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Autore: KaienPhantomhive    11/09/2012    4 recensioni
[Reboot a partire dall'Episodio 3x3; fondamentalemente Het ma con lievissimi accenni Slash.]
Un uomo dall'anima divisa tra Luce e Ombra, in cerca della Redenzione.
I dolori insanabili di una ragazza che non può soffrire.
Molte anime legate da fili a loro invisibili, in bilico tra un progetto superiore e sconosciuto e precarie vite comuni.
La caduta di un misterioso meteorite ed un ragazzo privo di qualsiasi ricordo, eccetto un nome: Alex Mercer.
"Talvolta, nelle infinite casualità della vita, si nasconde un Disegno ben più grande."
Genere: Angst, Mistero, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro Personaggio, Claire Bennet, Nuovo personaggio, Peter Petrelli, Sylar
Note: Cross-over, Lime, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ok, questo capitolo è un po’ più lungo del solito. Prometto che dopo saranno più semplici, lo giuro! >.<
Buona lettura! ^^

 
 
 

Talvolta, nelle infinite casualità della vita, si nasconde un Disegno ben più grande.
Possiamo tentare di essere degli individui migliori, o di macchiarci di colpe tremende per difendere ciò che amiamo.
Ma è con quella stessa casualità – come di una Stella Cadente – che tutto ciò che abbiamo costruito può assumere nuove forme…

  
  
  
  

Capitolo 2:
 
‘‘Shooting Star’’

 
 
 
 
18 Marzo 2007. Ore 07:15 A.M.
Casa ‘Bennet’. Costa Verde, California.
 
Bi-bip…bi-bip…
 
La piccola sveglia a forma di orso sul comodino della cameretta insisteva a squillare debole ma incessante, senza dar cenno di voler demordere.
Sembrava un bambino capriccioso e testardo, ma dovette azzittarsi per forza quando un braccio nudo di Claire non decise di sbucare da sotto le lenzuola, battendo con quanta più energia consentita dalla sonnolenza sul bottone superiore a forma d’orecchio.
L’orsetto cadde dal comodino, rotolando sul pavimento e ammutolendosi.
 
Con la lentezza e la goffaggine degna di uno zombie da film horror di terza categoria, la montagna di quelli che dovevano essere capelli biondi – ma che somigliavano più ad una criniera arruffata – strisciò fuori da sotto le lenzuola, mettendosi a sedere sul letto.
Con gli occhi ancora appiccicati dal sonno e la più sconfortata espressione possibile dipinta sul viso quasi completamente coperto dalle frange scomposte, Claire fissò la sua immagine riflessa nello specchio dall’altra parte della stanza, proprio sopra lo scrittoio affollato di matite colorate e mollette.
Sbuffò contrariata alla vista dell’aspetto che i suoi capelli avevano all’inizio di ogni giornata:
Molto simile al pelo perfettamente ovattato e lucidato di Mr.Babbani; totalmente impresentabile per un’acconciatura che dovesse sormontare teste umane.
 
La luce calda e bianca del mattino primaverile filtrava dalle serrande aperte per metà.
 
La ragazza sbuffò ancora e scosse energicamente la testa, quindi saltò giù dal letto con la poca forza di volontà nelle vene e afferrò il primo elastico fermacapelli che trovò a portata di mano.
Legò una coda con un unico gesto e passò oltre la camera, curandosi però di assestare una sonora manata al suo stereo non-proprio-hi-tech e far partire d’impulso i quindici minuti di musica che “Good Morning, America!” offriva tutti i giorni a quell’ora.
 
Scese rapidamente le scale del piano di sopra, ciabattando nelle pantofoline di peluche fino alla cucina.
 
La prima voce che udì fu quella lontana e monotona del presentatore televisivo del mattino, che avvisava le sonnolente famiglie americane:
…e ricordatevi di tenere gli occhi sollevati al cielo, stanotte! Non perdetevi il passaggio della Cometa ‘BlackLight’!...
 
Troppo intontita come al solito dal sonno che reclamava il letto per un’altra mezz’ora buona, Claire era ormai abituata a riconoscere i suoi familiari solo dal suono della voce:
 
Uno zampettare rapido sul parquet la avvisò di Mr.Babbani alla sua destra: vietato calpestare i cani e le aiuole.
“Buongiorno tesoro, dormito bene? Sono pronti i waffles!” – la voce cinguettante di sua madre la guidò fino al tavolo centrale, al quale si sedette con un tonfo sordo.
“Ci credo che non ti si piglia nessuno: la mattina sembri Cugino It!” – questo perfetto esempio di amore fraterno veniva dal ‘vir adulescens’ della famiglia: Lyle.
 
“Zitto, bacarospo.” – e Claire Bennet non poté non ricambiare tanto affetto in modo adeguato.
 
“Ciao, orsacchiotta.” – una voce calda e profonda ma allo stesso tempo così accogliente le concesse uno spiraglio di piacere in quei primi tre minuti di giornata già abbastanza seccanti:
Noah Bennet le passò alle spalle, concedendole un bacio sulla nuca ed una carezza sulla spalla.
 
Claire avvertì quella sensazione di amorevole tatto come una perla rara che aveva potuto ammirare difficilmente, negli ultimi tempi.
Ma ogni perla ha le sue imperfezioni; mise a fuoco il completo grigio e cravatta nera che l’uomo indossava e chiese:
“Sei già pronto? Dove vai?”
 
“Te lo avevo detto ieri sera.” – rispose lui, intento ad aggiustarsi meglio il nodo della cravatta – “Ho degli incontri di lavoro per conto della PRIMATECH; un workshop di due giorni sui metodi di stampa ecologica.”
 
Claire lo guardò di sottecchi:
Nel loro linguaggio non-così-super-segreto ‘PRIMATECH’ era sinonimo di ‘Impresa’ ed ‘Impresa’ di ‘guai in vista’.
Ma non davanti a Lyle e Sandra; per loro era solo sinonimo di ‘fabbrica di materiale cartaceo’.
Decise di star zitta e non fomentare inutili polemiche, ma non poté astenersi dal chiedere:
“E sarà una cosa…complicata?”
 
Lui si fermò per un momento; la guardò e sospirò.
Nella sua mente si formava già l’immagine del ghigno a trentadue denti che Sylar/Gabriel avrebbe sfoggiato nel vederlo in difficoltà e ai chilometri d’asfalto che la sua auto avrebbe dovuto mangiare per raggiungere super-criminali sparsi chissàdove, sempre accompagnato dagli occhietti inquisitori del suo nuovo compagno.
Noah si limitò a sbuffare infastidito alla sola idea:
“Più che altro sarà una rottura; ci sentiamo stasera.”
 
E senza troppe spiegazioni si avviò verso la porta d’ingresso.
Sua moglie venne ad aprirgli e lo salutò con un bacio sulla guancia.
L’uomo rivolse un ultimo sguardo alla sua famiglia e poi varcò la soglia.
 
In cuor suo Claire sperò che quel momento di intimità e serenità non fosse l’ultimo.
Era convinta che quel passo oltre il giardinetto di casa non promettesse nulla di buono.
 
 
*   *   *
 
 
Matt Parkman sedeva sulla terra rossa e argillosa di quello che sembrava essere il pavimento di una capanna di bambù e pagliericcio.
Tutt’intorno, pietre bianche e levigate affiancavano le pareti esili della baracca, risaltando per contrasto dai colori vistosi con le quali erano state decorate.
I disegni sono sbiaditi, le forme confuse. O forse è solo il ricordo ad essere evanescente?
Ma si tratta di un ricordo? O qualcosa di presente? O magari che deve ancora accadere?
Sembra che quel Matt Parkman aspetti qualcuno con impazienza, tamburellando con le dita sulle ginocchia; è in ansia, probabilmente quell’attesa comincia ad essere troppo prolungata e snervante anche per la sua calma abituale.
Sembra essere troppo teso per rimanere fermo più di così:
Si alza in piedi ed esce dalla capanna, all’accecante luce del Sole d’Africa.
Muove qualche passo in avanti e poi vede: quella testa di ragazzo africano sempre sorridente che pare aver perso ogni traccia di vitalità.
E’ gettata in mezzo alla povere ed la suo stesso sangue; non ha corpo.
Solleva lo sguardo atterrito ed incrocia lo scintillio di una canna di pistola.
Un uomo alto, vestito di un completo nero, la impugna.
Un impresario, un agente federale, magari un politico? Tutte e tre le cose?
Il volto non è definito dal ricordo, ma la sua voce riecheggia distinta e matura:
“Daphne è stata troppo indulgente, con te. Eppure l’avevo avvertita che agire secondo i piani sarebbe stato meglio per tutti. Un vero peccato.”
 
Parkman non prova nemmeno ad urlare; non ne avrebbe avuto comunque il tempo.
 
