
- Da sempre – Da quando era nato non ricordava altro che la musica.
- E qui? Da quanto vivi qui? - gli domandò ancora. Dominik si sentì lievemente infastidito, perchè avrebbe voluto suonare ancora senza rispondere a una sfilza di domanda.
- Cinque anni. Sono arrivato che ne avevo quattordici. - 
Ripensare ai cinque anni precedenti, a quando era arrivato a Milano la prima volta, era strano.
- Stamin...! - soffiò lui, schiarendosi la voce subito dopo, imbarazzato, senza finire di parlare. - Cioè, ehm...scusa, sì... - Dominik ridacchiò, divertito da quellao strano fiume in piena, senza argini, che era quel ragazzo. - E...devi studiare ancora molto? - 
- Quest'anno finisco il terzo pre-accademico. A giugno prendo la maturità da privatista, e con il diploma potrò fare gli esami d'ammissione per il Triennio - gli spiegò, e Federico non disse altro. Dominik si chiese se fosse perchè non avesse davvero nulla da dire, o perchè non avesse capito niente di quello che gli aveva detto. - Però non voglio restare qui, voglio arrivare all’Accademia. Hai mai sentito parlare di Santa Cecilia? – 
Il silenzio fu abbastanza eloquente, non aveva idea di cosa stessero parlando.
Dominik si chiedeva spesso come fosse possibile che la gente sapesse così poco di musica, che amasse solo quelle urla sregolate di cantanti da quattro soldi quando le mura di ogni monumento di una città come Milano avevano respirato per secoli le note meravigliose di Beethoven, Chopin, Vivaldi. 
- E la sera, cosa fai? Esci con gli amici?  - Dominik fece una smorfia, stringendosi le ginocchia al petto. – Non ti va? – continuò il ragazzo, con la sua voce calda.
- Non mi importa –
- Come non ti importa? Scusa ma quanti anni hai detto che hai? –
- Diciotto - 
- E di cosa ti importa, dall’alto dei tuoi diciotto anni? –
- Musica – gli disse semplicemente, era una cosa ovvia.
Federico sgranocchiò un altro po’ di insalata, senza preoccuparsi di non fare rumore.
Domink sorrise: forse non se ne rendeva nemmeno conto, forse era lui che percepiva i rumori meglio di un gatto. La mamma gli aveva detto che i gatti, quando avvertivano un rumore, muovevano le orecchie, per sentirli ancora meglio. A lui i gatti piacevano, ma la mamma non ne aveva mai voluto uno. Ne avevano avuto uno, prima che lui nascesse; poi lui era nato cieco, e la mamma lo aveva dato via. Era tutto bianco e con il pelo lungo, gli sarebbe tanto piaciuto toccarlo, ma quando era nato, il gatto non c’era già più.
Il rumore dell’acqua che usciva dal rubinetto gli fece dimenticare il gatto, ma lo fece sorridere. Si perdeva sempre nella sua mente, a rincorrere un pensiero. La mamma glielo diceva sempre, ma più cercava di fare attenzione, più il mondo intorno lo distraeva.
Come quel profumo, adesso. Nella stanza c’era un profumo nuovo, doveva essere quello di Federico; odorava di muschio, e di borotalco, e di qualcosa di forte che non sapeva ancora definire. Doveva essere quello il suo profumo, e da vicino doveva essere ancora più buono. Riempiva l’aria, rendendola densa come il miele. Gli piaceva tanto il miele.
  - Se continui a pensarla così sarai sempre solo… - Dominik si mise dritto sulla schiena, agitando una mano in aria come se volesse scacciare una mosca fastidiosa.
In realtà, quello era un pensiero; nella sua mente, i pensieri cattivi erano dei puntini più neri del nero a cui era abituato, e bastava alzare la mano per scacciarli. Anche quello glielo aveva insegnato la mamma  
- Tu non capisci cosa è la musica vera. La musica è compagnia, è l’unica cosa per cui vale la pena vivere. La musica ti fa vedere il mondo, ti fa immaginare i posti che non vedrai mai, ti tiene compagnia quando nessuno è disposto a restare. La musica vale più delle persone. –
