I MAKE MY WAY
THROUGH THIS DARKNESS
A malapena
riuscì a capirla sopra il rumore della città, ma ricambiando il sorriso annuì e
rispose nella sua lingua: “Venga pure, anzi, mi scusi!”
La lasciò
passare e si spostò alla sua destra, allontanandosi di qualche passo per
concederle un po’ di privacy.
Sospirò
e tornò a concentrarsi sulla sua macchina fotografica, ma quando arrivò a
guardare nell’obiettivo, l’inquadratura non le piaceva più così tanto: troppa
ombra ricopriva l’acqua che scorreva nella fontana, e la luce del sole non si
rifletteva più neanche sul granito scuro; fece una smorfia delusa e cominciò a
guardarsi attorno per vedere se sarebbe riuscita a trovare un altro angolo per
una fotografia in prospettiva.
Con la
coda dell’occhio notò i capelli candidi della signora anziana e non poté fare a
meno di tornare a guardarla: con suo grande stupore, la vide mentre stava strofinando
un panno bianco sul bordo della fontana, su quel piccolo spazio da lei prima
occupato, in quanto ci si era appoggiata sopra con i gomiti.
“Oddio…”
sussurrò riavvicinandosi, e un nodo in gola per poco non le spezzò la voce
mentre tornava a parlarle.
“…
Scusi…”
La donna
si girò a guardarla e da dietro i grandi occhiali da vista i suoi occhi
luccicarono, commossi e accoglienti.
“Sì?”
Perché era
voluta tornare indietro a parlarle?
Non lo
sapeva di preciso, semplicemente aveva voluto farlo.
Era ovvio
che non lo sapeva, come avrebbe potuto?
L’altra
sorrise, stavolta più calorosamente. Una lacrima le scese lungo la guancia
sinistra.
“No…
no, io sono solo una turista…”
“Oh,
davvero?! Da dove viene?”
“Dall’Italia…”
“Ma
parla un inglese molto corretto, complimenti! Io mi chiamo Janice, molto
piacere di conoscerla…”
Le strinse
la mano: era tiepida, morbida, aveva una bella stretta, vigorosa ma dolce. Nella
sinistra reggeva il panno con cui aveva ripulito il nome di suo figlio inciso
sulla pietra.
“… P-piacere,
io sono… mi chiamo Silvia…”
Si rese
conto che stava piangendo, e che non sarebbe riuscita a fermarsi facilmente.
Mentre Silvia
la stringeva e singhiozzava piano, con il cuore che le batteva a mille, sentì
che le sussurrava: “Il mio Mark era a metà della sua vita ed era accorso in
aiuto a tutte quelle povere persone…
È morto
qui, a pochi metri da dove siamo noi adesso. E io, piuttosto che rimanere a
casa a morire di crepacuore e pensare alla mia rabbia, preferisco venire qui,
ogni giorno, e onorare il suo nome, raccontare la sua storia.”
Senza vergognarsi
delle proprie lacrime, scorse lo sguardo lentamente lungo il perimetro della
fontana.
Quello
che fino a vent’anni anni prima era stato il perimetro della seconda torre.
“Quanti
nomi” disse con la voce rotta dal pianto “Quante persone…”
“Lo so,
cara… Lo so…”
“Da
quando sono arrivata in questa zona… è come se… non so, mi sentivo un macigno
sulla testa…” tentò di spiegarle mentre si staccava dolcemente per guardarla e
asciugarsi le lacrime.
Janice scosse
la testa e si tolse gli occhiali. “Chiunque passi di qui ha provato la stessa
cosa. È un grande peso, sai… e una vita umana pesa molto di più delle due torri
messe insieme. Qui sono morte quasi tremila persone. Immagina…”
Silvia annuì
gravemente, continuando a fissare i nomi sparsi sul granito.
“C’è
del conforto però” continuò l’anziana donna, abbozzando un sorriso mentre le
appoggiava una mano sulla spalla “Sono tutti qui davanti a noi, e se la pietra
resiste davvero al tempo… allora nessuno di loro verrà mai dimenticato. Non trovi?”
Reprimendo
un ultimo singhiozzo, l’altra rispose: “Forse ha ragione… Non l’avevo mai
pensata così, ma forse perché non ero mai stata qui prima… E’ come vedere due
cuori enormi con dentro… tutti loro. È un’immagine un po’ banale, ma è così che
mi piace vederla…”
“Io sono
davvero contenta e orgogliosa che una donna giovane come lei sia venuta fin qui
a condividere le sue emozioni, e con me.”
Si sorrisero.
Silvia si sentiva molto meglio.
“Grazie,
anche a me ha fatto molto piacere… e scusi ancora se l’ho disturbata…”
“Non se
ne preoccupi! Anzi, continui pure con le sue fotografie” le suggerì Janice,
indicando l’apparecchio appeso al collo della ragazza “Ognuno qui ha il suo
modo di rendere omaggio…!”
Si salutarono
con un ultimo abbraccio, più sobrio e controllato del precedente, con un “Arrivederci”
in italiano, da parte di entrambe, che però suonava come “Addio”.
Silvia
esitò prima di riprendere in mano la macchina fotografica, ma una volta trovato
l’angolo giusto, ricominciò a camminare e scattare, quasi senza rendersi conto
di farlo con un sorriso rilassato.
THE
END
Per il
titolo di questo racconto, è stato di grande aiuto un pezzo di Bruce
Springsteen, “The rising”. No scopo di lucro.
A causa
dell’intensità con cui personalmente percepisco la tragedia dell’ 11 settembre
2001, ho sentito di dover mettere il mio nome in questa storia, che comunque
resta di fantasia, e ambientata nel futuro perché non sono ancora mai stata a New
York, ma spero di poterci andare un giorno.
Il
luogo citato esiste davvero, è il National September 11 Memorial & Museum,
situato esattamente nel punto in cui sorgevano le Torri Gemelle. Le fondamenta
dei due edifici sono attualmente due fontane sui cui parapetti sono incisi i
nomi delle vittime dell’attacco.
Mark,
inoltre, è un uomo realmente esistito: un paramedico di nome Mark Schwartz
morto a 50 anni al momento del crollo della seconda torre; è sul parapetto
della rispettiva fontana che ho notato il suo nome, in mezzo a molti, troppi
altri.
Per me
Mark rappresenta tutte le 2977 vittime dell’11 settembre. È il mio modo di
rendere omaggio, oggi come sempre, a tutti quegli innocenti morti ingiustamente
per una causa inutile e troppo grande per loro.
Foto
delle fontane del National 09/11 Memorial http://it.123rf.com/photo_10592489_new-york-2011-09-17-world-trade-center-memorial-weekeknd-di-apertura-al-pubblico.html
Info su
Mark Scwhartz
http://edition.cnn.com/SPECIALS/2001/memorial/people/1728.html