 
*   *   *
 
 
Contemporaneamente (fuso orario).
Appartamenti di Hiro Nakamura; YAMAGATO S.p.a. Tokyo, Giappone.
 
MASAKA!!! [NO!!!]”
Quel grido di ansia mista ad orrore fuoriuscì dalla gola Hiro privo di qualsiasi briglia.
 
Si ritrovò seduto sul letto matrimoniale che – ci aveva riflettuto molte volte – sembrava proprio non voler assolvere alla sua funzione di giaciglio d’amore.
Riprese fiato, con il sudore ancora a gocciargli lungo le tempie e le guance.
A tentoni cercò i suoi occhiali nel buio, trovandoli miracolosamente illesi sotto il cuscino.
Li inforcò in tutta fretta e allungò una mano verso il comodino, afferrando il telefonino a schermo piatto.
Scorse nella sua rubrica fino alla voce ‘Masashi Ando’ e si fermò di colpo.
 
Il suo subconscio era come bloccato da catene di morale: cosa aveva intenzione di fare?
Erano le 03:00 di notte e aveva appena gridato in un incubo che ritraeva la morte di un poliziotto capace di leggere nel pensiero, forse disperso in Africa, e di un Curatore indigeno. Entrambe per mano di un uomo privo di volto.
La prima cosa che fu tentato di fare fu chiamare quello che credeva essere la sua spalla ed insostituibile appendice per ogni attimo della sua vita, nonché il suo migliore amico.
Ma cosa gli avrebbe raccontato? Che aveva avuto un brutto sogno e che ora voleva essere rincuorato? Che venisse lì a leggergli una storia?
Non aveva modo per constatare l’attendibilità del suo sogno.
Dopotutto era un Manipolatore spazio-temporale, non un veggente.
Ma di cose strane, Hiro Nakamura ne aveva viste e compiute anche troppe e non in una sola epoca.
 
Sapeva perfettamente cosa fare, non importa quanto potesse sembrare fuori luogo o improbabile.
Premette sul contatto di Ando e si mise in ascolto.
 
Squillò a lungo a vuoto e poi:
Moshi-moshi…?” – una voce impastata dal sonno e turbata dall’orario lo accolse dall’altra parte della cornetta.
Ando-kun!” – esclamò ad alta voce, trattenendosi a stento.
Hiro…?!” – il modo in cui il ragazzo prese atto del suo interlocutore non poté essere più irritata e sorpresa allo stesso tempo – “Omae wa imanani desu ka?! [Che cavolo vuoi a quest’ora?!]”
Riversò senza pensarci tutto ciò che ancora gli frullava nella mente per metà ancora dormiente:
Matt·Pārukuman! Mirai! Nemeshisu! [Matt Parkman! Il Futuro! Nemesi!]”
Na-ni…?! [Cosa…?!]”
 
Le labbra di Hiro si ridussero ad una stretta linea sottile; i suoi occhi puntarono il vuoto:
Ima, watashi wa na-ni o subeki ka o shitteiru! [Ora so cosa dobbiamo fare!]”
 
 
*   *   *
 
 
 
Due ore dopo. PRIMATECH corp. (attico). Odessa, Texas.
 
“Certo che vi siete attrezzati proprio bene…”
Mr.Bennet si lasciò sfuggire un piccolo fischio, alla vista dell’improbabile velivolo a pochi metri da lui.
 
Posteggiato diametralmente sulla grande ‘H’ dipinta sul tetto della PRIMATECH, luccicava lo scafo bianco di quello che appariva come uno shuttle più corto e schiacciato del normale.
Le ampie ali erano un tutt’uno con la fusoliera dall’aspetto aerodinamico ed un paio di grandi rotori erano stati posti nella stessa intelaiatura degli alettoni orizzontali.
Un portellone sul transetto orizzontale lasciava intravedere quello che sembrava un lungo scompartimento dannatamente scomodo.
 
“Te l’ho detto: in tempi come questi ogni mezzo è lecito, anche le forme di trasporto non convenzionali.” – ripose a testa alta un’Angela Petrelli in completo fumé perfettamente stirato, venendogli incontro.
 
Sul suo viso era dipinto un sorriso appena accennato, come di vaga soddisfazione. Vedere Noah Bennet, occhiali e valigetta-24 ore, sul tetto dell’Impresa significava che c’era riuscita, dopotutto:
Lo aveva convinto, piegato al suo volere; sarebbe salito a bordo di quella specie di astronave e sarebbe volato dove avrebbe voluto lei, collaborando anche con l’ultimo uomo al Mondo che avrebbe desiderato al suo fianco.
E per di più non si era nemmeno sprecata a scendere a bassi ricatti; semplicemente H.R.G. sapeva qual era la mossa giusta da fare per difendere ciò a cui teneva, malgrado tutto.
 
“E’ proprio un bel giocattolo. A chi hai cancellato la memoria, per averlo?” – chiese con spudorata ironia – “NASA? CIA? Magari il Presidente?”
“Mi credi davvero capace di tanto?” – controbatté lei, riducendo le palpebre ad una fessura – “Sono pur sempre la madre del Senatore Petrelli! E con i suoi contatti –oltre alla liquidazione per l’incidente in conferenza stampa– posso farmi concedere questo e ben altro senza dover haitianizzare nessuno.”
 
Noah sorrise tra sé, inarcando le sopracciglia in un gesto di amaro divertimento:
Quanto audace, competente, incredibile eppure maledettamente miserabile poteva essere quella donna.
Si guardò intorno: a parte due uomini della sicurezza, il pilota di quel trabiccolo che pareva essere uscito da un film di Spielberg e l’Haitiano –che salutò con un semplice cenno del capo, alle spalle di Angela– non c’era anima viva, lassù.
Chiese arricciando le labbra:
“Nathan, giusto; spero lui stia bene, così come Peter. Ma mi pare manchi qualcuno; che fine ha fatto…il Figliol Prodigo?”
Angela Petrelli si voltò di tre quarti, badando bene a caricare le sue parole di pungente sapore di sfida:
“Se ti riferisci a Gabriel…beh, dovresti prendere esempio da lui. Ti ha già preceduto sul posto; sembra proprio che abbia preso molto sul serio questa faccenda della ‘Redenzione’.”
“Ma certo.” – Bennet ingioiò un groppo amaro – “Ora quello di troppo sono io.”
 
La donna inforcò un paio di costosi occhiali da sole, concludendo la polemica:
“Non se ti renderai utile; ricorda che tutto questo è anche per il bene di Claire. Ti auguro buona giornata, H.R.G.”
E lo oltrepassò senza voltarsi.
 
Noah scosse la testa ed entrò in quell’aereo con gli steroidi, piegandosi sulle ginocchia per non urtare il soffitto con la testa.
Si accomodò su una poltroncina al centro dello scompartimento, proprio di fronte ad un uomo di bell’aspetto e dalla carnagione scurissima.
Gli occhi dell’Haitiano gli si piantarono addosso e lo trapassarono come lame, mentre un solo commento uscì dalle sue labbra:
“E così mi avete rimpiazzato…”
“Solo provvisoriamente.” – lo corresse l’Uomo con Gli Occhiali, controllando la tabella di marcia sul suo palmare – “Non ho intenzione di portarmi in giro quel bastardo come fosse un amico del college.”
“E cosa farai, allora?”
 
Mentre il frastuono dei reattori dello shuttle e delle eliche laterali iniziava a farsi più intenso, Noah Bennet mormorò a mezza voce quella che sarebbe voluta suonare come una promessa:
“Appena scoprirò il suo punto debole…io lo ucciderò.”
 
 
*   *   *
 
 
Contemporaneamente (fuso orario). Da qualche parte, in Africa.
 
Matt Parkman non faceva altro che passeggiare in cerchio da almeno un quarto d’ora, nell’angusta e afosa capanna in legno e pagliericcio.
Il pavimento era solo un unico strato di terra rossa ben battuta e ricoperto da pochi tappeti malmessi; le pareti costeggiate da grandi pietre granitiche perfettamente levigate ed affrescate dalle tinte vivaci.
Ognuno di esse rappresentava uno o più individui, dalle fattezze stilizzate, speso ridotti anche a meri schizzi di volti privi di contesto.
Un quadro – se così lo si poteva definire – in particolare colpì l’attenzione del poliziotto americano: quella che appariva essere la Terra sembrava essere stata divisa in due metà, come da una lama, e il suo intero Nucleo esplodeva in un divampare di fiamme e frammenti crostali.
Parecchio catastrofico e di pessimo gusto.
 
“Questi li hai fatti tutti tu?” – chiese Parkman ad Usutu, ancora affaccendato nella preparazione di una poltiglia grigiastra di cui non si decideva a spiegare l’utilità.
“Sì, tutti.” – ripose l’africano – “In tanto tempo.”
“Sono tutti così…familiari.”
Matt si piegò sulla schiena, quasi a voler a cercare un’angolazione differente che gli offrisse nuove interpretazioni per quei murales improvvisati.
“Questo, per esempio…” – ed indicò una sagoma nera con uno scolo rosso all’altezza della fronte, verso la quale un tipo in gilet e occhiali puntava minacciosamente l’indice – “…è strano. Voglio dire: cosa rappresenta? Un tizio che scoperchia il cranio ad un uomo?”
 