Federico rimase in silenzio, ma stava camminando; i suoi passi si infrangevano sul parquet del pavimento. A giudicare dalla distanza tra un passo e l’altro, stava camminando piano, con passi lunghi. Si stava avvicinando a lui, il rumore diventava sempre più forte. Alla fine si arrestò, e fu seguito da uno sfregare di tessuto. Federico si era seduto sul divano.
- Non vuoi suonare ancora? – gli domandò. Che domande, suonare era tutta la sua vita, il suo mondo.
- Io suono sempre –
- Per…per farmi sentire, intendo. –
- La musica è sempre musica, non è solo per farla sentire a qualcuno. La musica è vita –  Quel ragazzo non capiva cosa significasse. Non si suonava a richiesta, ma perché la musica sceglieva di uscire, all’improvviso, e tu non potevi fermarla. Le richieste erano solo per le lezioni al conservatorio, o per i concerti; tutto il resto era pura vita che usciva dal corpo, dal cuore, gli  passava nelle vene. Si chiedeva spesso cosa sarebbe stato di lui se non avesse avuto la musica; probabilmente sarebbe morto nel buio che gli stava intorno. 
- Insomma, posso ascoltarti o no? –
- No. –
- Perché no? –
- Non mi va. –
Federico sbuffò, e Dominik venne da sorridere.
Il respiro delle persone era come l’indaco, che quando si appesantiva diventava blu.
In quel momento Federico era blu.
Il biondo si alzò, preso all’improvviso dalla smania.
Quel blu stava diventando un gatto, un gatto blu che saltava tra i mobili di casa sua, e che gli si accoccolava addosso, accarezzandolo con il suo morbido pelo. Poi tornava a saltare, ad arrampicarsi sulle tende.
Dominik si sedette dietro al suo piano, premendo le mani sui tasti; nella sonata numero 16 di Mozart, vedeva i colori, il gatto, le tende. il gatto blu lo faceva sorridere.
Federico era in silenzio; avrebbe voluto vedere il suo viso, se stesse sorridendo, o se fosse triste, o arrabbiato.
Gli aveva detto di no, che non avrebbe suonato, ma non aveva resistito. Federico gli faceva venir voglia di suonare, avrebbe potuto farlo per ore intere, non gli importava che lui potesse ascoltarlo o meno.
Eppure avrebbe tanto voluto mostrargli i colori che vedeva lui, gli sarebbero piaciuti. Gli avrebbe mostrato il suo gatto blu che saltava sulle tende. Forse avrebbe sorriso.
Forse sarebbe stato bravo come la mamma.
La mamma gli aveva insegnato a vedere i colori come li vedeva lei.
Dominik avrebbe insegnato a Federico a vedere i colori a modo suo.

 








(*) Nota del 12/01/2014: Capitolo totalmente revisionato

Nota al capitolo 1
Oddio, sono sorpresa, e contenta! Questa storia ha già delle recensioni e diverse persone che la seguono, più di quanto mi aspettassi!
Alle recensioni risponderò personalmente entro oggi, ma intanto ne approfitto per ringraziare qui, anche chi ha aggiunto alle seguite e ai preferiti.
Questa storia mi mette un po' sotto pressione, è difficile rendere appieno un carattere come quello di Dominik, e le sensazioni che prova.
E' quasi come un bambino che si è costruito intorno un mondo tutto suo, perchè quello vero non lo vede.
Da qui l'idea del gatto blu: è un'idea che verrebbe solo a un bambino, o a lui, che un gatto non l'ha mai visto. Dominik è una sorta di simbolo, una figura che mostra al mondo quanto è diverso il modo di agire quando non ci sono gli occhi a farci vedere la realtà.
Nel prossimo capitolo Federico cercherà di far vedere a Dominik il suo mondo.
Spero che non vi deluda, sono un po' sotto pressione xD Tengo molto a questa storia.
Ancora un grazie a tutti! ^_^

 

   
 
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