Alla sola idea rabbrividì: non poteva fare a meno di ripensare all’Eminenza Grigia di nome ‘Sylar’ che puntualmente era piombato nella sua normale vita da poliziotto sottopagato per spianargli la strada da commissario di un’interminabile serie di raccapriccianti delitti.
 
“Quello è Uomo dei Cervelli.” – confermò il pittore – “Fai attenzione a lui; lui molto pericoloso…ma non malvagio. Solo confuso.”
“Sarà come dici…ma io non mi fido affatto.” – Matt si morse un labbro e ruotò gli occhi altrove, verso un gruppo di dipinti.
 
Quello più a destra raffigurava una ragazza dai capelli dorati ed un’uniforme sportiva bianca e rossa; aveva il braccio ferito, ma non sembrava curarsene.
All’esatta sinistra era stato tracciato un lungo schizzo bianco e azzurro dalla punta giallo acceso, come una Cometa; il tutto in un fondale nero come lo Spazio.
Infine, al centro, quello più singolare:
Un giovanotto asiatico piuttosto in carne, dagli occhiali da vista squadrati ed un completo nero elegante ma fuori luogo, se ne stava lì con una strana espressione a bocca spalancata e con un dito puntato verso l’osservatore, quasi volesse avvertirlo di qualcosa; al suo fianco, un ragazzo connazionale decisamente più in forma si reggeva al suo braccio, con negli occhi tutto fuorché fiducia.
 
La Cheerleader: la figlia di Bennet. Una specie di meteorite...o l’Eclissi?– pensò tra sé – E quei due? Che siano Nakamura e quell’altro tizio con cui va sempre in giro?
 
“Pronta!” – esclamò improvvisamente il cordiale pittore e soccorritore – “La Chiave per il Cammino dello Spirito!”
Ed invitò Matt a sedersi al suo fianco, battendo con un palmo sul suolo.
Fece come richiesto e, con una certa goffaggine, si accostò a gambe incrociate.
Guardò con suprema diffidenza e disgusto la purea scura nella scodella di legno e chiese riluttante:
“Che cos’è quella…roba?! E’ commestibile?!”
“Tu non preoccupare.” – lo rincuorò con scarsi risultati Usutu – “Non devi finirla tutta come piatto di pasta. Basta un solo assaggio.”
“E dopo che avrò fatto quest’orribile penitenza che ci otterrò?”
 
Il ragazzo indigeno lo fissò intensamente, privo di ogni cordialità; quello che gli stava per dire sarebbe stato come scavare nell’anima di un uomo e trovare un bivio da eludere:
Otterrai la possibilità di salvare tua vita…o di lasciarti morire. Solo tu puoi sapere ciò che troverai; io ti ho aspettato molto a lungo.”
 
Matt sospirò ancora e arricciò un labbro alla vista di quella schifezza incolore.
Immerse un dito nella sostanza fredda e vischiosa e ne tirò su un boccone.
Chiuse gli occhi dalla stizza e succhiò via la crema. Un senso di disgusto lo pervase:
Non era affatto fredda come appariva, ma bollente e terribilmente amara; un bruciore gli ustionò la lingua e scese nello stomaco, peggiore che se avesse inghiottito un tizzone ardente.
Portò le mani alla bocca dell’esofago, certo di essere sul ciglio dell’ulcera, e strinse gli occhi dal dolore.
Si accasciò in un rantolo al suolo, ansimando con il fiato spezzato.
 
Il suo soccorritore non mosse un solo dito; semplicemente sussurrò:
“Non temere di vedere. Apri gli occhi!”
 
Matt deglutì ancora e poi si calmò; le palpebre ancora serrate.
Smise di uggiolare; una calma innaturale lo aveva disteso.
Sollevò di scatto la testa e sbarrò gli occhi: pupille, sclere e iridi ora erano solo un’unica macchia biancastra.
Biascicò a mezza bocca:
“Io…vedo!”
 
Vedeva, infatti. Ma non come se stesso; più come una ripresa a distanza, il sogno di qualcun altro molto lontano nel tempo.
 
Vide sé stesso all’inizio della sua carriera, inesperto e pieno di paure.
Gli occhi puntati addosso del resto del Dipartimento; quegli occhi diffidenti e maligni che sussurravano oscenità alle sue spalle.
Vide la sua faccia paonazza dalla vergogna al primo appuntamento con Janice, sua futura moglie, alla quale aveva portato un mazzo di gardenie che lei detestava ma che non voleva ammettere per paura di ferirlo.
Poi quella scena si capovolse totalmente: non più sorrisi spezzati, non più silenzi pieni di dolci sottintesi o mani tenute…solo la frustrazione, l’incomprensione, la lacrime trattenute a stento davanti ad un boccale di birra, in uno squallido locale il più lontano possibile da casa.
Non aveva importanza quanto potesse essere bravo a leggere i pensieri altrui, quella relazione non si sarebbe più aggiustata, se lo sentiva nelle ossa.
C’erano stati giorni in cui ricorreva alla telepatia per soddisfare al meglio i desideri inespressi di quella donna che amava sopra ogni altra cosa, ma nonostante questo nulla era come sarebbe dovuto essere.
‘Se baro non vale’ si diceva ogni volta; se si è costretti a frugare nella testa della propria moglie, perché non si riesce a capire come renderla felice, allora significa che ormai si è proprio alla frutta.
Ma poi tutto cambiò ancora:
C’era una giovane donna dai corti capelli biondissimi; le labbra sottili e strette, gli occhi grandi e scuri ed un radioso sorriso dipinto sul piccolo viso.
Non conosceva il suo nome…non ancora.
Daphne. Daphne Millbrook.
Si chiamava così ma non aveva idea del perché. Sapeva – sentiva – così tante cose di lei che avrebbe potuto riscriverne la biografia ma quel viso non gli diceva assolutamente nulla; non l’aveva mai incontrata prima d’allora.
E poi quel bambino: quel piccolissimo bambino paffutello – avrà sì e no un anno e mezzo di vita – che lui stesso tiene in braccio e che coccola come un padre.
E Molly. Molly Walker, la piccola chiaroveggente presa in adozione dopo che quel demonio nero di Sylar ne aveva massacrato la famiglia.
Sono tutti e tre così contenti, ma…la donna sparisce improvvisamente, a velocità impressionante.
Non sa quanto tempo passi con esattezza ma quella stessa porta da dove è uscita si riapre improvvisamente.
E vede ciò che in cuor suo non avrebbe mai desiderato…
 
Ancora preda di quei fantasmi che gli danzavano nella mente, trasfigurando lo spazio circostante, Matt si rimise in piedi, barcollando incerto.
Afferrò la tavolozza di colori naturali di Usutu ed un pennello a setole larghe, iniziando a tracciare rapide e decise pennellate contro la pietra vergine di una parete, fuori dalla capanna.
 
E’ molto sicuro di sé.
Strano, dato che Matt Parkman non era mai passato per un gran disegnatore, alle superiori. Diciamo pure che il commento più ricorrente della sua professoressa di Disegno suonava bene o male come ‘fa schifo’.
Ma non questa volta.
Questa volta i contorni sono definiti, i colori abbaglianti, la mano guidata da un subconscio che ormai ha abbandonato le paure.
 
Quando la punta del pennello si fu seccata ed il disegno terminato, un leggero brivido lungo la colonna vertebrale lo riportò alla realtà.
Riprese fiato, ansimante, e fissò la sua opera:
Un omone non certo peso-piuma, ma dal volto buono e devastato dalla sofferenza, reca in braccio il corpo esanime di una ragazza minuta, dalla schiena sanguinante ed ustionata orribilmente.
Lui e quella Daphne.
Un pessimo finale.
 
“Ora hai capito, panzone yankee?” – chiese gentilmente il Curatore – “Hai capito cosa devi fare?”
 
Matt si inumidì le labbra, confuso.
Quella visione era stata troppo realistica per essere vera; troppo paradossale per essere falsa.
Con una lacrima che iniziava a farsi strada sul ciglio della sua palpebra inferiore, mormorò in un soffio:
“Devo correre. Devo imparare a correre…più veloce di lei.”
 
MATT PARUKUMAN!!!” – una voce potente colse entrambi gli uomini di sorpresa, richiamando il poliziotto con un nome storpiato da un accento asiatico.
 
Si voltò completamente, sgranando gli occhi:
H-Hiro Nakamura…?!”
 
Il ragazzo giapponese era a pochi metri da lui, materializzatosi come dal nulla.
Alle sue spalle, Ando Masashi gli stringeva ancora il braccio, con un’espressione di totale sconforto per i geniali piani eroici del suo degno compare.
La scena ricalcava alla perfezione quell’affresco abbandonato nella capanna di Usutu.
 
E come nel dipinto, Hiro gli tese con decisione una mano; le lenti dei piccoli occhiali quadrati rilucettero al Sole desertico:
Matt Parukuman…sono qui per saruvarti!”
 
 
*   *   *
 
 
Ore 14:05 P.M. Poughkeepsie; NY.
 
“…e per quale motivo non avete spostato quelle transenne dieci metri più indietro?! Pensate di saper fare il vostro lavoro, così?! E poi vi lamentate se non vi pagano...! Ora muoversi!...
 
Noah Bennet avrebbe riconosciuto quella voce anche in mezzo ad un concerto heavy metal.
 
Era sceso da quel trabiccolo volante infernale dell’Impresa, su un palazzo qualche isolato più in là, dirigendosi il più in fretta possibile in quella frazione dello stato di New York.
Aveva evitato di essere investito almeno a tra incroci pedonali e poco c’era mancato che buttasse giù quattro o cinque passanti...tutto per essere lì in tempo.
Ma, a pensarci bene, ora come ora avrebbe preferito che uno di quei taxi spericolati lo avesse davvero messo sotto.
 
Si fece largo tra la folla di civili frementi e Caschi Blu armati fino ai denti, fino a raggiungere il drappello di sorveglianza che presiedeva ad una cinquantina di passi dalla grande ‘Bank of America’.
Non aveva paura di chi o cosa ci fosse là dentro, né la procedura operativa poteva in alcun modo metterlo a disagio: erano vent’anni che faceva da sicario all’Impresa, dopo un po’ di tempo alle formalità ti ci abitui.
No, a lui faceva rabbrividire chi era all’esterno.
 
Luiera lì: con il suo bel completo nero alla MIB, i capelli corvini impomatati all’indietro per darsi un tono, le mani imposte sui fianchi – neanche fosse il Generale alle Grandi Manovre – ed un’espressione di fierezza e vanagloria che avrebbe strappato colorite imprecazioni anche a un Santo.
Gabriel Gray finì di picchiettare con l’indice sul petto di un povero direttore del traffico non proprio sveglio, intimandogli l’ultimo di un’interminabile serie di scialbi ordini:
“E vedi di muoverti!”
 
Dio Santo, sarà arrivato neanche da venti munti e già se la tira in quel modo! – pensò Noah tra sé, avvicinandosi rapidamente, con i nervi a fior di pelle.
 
Il nuovo acquisto di Angela Petrelli contemplava beatamente quell’andirivieni di ometti concitati, quando la stretta vigorosa di una mano gli afferrò la spalla, costringendolo a voltarsi:
“Però…! Chi non muore si rivede!”
“Allora mi sa che mi vedrai parecchie altre volte, dato che – grazie alla piccola Claire – io non posso morire.” – Sylar ripose a quel saluto non proprio ortodosso con un sorriso appena accennato, che raggelò il sangue nelle vene di Mr.Bennet.
L’Uomo con Gli Occhiali sentì un moto di collera sgorgargli nelle vene e rovesciarsi fuori:
“Rifiuto quasi-umano che non sei altro, non nominarla mai in mia presenza! Non ne hai il diritto!”
“Buongiorno anche a te, H.R.G.” – rispose in modo innaturalmente cordiale l’altro, allargando solo un po’ di più il ghigno di prima – “Dormito bene? Spero di sì, dato che sei un po’ in ritardo. Ma non preoccuparti, tengo io tutto sotto controllo...”
“Tu…cosa?” – Noah inarcò un sopracciglio, davanti a tanta sfacciataggine – “L’unica cosa che dovresti tenere sotto controllo è quel tuo cervello mitomane che ti ritrovi, Syl-…!”
Ah-ah-ah.” – lo interruppe, muovendo l’indice in segno di diniego – “Piccola correzione: ora io sono l’Agente ‘Drew O’Grady’.”
E mise in bella mostra un distintivo meravigliosamente falsificato del NYPD.
 
Noah fece per replicare, ma Gabriel afferrò per un braccio il neo-portantino malaugurato di cui sopra:
“Tu: portaci due caffè-decaffeinati. E senza zucchero, mi raccomando.”
“A-Agli ordini…” – il ragazzetto si allontanò, obbedendo con encomiabile pazienza.
Sylar si voltò nuovamente verso di lui, con quegli occhietti scuri e penetranti che tradivano una voglia di competizione degna di un centometrista:
“Lo prendi senza zucchero, vero?”
 
Che spettacolo patetico.
Bennet non sapeva se ridere o disperarsi; era semplicemente assurdo vedere il suo più irriducibile nemico comportarsi a quel modo, un misto di odioso cinismo, bonaria strafottenza e sottile sfida.
E in tutto questo la parte del ‘terzo in comodo’, dell’ingenuo, stava toccando a lui.
Gli venne semplicemente da sorridere di un riso amaro, quasi perplesso:
Tsk! Scommetto che ti stai divertendo un mondo, vero?”
Tu non immagini quanto.”
Noah scosse la testa, temendo che quell’incarico fosse una punizione per qualche tremendo peccato commesso.
Quindi si voltò verso la banca, convinto che starsene lì a litigare come ragazzini non avrebbe portato a nulla.
Gli strappò dalle mani il distintivo fasullo e si incamminò a passo spedito verso uno dei blindati neri della polizia.
 
Mostrò il distintivo del presunto Agente O’Grady ad un Casco Blu – fregandosene del fatto che se Sylar aveva una gran bella faccia tosta ad esibire carte false, la sua lo era almeno il doppio – e lo fece scostare senza troppi complimenti.
Frugò nello scompartimento e ne tirò fuori un giubbotto anti-proiettile, indossandolo in tutta fretta.
“Serve una mano?” – chiese Gabriel, per una volta sincero.
“Se proprio vuoi aiutarmi allora non rendermi le cose più complicate.” – rispose senza nemmeno degnarlo di uno sguardo; allacciò i morsetti laterali – “La situazione?”
Pur stentando un cipiglio da pessimo veterano, Gray parve impettirsi più del dovuto; scandì i dati in tutta fretta, eccitato all’idea di quel gergo così ‘gangster’:
“Ci sono tre speciali là dentro: una specie di ‘piromane al blu di metilene’, un Tedesco elettromagnetico ed un grassone tatuato che non fa altro che girarsi i pollici da mezz’ora. in più c’è un nero che assorbe forza dalla paura. Tu hai paura?”
“Non mi piace il tono con cui usi al parola ‘nero’.” – sottolineò Noah, aggirando l’ostacolo – “Sei razzista, oltre che psicopatico?”
“Soltanto invidioso.” – precisò lui, con un broncio infantile – “Fino a ieri ero io…l’Uomo Nero.”
Sorvolò sull’irritante egocentrismo di quell’uomo e si concentrò sull’equipaggiamento: tastò la camicia e le tasche in cerca della sua pistola, ma non la trovò.
Non fin quando la sua nuova e improbabile ‘spalla’ gliela allungò con un sorriso soddisfatto:
“Cercavi questa? C’ho pensato io: armata e carica. Non ho mai usato una pistola, prima d’ora, ma si imparano parecchie cose interessanti con la Psicometria.”
Bennet s’irrigidì improvvisamente: come aveva fatto a prenderla ed armarla senza che potesse nemmeno notarlo?
La disponibilità e la cortesia di Gabriel Gray cominciavano ad essere quasi pericolose.
“Non-toccare-mai-la-mia-pistola!” – lo intimò, puntandogli contro un dito.
L’altro sollevò le mani, fingendo un vago rincrescimento:
“Mi spiace, volevo solo essere d’aiuto! Oh, avanti, permettimi di rendermi utile!”
“L’unico modo in cui puoi essere utile è starmi alla larga, razza di apriscatole-omicida-sentenzioso! Ora io entrerò là dentro e voglio che tu resti qui. E per quanto possa esserti difficile da capire…questo è un ordine.”
 
E si allontanò con ogni fibra del corpo che desiderava tornare indietro solo per il gusto di prenderlo a schiaffi.
Dal canto suo, Gray poggiò la schiena contro il blindato ed incrociò le braccia al petto, sbuffando irritato:
Mpf! Guastafeste…!”
 
 
*   *   *
 
 
Interno della banca.
 
“State fermi dove siete!”
Con un grido intimidatorio ed una vampata di fiamme azzurre dai palmi delle mani, l’omone rasato che rispondeva al nominativo di ‘Flint Gordon’, sedò due addetti alla sicurezza che avevano osato respirare solo un po’ più forte del dovuto.
Un lanciafiamme vivente: quel fuoco blu era stato vomitato dalla sua stessa pelle, rendendo incandescente l’aria e quasi sfiorando i malcapitati.
 
Il personale era atterrito, letteralmente.
Compressi contro il pavimento e le pareti, i clienti della banca e gli operatori degli sportelli facevano di tutto per rendersi il più piccoli e silenziosi possibile.
Gli uomini della sicurezza, nonostante i randelli, si erano rincantucciati in angolo, tremanti.
Avevano paura, tutti loro.
Avevano paura e Knox, il ragazzo dalla carnagione più scura e dallo sguardo venefico, lo sentiva.
Poteva provarlo con ogni cellula della sua pelle, quel piacevole senso di ebbrezza dato dal terrore altrui.
Era come un fluido maledetto e seducente che gli scorreva nelle vene, schizzandogli a tremila l’adrenalina e rinvigorendolo di una forza sovrumana.
Galvanizzato dalla situazione, ringhiò verso gli ostaggi:
“Così, bravi! State buoni e continuate a tremare! Non avete idea di quanto mi rendiate felice!”
Quindi si voltò verso il compagno accovacciato accanto al caveaux:
“Quanto ti manca?”
 
‘Il Tedesco’: nome anagrafico sconosciuto ed abbandonato da anni; nazionalità evidentemente dichiarata, testa squadrata e occhialetti tondi.
Armeggiava sapientemente sulla manopola della cassaforte; la muoveva rapidamente, quasi alla cieca, mentre poteva sentire scattare decine di piccoli ingranaggi magnetici al suo interno.
Uno scatto unisono confermò che tutti i pezzi erano al posto giusto.
“Fatto.”
La piccola cassaforte incastonata nella parete si aprì silenziosamente: venti lingotti d’oro ed una decina di mazzetti di ‘verdoni’ dal taglio mai visto da occhio mortale luccicavano al suo interno.
Oltre le lenti da vista dei suoi occhiali, le pupille del Tedesco vibrarono d’eccitazione a quella vista:
“Questo sarà un bel bottino, quando ce lo divideremo. Vorrei mettere in chiaro che senza di me non lo avreste mai ottenuto, quindi…”
Quindi levati dalle palle.” – Knox afferrò per il bavero della camicia il compagno e lo scostò con violenza dalla refurtiva, inchiodandolo al muro.
 
Le labbra tremanti ed i suoi occhi sbarrati dallo sgradito cambiamento d’umore dell’altro fuggitivo offrirono a Knox un assaggio di paura differente: la paura di un amico, la paura del tradimento.
“Mi spiace, mein freund.” – sibilò Knox, stringendo un pugno – “Ma eravamo d’accordo: niente cambio di ripartizioni.”
E con quanta più forza possibile, affondò un pugno nello sterno del Tedesco, trapassandolo da parte a parte.
 
Un grido d’orrore si levò tra gli ostaggi.
 
Knox lasciò accasciare al suolo il corpo morto, estraendo la mano dai polmoni.
Con una smorfia di disgusto, scacciò via qualche goccia di sangue dalle dita grondanti:
Puah, che schifo!”
 
“Oh-oh.” – fece eco Flint, per poi mettersi a sghignazzare divertito.
 
Aspetta, ma che diavolo fai?!” – una voce potente e virile lo riprese.
Un uomo grassottello e tatuato, dalla testa rasa ed il pizzetto nero, aveva gridato alle sue spalle.
 
Jesse Murphy: nato a Las Vegas, ha una sorella minore morta da anni; soggetto evoluto con l’abilità della Manipolazione Acustica; catturato dall’Impresa da un anno e contenuto fino a due giorni prima nel Livello-5.
Un tipo poco raccomandabile, se fosse davvero lui.
Era un po’ che se ne era accorto: quel corpo muscoloso, quella voce impostata, quelle persone che continuavano a ripetere di essere i suoi ‘compagni d’avventura’, i suoi fidati collaboratori.
Invano ha urlato per ore, nella reclusione, di rispondere al nome di ‘Peter Petrelli’, ma chi crederebbe ad un pluri-omicida che vorrebbe passare per il fratello del Governatore?
Ma dentro di sé conosceva la verità; era successo per caso, un paio di giorni prima:
Era il giorno del discorso del Senatore Petrelli; Peter era lì, al fianco di suo fratello, poteva sentire l’angoscia di Nathan fluirgli nelle sue stesse vene.
Avrebbero rivelato la loro identità al Mondo, credevano non ci fosse altro da fare.
Ma poi era successo: uno sparo, venuto da chissàdove, colpì il Senatore; urla confuse dei giornalisti e Matt Parkman che si precipita all’inseguimento del terrorista senza volto.
E poi lui, nl tentativo di fermare l’emorragia alla spalla del fratello…semplicemente, sviene.
Sviene e si ritrova a fissare il muro bianco e freddo di una cella contenitiva per super-criminali.
 
Con quella fastidiosa voce estranea a sé stesso, Peter/Jesse avanzò verso il presunto correo:
“S-Sei impazzito?! Lo hai ucciso!”
“Oh, avanti, Jesse!” – Knox sbuffò come un bambino a cui la mamma sequestra un gioco – “Non mi dirai che te la sei presa! Ti era sempre stato sulle scatole e ora non c’è più! Almeno ora siamo solo tre a dividerci la grana…”
 
‘Lo aveva sempre avuto sulle scatole.’
Peter non sapeva nemmeno che esistesse un Elettromagnetico, figurarsi se poteva anche solo provare qualche sentimento verso il Tedesco.
Ma quel Jesse forse sì; improvvisò come poté:
“Oh, beh…certo, però…cavolo, era un compagno!”
 
Non aveva idea di quello che poteva fare, non aveva idea di cosa dire: era un criminale agli occhi di tutti, in fin dei conti. Se si fosse ribellato sarebbe peggio per lui: doveva dissimulare e farli desistere da quella situazione.
 
“Senti: è un brutto guaio, questo, ok?” – poggiò le mani sulle spalle di Knox, stentando una parvenza di autocontrollo – “Siamo appena usciti di prigione! Vuoi rischiare così tanto, appena evaso? Quelli dell’Impresa ci hanno fatto il culo una volta e possono rifarcelo. Probabilmente ci stanno già cercando!”
L’altro rimaneva in ascolto; Peter sperò che tentare di farlo ragionare facesse effetto:
“Lasciamo perdere…andiamocene! Che ce ne frega di quegli spiccioli? Non è neanche il massimo che una banca può darci! Pensa al futuro: potremmo sparire per un po’, ricominciare una nuova vita….più onesta, più sicura!”
 
Knox avvertì un brivido lungo schiena: Jesse aveva paura; una fifa nera.
Sorrise quasi commosso:
“Già…e magari tornare dai nostri vecchi amici. Come i tuoi, in Canda.”
“Esatto!” – macchè ‘esatto’, Peter non sapeva un accidenti di Murphy; sperò di avere fatto la mossa giusta.
E invece…
“Peccato che Jesse non ha amici in Canada.” – proruppe a freddo Knox.
 
Ops.
 
Il ragazzo afro-americano gli sferrò un pugno che gli fece voltare la testa di tre quarti e volare ad un paio di metri.
Gli si avvicinò a passi svelti e lo strattonò per un braccio, con gli occhi furenti:
“Stai tremando come una foglia e quindi hai paura! E Jesse non-ha-mai-paura! Tu non sei lui! Chi accidenti sei?!”
Peter fece per replicare, quando…
 
Fermi tutti! Mani in alto e state giù!”
Spalancando la porta di accesso con un calcio, Noah Bennet fece irruzione.
Teneva la guardia alta, pistola puntata fermamente; ci sapeva nel suo lavoro.
 
“Ma guarda chi si vede…!” – esclamò Knox, per nulla sorpreso.
“No, caro H.R.G.” – Flint Gordon lo avvicinò, con le mani fiammeggianti – “Tu stai fermo!”
E vomitò una lingua di fuoco blu dal palmo destro.
 
Noah indietreggiò, ma la vampata gli ustionò di striscio le mani.
Con un gemito lasciò cadere la pistola.
 
“Da quanto volevo dirlo…!” – sorrise il Fobofilo – “Fallo arrosto, Flint.”
“Con piacere!” – e caricò un’intensa vampa turchese tra le mani.
 
“NOOO!!!” – gridò disperatamente il corpo di Jesse Murphy.
Le sue corde vocali vibrarono ad una potenza inaudita; il grido superò ogni altro rumore in un intero isolato, mentre perfino l’aria si distorceva in anelli di onde sonore.
Peter non aveva idea di come ci fosse riuscito: doveva trattarsi di un potere posseduto da quell’uomo, non certo uno già appreso. Semplicemente aveva sentito l’adrenalina e la paura salirgli alle Stelle e rigettarla tutta in quell’urlo.
 
Noah Bennet, Knox e Gordon vennero sbalzati contro le pareti, ma non le toccarono.
Piuttosto, tutto si immobilizzò alla perfezione.
 
In quel tempo alterato, una figura nera e slanciata si proiettò dal nulla.
Avanzò con decisione verso Jesse e gli impose un palmo sullo sterno, quindi spinse con forza ed il suo braccio parve oltrepassarlo come una nebbia.
Nella spinta, il corpo di Peter Petrelli si dissociò dall’ospite, venendo catapultato fuori.
Barcollò incerto, mentre la sua prima reazione istintiva fu di guardare le proprie mani.
Finalmente un corpo che gli si addicesse; non come quel tamarro tracagnotto.
Sollevò lo sguardo e, tra i presenti immobili nel Tempo e nello Spazio, vide sé stesso.
Ma un sé stesso diverso: un lungo cappotto nero; capelli tirati all’indietro; uno sguardo fiero e tagliente almeno quanto quell’arma che gli aveva inflitto una lunga cicatrice diagonale sul viso.
 
Ingoiò un groppo alla gola e balbettò incredulo:
“Tu sei…me?”
“A grandi linee.” – rispose l’alter ego, poggiandogli una mano sulla spalla – “Andiamo, tu ed io dobbiamo fare due chiacchiere. Anzi: direi…io e me.”
“Aspetta, do-…?!”
Non finì la frase che i loro corpi si smaterializzarono, perdendosi nello Spazio-Tempo.
 
Nel mentre, tutto tornò a scorrere regolarmente:
Il grido si estinse e gli uomini caddero a terra; Murphy riprese fiato, portando una mano alla nuca. Era affaticato e stordito ma si sentiva lucido: era di nuovo in sé.
Fece per lanciare un nuovo ruggito intimidatorio ma non tutto andò come sperato:
 
Con il fracasso di un’auto che si schianta contro un muro, la porta blindata d’accesso si scardinò dal pavimento, volando all’interno come spinta da una forza invisibile.
Una scheggia di vetro si staccò accidentalmente, piantandosi nella giugulare del Pirocinetico; Flint uggiolò senza fiato, accasciandosi al suolo mentre caldo sangue sgorgava dalla sua gola.
La porta si schiantò contro la parete opposta.
 
Tana per voi.” – scavalcando un tumulo di piccoli detriti, un giovane uomo in completo nero fece il suo ingresso; il braccio destro proteso in avanti.
 
Jesse portò lo sguardò dal cadavere dell’amico al nuovo arrivato, boccheggiando:
“T-tu sei…Sylar! Che cazzo ci fai qui, lurido str-…mhnghf!”
Le sue labbra si serrarono di scatto, contro la sua volontà.
 
“Non sopporto sentire tante parolacce in una sola frase.” – sibilò in un soffio, stringendo più forte il pugno che chiudeva le mascelle del criminale.
 
Noah Bennet guardò con un misto di terrore e speranza Gabriel Gray; lo aveva salvato, certo, ma ora era lì davanti, a pochi passi da lui.
E non era il posto in cui sarebbe dovuto essere:
“Ti avevo detto di aspettarmi fuori! Non saresti dovuto entrare!”
 
“Forse me lo hai detto perché speravi che sarei corso in tuo aiuto.” – si limitò a ribattere lui; poi gli lanciò un’occhiata allusiva – “Sei ferito, esci e avverti la polizia. Qui ci penso io.”
 
In un altro momento, Bennet lo avrebbe preso per i capelli e lo avrebbe massacrato solo per il fatto di avergli imposto un comando, ma in quel momento dovette ammettere che l’Uomo Nero aveva ragione.
Si alzò in tutta fretta ed uscì dalla banca, riparandosi dietro una vetrata.
 
Nello scompiglio generale, Knox era sparito.
 
Ma a Sylar questo non importava: aveva visto ciò di cui era capace l’uomo la cui vita ora era letteralmente nelle sue mani ed un istinto primordiale e sottile si era insinuato sotto la sua pelle.
Manipolazione Acustica?– si disse – Interessante.
Era successo di nuovo, come Dr.Jekyll e Mr.Hyde: quella fame, quel senso di nausea e di desiderio inappagato che gli faceva venire la pelle d’oca al solo pensiero.
Fu più forte di lui:
Mosse rapidamente il braccio ed il corpo di Jesse Murphy venne scagliato contro la vetrata principale rinforzata, rimanendo ancorato con chiodi invisibili.
Gli si avvicinò lentamente, senza mai perdere il contatto visivo.
I suoi occhi scuri che affondavano e penetravano come lame nell’animo dell’altro; quegli occhi feroci e fissi che raggelavano il sangue, ben diversi dallo sguardo colmo di disperazione del malcapitato.
 
Ora era vicinissimo, poteva quasi sentire il respiro affannoso del Sonoro sul suo viso; lo fissava atterrito, implorandolo in silenzio.
Quasi involontariamente, Sylar si inumidì le labbra.
Un gesto impercettibile, velocissimo…che gettò del panico la sua preda, come il gatto col topo.
Aveva così tanta fame che ne sarebbe potuto morire, doveva soddisfarla ad ogni costo.
Eppure c’era andato così vicino…! Il cambiamento, la ‘Redenzione’…gli sembrava che quel suo incarico rappresentasse il primo importante passo per l’assoluzione di un’anima che lui stesso stentava a riconoscere.
Ma si era perso, di nuovo.
Quella maledetta fame non si sarebbe placata da un giorno all’altro; era peggio di una droga.
 
Notò lo sguardo colmo d’ansia di Bennet, oltre i vetri; scuoteva la testa, lo supplicava di trattenersi.
Forse anche il suo carceriere voleva credere in lui, quantomeno per disperazione.
E faceva male.
“Mi dispiace, Noah. Ti deludo sempre.” – mormorò, mentre puntava il dito indice contro la fronte del sua prossima vittima.
 
Era come se le coscienze di Sylar e Gabriel Gray stessero facendo sonoramente a pugni dentro di lui ed il primo se la stava cavando alla grande.
Se una parte del suo animo moriva dalla voglia di porre fine all’esistenza di Jesse Murphy, un’altra avrebbe quasi voluto mettersi a piangere per la propria debolezza…ma non ne ebbe la forza.
 
“Temo tu abbia ragione: io non posso cambiare.”
Mosse rapidamente l’indice.
Uno schizzo di sangue scarlatto disegnò un arco rosso grondante sulla parete a vetro.
 
Jesse Murphy: ID-90534211; ricercato per omicidio plurimo.
Abilità: Manipolazione Acustica.
 
Caso chiuso.
 
 
*   *   *
 
 
Ore 16:00. ‘Costa High’. Costa Verde, California.
 
Sbuffando contrariata all’idea dell’ennesima ora di (non) recupero in Matematica, Claire si sedette ad uno dei tavolini dell’aula 3-B.
 
Diede un’occhiata in giro: la classe si era scomposta in cinque o sei banchi, ad ognuno dei quali sedeva uno studente del recupero ed un’altra con una media quantomeno presentabile che potesse aiutarlo a recuperare.
C’erano praticamente solo ragazze come alunne di sostegno, notò Claire.
 
Sessione con tutor.’ – il nuovo fantastico titolo inventato dal solito prof. allampanato per la giornata odierna – ‘Accomodante e stimolante.’
 
“Già…!” – borbottò la Cheerleader, facendo sprofondare le tempie nelle mani – “Stimolante come un dito nel…”
 
“Ciao.” – una cortese voce di ragazzo le impedì di formulare per intero il suo elegante pensiero.
 
Sollevò appena lo sguardo, sotto una ciocca di capelli biondi:
Doveva essere un ragazzo della sua stessa età, ma di chissà quale sezione dato che non lo aveva mai visto.
Aveva i capelli di un biondo cenere alquanto anonimo, ma la vertigine a destra che assumevano sulla fronte e che svettava verso l’alto come una spirale gli davano un tocco di originalità; viso rotondo e accogliente, occhietti scuri malinconici nonostante la gentilezza; una maglietta blu con su scritto ‘STAY TUNED’.
Le sorrideva garbatamente, provando a fare capolino con lo sguardo sotto la criniera da leonessa che le era cascata sul viso.
 
“Ciao…” – ripeté lei senza troppo entusiasmo.
Il ragazzo tirò fuori un pezzetto di carta, aggrottò un po’ la fronte nel leggerlo e chiese:
“Tu sei…Claire Bennet, giusto?”
“Centro.” – annuì lei.
Le tese una mano, sorridente:
“Piacere, io sono Zhane: il tuo tutor.”
Invece che ricambiare il gesto, Claire lo guardò dal basso in alto, poco convinta:
“Zhane…e poi cosa?”
Lui sembrò non afferrare, scuotendo la testa e arricciando la bocca in un sorriso confuso:
“Ehm…quanti altri nomi dovrei avere?”
“Un cognome, ad esempio?”
Zhane si colpì la fronte con il palmo della mano, in un gesto che a Claire parve piuttosto ridicolo:
“Oh, giusto, ha ragione! Cross. Zhane Cross.”
E agitò una collanina a forma di croce che portava al collo: “Come questa, così te lo ricordi.”
 
Dopodiché si sedette dall’altra parte del banco, poggiando pesantemente un paio di libri d’algebra:
“Direi di cominciare; prima finiamo e meglio è.”
“Sei praticamente l’unico tutor maschio, qui dentro.” – disse Claire, buttandola sul vago – “Non sapevo che anche i ragazzi fosse bravi a matematica.”
“Più di quanto pensi.” – rispose semplicemente lui, prendendo carta e penna ed iniziando ad impostare una qualche forma di equazione. – “Prova questa: qualcosa di facile.”
Per nulla eccitata dal doversi rapportare più del dovuto con qualcuno, e per giunta durante l’ora di Matematica, Claire decise di mettere in chiaro le cose:
“Senti, scusa se sembro menefreghista, ma non ho proprio voglia di fare quel genere di roba. Non ho davvero bisogno di recuperare nulla, è solo che non ho molta voglia di impegnarmi quando mi trovo davanti un test, quindi…”
“Senti, Bennet.” – la interruppe lui, inarcando un sopracciglio con improvvisa serietà –“Il professor McCallister mi ha incaricato di seguirti per quest’ora e se proprio vuoi saperlo non ho nemmeno tanta voglia: mi sto perdendo l’ultima di ‘Soul Eater’, quindi o mi senti e mi dai retta o ti picchio.”
Lei strabuzzò gli occhi come se le avessero annunciato di essere nuda, ma poi le venne da sorridere; nessuno le aveva mai detto nulla del genere e mai con quell’espressione che tutto presagiva meno che violenza.
Quel ragazzo non era poi tanto male, ma Claire Bennet non era tipo da abbassare la testa, così gli strappò la penna di mano e si mise all’opera.
Ci stette su un paio di minuti e poi la completò velocemente; fissò Zhane con l’aria soddisfatta di chi la sa lunga.
Lui piegò la testa di lato, come a dire “non male, ma ora sta’ a vedere” e gliene impostò una seconda.
Era spaventosamente lunga: un’accozzaglia di operatori logici e caratteri greci il cui senso forse sarebbe stato opportuno fare interpretare a qualche extraterrestre.
Claire non si pose nemmeno il dubbio se quella specie di bestemmia grafica fosse davvero risolvibile o fosse pura scena, ma si limitò ad inorridire:
“Ehi, calmo! Sono bravina, ma mica un genio!”
 
Lui scoppiò a ridere, tirandosi indietro sulla sedia.
Era bella quella risata: non sardonica, né strafottente, semplicemente…rideva.
La Cheerleader non rideva molto e quando lo faceva raramente si sentiva in linea con il gesto. Quel sorriso la riempì di allegria.
Zhane scosse la testa divertito e la guardò quasi con compassione:
“Ok, ho capito. Avanti, andiamo per gradi…”
 
E si rimisero chini sulle pagine di quei libri malridotti.
 
 
*   *   *
 
 
Un’ora dopo. Cortile.
 
Il Sole, ormai sul ciglio del tramonto, accolse i pochi studenti del corso di recupero abbandonare l’Istituto.
 
Claire scese le scale del portone principale, salutando con un cenno del capo la madre che in lontananza la attendeva in macchina.
Da quando si erano trasferiti, con tutte le psicosi di Noah Bennet come capofamiglia (e soprattutto da quando, pochi mesi prima, si era fatta fregare il SUV), Claire non poteva praticamente muoversi da sola.
Se non c’era lui, mamma Bennet scattava.
Ma prima che potesse raggiungerla…
 
“Aspetta, Claire!” – la voce di Zhane la raggiunse alle spalle.
Il ragazzo si avvicinò in tutta fretta, mentre ancora tentava di chiudere la tracolla piena zeppa di libri.
“Che non ti è piaciuta la lezione l’ho capito, ma volevo almeno salutarti! Guarda che ci aspettano diverse giornate, come questa, se vuoi passare l’anno…”
“Mio Dio, come farò?!” – lei allargò le braccia in modo teatrale, fingendo un qualche rammarico – “La tua presenza sarà la parte peggiore!”
Lui mise il broncio, offeso, ma lo abbandonò quando anche lei si mise a ridere come aveva fatto poco prima.
 
Era simpatico, ma non sembrava capire gli scherzi altrui.
 
Arricciando le labbra come se fosse indeciso se rivelare un segreto o meno, chiese:
“Mhmm…senti, ti dispiacerebbe se ti chiedessi una cosa?”
“Spara.”
“Il…il tuo numero di telefono.” – dovette ingoiare un groppo amaro, per vomitare quella frase – “Voglio dire: solo se avessi bisogno di aiuto con i compiti, s’intende…”
Lei lo squadrò da capo a piedi, mentre un angolo della sua bocca s’incurvava in un sorriso sornione:
“Oh, certo. Non è che ci stai provando?”
“Cosa?!” – arrossì come un semaforo – “No! Volevo solo…”
“Avanti, sputa il rospo: che avevi intenzione di fare, stasera?”
 
Lo aveva colto in pieno: a Zhane Cross non importava nulla di spiegarle altri numeri né tantomeno aveva la faccia di un molestatore.
Era solo un modo educato per chiederle di chiamarlo, per passare tempo.
Forse non era un’Empatica e di certo la Rigenerazione non era l’abilità più adatta per capire le persone, ma Claire Bennet se la cavava bene ad interpretare i sottointesi.
 
Lui prese un bel respiro, un po’ confuso da quella affermazione, e poi rispose:
“Beh, dicono che ci sia una pioggia di meteoriti molto vicini all’America e mi chiedevo se volessi stare un po’ al telefono mentre guardiamo le Stelle, stanotte.”
 
Certo che ne aveva voglia, era una vita che non riusciva ad intrattenere una chiacchierata telefonica tra amiche come tute le teenager del mondo!
Ok, forse lui non era un’amica…ma pur sempre un tipo socievole.
 
Senza dar troppo spago al gioco, Claire concluse:
“Ci penserò…”
E se ne andò cinguettante, lasciandolo a sé stesso.
 
Quando raggiunse sua madre, Sandra fissò prima il ragazzo e poi sua figlia, chiedendo con un mezzo sorriso:
“E lui chi è?”
Salendo sul sedile anteriore di destra, Claire rispose:
“Il mio nuovo insegnante privato.”
 
 
*   *   *
 
 
Ore 20:40. Ufficio presidenziale. PRIMATECH corp. Odessa, Texas.
 
“Questo è il rapporto sulla missione di oggi.” – senza molta cortesia, Noah Bennet sbatté sulla scrivania di Angela Petrelli un fascicolo di fogli – “Valuta tu.”
 
Arricciando le labbra con disappunto, lesse il rapporto e commentò:
“Tre morti su quattro e Knox è fuggito. Diciamo che non era proprio ciò che mi aspettavo, ma il caso è chiuso. Possiamo ritenerci soddisfatti.”
 
“Neanche per sogno!” – protestò l’uomo – “Non sono pagato per andare in giro a scoperchiare il cranio alla gente! Noi i criminali li catturiamo, non gli facciamo lo scalpo!”
E le diede beatamente le spalle, oltrepassando il divano sui cui Gabriel si era accomodato in modo non proprio composto.
Indicandolo con un gesto scocciato della mano, bofonchiò sbrigativo:
“Perché non ti complimenti per l’eccellente lavoro svolto con il tuo presunto terzo figlio?! Io faccio una telefonata: Claire vorrà sapere come sto…”
 
“Salutala anche da parte mia…” – gli suggerì da dietro Sylar.
 
Piuttosto inghiotto il telefono.” – ed uscì dalla stanza.
 
Angela si alzò dalla sua poltrona girevole e si avvicinò a Gabriel, che si mise in piedi quasi meccanicamente.
Era decisamente più alto ed impostato di lei, ma il modo in cui Mrs.Petrelli guardava la gente spegneva ogni contrasto.
Per quanto non volesse ammetterlo, Gabriel si sentiva ragionevolmente colpevole di ciò che era successo; non sostenne lo sguardo della donna:
“Forse ha ragione lui. Forse dovrei starmene chiuso al fresco.”
“Questo non è necessario.” – il modo con cui Angela gli rispose gli fece accapponare la pelle.
 
Per lei la sua condizione non era ‘giusta’ o ‘sbagliata’; si trattava solo di una questione di utilità.
Non molto materno come atteggiamento, ma in fondo meglio così: nonostante la maschera che fingeva di indossare, lui rimaneva sempre Sylar.
E ad uno come Sylar i contatti stretti e gli affetti sono solo d’intralcio: rendono meno lucidi e fanno ancora più male quando si spezzano…a causa propria.
 
“Allora vedo più necessario che mi allontani.” – riprese lui – “Non mi sento a mio agio, qui. Ho bisogno di solitudine e di un posto tranquillo dove riordinare le idee a fine giornata.”
“Ti comprendo perfettamente. Non preoccuparti: avevo già provveduto ad una sistemazione adatta…”
E tirò fuori dalla tasca un mazzo di tre chiavi:
“Sono un fuoristrada di servizio ed una dépendance: è un po’ fuori mano, ma farà al caso tuo.”
 
Lui la fissò a lungo e si morse un labbro:
“Potresti esserti sbagliata sul mio conto…mamma.”
 
Lei sorrise ancora con quella smorfia ambigua:
Staremo a vedere…
 
 
*   *   *
 
 
Ore 22:00. Casa ‘Bennet’. Costa Verde, California.
 
Con un tonfo attutito dalle soffici coperte, Claire si gettò sul suo letto.
Afferrò il cordless sulla sua scrivania, compose il numero di Zhane – badando bene a registrarsi come ‘numero privato’ – ed aprì la finestra sulla testa del letto.
Rabbrividì un po’ nel suo pigiama di raso leggero e rimase in attesa con la cornetta.
 
Squillò un po’ e poi:
Pronto? Chi è?” – chiese la voce di Zhane, dall’altro capo del telefono.
Senza presentarsi, Claire iniziò a sparlare:
“Credo di avere un impellente dubbio matematico: esiste una formula abbastanza semplice da far capire anche a me quante sono le Stelle?”
Bennet…” – la voce del ragazzo si spense quasi infastidita, anche se segretamente felice.
“Ciao, Cross.” – Claire adorava chiamare per cognome la gente, per gabbarla.
Spero tu mi consideri un amico, non una calcolatrice!
“Perché, non lo sei?”
No. E alle calcolatrici non piace aspettare le Stelle Cadenti.” – poi aggiunse con un flebile sospiro, timidamente – “Ma a me sì.
 
Claire si rotolò sul letto, rivolgendo a testa in giù un occhiata al cielo.
Quel meraviglioso, nero, scintillante cielo notturno.
“Mhmm…e va bene, calcolatrice. Per stasera ti faccio compagnia.”
Grazie.”
Quel ‘grazie’ aveva dentro un calore che solo un uomo circondato dalla solitudine poteva possedere.
Quando si è sempre soli il calore non si trasmette, ma resta dentro di noi in attesa della persona giusta sui cui riversarsi.
 
Rimasero a chiacchiere a lungo, del più e del meno.
Nessuno dei due sapeva da dire da quanto, ma erano rimasti sempre con gli occhi puntati verso quei lumicini argentati nel manto di velluto nero.
Poi, d’un tratto, una scia di luce illuminò lo Spazio…
 
Era lunga e frastagliata, di un bagliore azzurro accecante che si schiariva fino ad una lattescenza soffusa sulla punta, brillando come nient’altro al Mondo.
Due scie più piccole si allungavano come code dalla sommità e sembravano avvolgersi lungo la scia in due spirali.
Doveva essere a poco meno di un centinaio di chilometri dalla superficie terrestre, mentre entrava nell’Atmosfera.
Se il Paradiso esisteva, allora doveva essere racchiuso in quella scia.
 
La voce di Zhane fece vibrare la cornetta e i timpani di Claire:
“L’hai vista?! E’ passata proprio sopra Costa Verde! Era…era immensa!”
“E’ meravigliosa…” – mormorò Claire, continuando a tenere gli occhi al cielo.
 
Anche se era passata in un batter d’occhio, quel chiarore invadeva ancora il Cosmo, come un’aurora.
Sapeva che esprimere desideri non avesse molto senso, a quell’età…ma quella Cometa era stata talmente sconvolgente, talmente grandiosa, che se ne meritava almeno uno.
Vorrei…non so cosa vorrei. – pensò tra sé – Forse, semplicemente…essere felice.
 
Zhane parlò tra sé, ma le sue parole gli sfuggirono comunque dalle labbra, lievi:
“Qualunque cosa tu abbia desiderato, Claire…vorrei che si avverasse.”
 
 
*   *   *
 
 
Ore 24:00 P.M. Periferia di Odessa, Texas.
 
Silenziosamente, Gabriel Gray risaliva il pendìo del colle che dava le spalle ad Odessa, illuminata da migliaia di finestre e fanalini colorati.
 
Mani in tasca e soprabito nero stretto fino al collo, nonostante in piena primavera, affondava un passo alla volta nel terriccio soffice d’umidità.
Sollevò istintivamente gli occhi al mantello impreziosito di diamanti che faceva da sfondo a quella notte senza Luna.
 
Non aveva alcun pensiero, già da molto tempo.
Quello che faceva lo svuotava talmente dall’interno che, alla fine, di lui non restava altro che un involucro vuoto pieno di oscurità da dissipare e poche certezze, a parte che quella fame demoniaca un giorno si sarebbe mangiato lui stesso.
Sospirò rassegnato.
Rassegnazione: un sentimento non proprio comune, per l’Uomo dei Cervelli.
 
Poi la vide: l’accecante fiamma azzurra che squarciava le Tenebre e lo Spazio.
Che squarciò le sue Tenebre.
La freccia divina scagliata a migliaia di chilometri orari nel Cosmo e che divideva in due quel cielo malinconico, adornandolo di riverberi extra-galattici.
Una Stella Cadente più vicina delle altre, una Speranza non ancora estinta che forse voleva bussare alla porta – anzi: al cancello blindato in titanio anti-sfondamento – del suo Cuore.
Non espresse alcun desiderio, non ne aveva in mente e comunque era troppo spaventato per farlo; quel meteorite avvolto da vampe soprannaturali calò improvvisamente di quota, fino a poche centinaia di metri.
Stava per precipitare e lo stava per fare in quella zona.
 
Dentro di sé, Gray sperò che la Rigenerazione potesse supplire a quella poltiglia in cui si sarebbe ridotto se fosse rimasto schiacciato da un asteroide di piccole dimensioni, ma non ce ne fu bisogno:
Con un rombo assordante ed un catastrofico movimento sismico, la Cometa ‘BlackLight’ virò rotta e si schiantò un centinaio di metri più in alto dalla sua posizione.
 
Con i polmoni che inghiottivano enormi quantità d’aria e la rigettavano in preda all’iper-ventilazione, Sylar salì rapidamente i metri che lo distanziavano da quell’evento incredibile.
Quando arrivò sul luogo dell’impatto, la sua fredda mente razionale faticò a credere alle immagini che le arrivavano:
 
In mezzo ad un pandemonio di grossi frammenti meteorici incandescenti, si apriva una grande voragine di terreno sfondato.
Archi elettrici bluastri baluginavano tra le pietre spaziali, come in una danza appena accennata ed instabile.
Una leggera luminescenza rossastra invadeva tutto: sembrava polvere di rubino, che luccicava e spirava scossa dalla brezza notturna.
E poi lui:
Al centro della voragine c’era un corpo; un ragazzo, riverso sullo stomaco, completamente nudo.
Non avrebbe saputo dirne l’età, ma non doveva avere più di diciotto o vent’anni al massimo.
Un braccio ed una gamba affondavano ancora nel suolo, mentre la sua testa giaceva sulla terra, come se stesse riposando.
Era completamente avvolto da quella polverina luminescente.
 
Per quanto la stessa esistenza di individui speciali come Gabriel Gray fosse impensabile, quest’ultimo non poté fare a meno di socchiudere la bocca in un moto di totale stordimento:
Non era solo un fatto curioso, né un evento scientifico di particolare rilevanza.
Era un miracolo.
 
Fissando quel giovane che pareva dormire cullato da intere Galassie, non poté fare a meno di ripensare al desiderio che il suo subconscio aveva forse espresso al passaggio di ‘BlackLight’.
 
Per la prima volta da moltissimo tempo, un angolo della sua bocca si incurvò in un piccolissimo sorriso, carico di una sofferenza troppo profonda da poter essere concepita dal suo stesso animo.
Pronunciò quella frase come una carezza strappata dall’infanzia:
 
 

Tanti auguri…Gabe.”

  
  

 

CONTINUA…

 
 

Nel prossimo capitolo - ‘Awakening’:
 
La vita di Nathan Petrelli deve riprendere, in un modo o nell’altro, e per farlo potrebbe dover prendere in considerazione scelte insperate, velate da un Passato pronto a tornare...mentre Peter si ritroverà a vivere brevi squarci di un Futuro da impedire.
Intanto, Hiro Nakamura e Matt Parkman devono comprendere il motivo che ha intrecciato le loro strade, attraversate da una giovane donna che sembra poter correre più veloce del Tempo.
Claire Bennet dovrà imparare cosa significa tornare a fidarsi di qualcuno e intanto Gabriel Gray sembra voler abbandonare ‘Sylar’, al risveglio del misterioso ‘Star Child’…

 

   
 
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