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Autore: May_Z    12/09/2012    3 recensioni
Una serie di coincidenze, due strade che si uniscono, due vite che cambiano. Un passato stanco di restare nascosto, un presente da scoprire, un futuro che si fa sempre più incerto. Ombre nascoste in un cassetto, melodie canticchiate sottovoce, una porta che si apre per la persona sbagliata. Carte da gioco sparse sul letto, risate inaspettate, il sedile condiviso di un taxi. Profumo di caffè, gocce di pioggia fra i capelli, l'odore penetrante del fumo di un sigaro. E poi loro, un ragazzo e una ragazza. Hayden e Claire. E la loro storia.
Prima classificata al contest "Un giorno lo incontrerai (Originale Romantico)" indetto da MedusaNoir
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Nome (su Efp e sul forum): May_Z
Titolo: Roxanne
Genere: Romantico
Rating: Arancione
Avvertimenti: //
Introduzione: Una serie di coincidenze, due strade che si uniscono, due vite che cambiano. Un passato stanco di restare nascosto, un presente da scoprire, un futuro che si fa sempre più incerto. Ombre nascoste in un cassetto, melodie canticchiate sottovoce, una porta che si apre per la persona sbagliata. Carte da gioco sparse sul letto, risate inaspettate, il sedile condiviso di un taxi. Profumo di caffè, gocce di pioggia fra i capelli, l'odore penetrante del fumo di un sigaro. E poi loro, un ragazzo e una ragazza. Hayden e Claire. E la loro storia.
Note iniziali: La storia, inizialmente, era stata concepita come One-Shot; scrivendo, però, si è allungata a dismisura e penso che una One-Shot di un tal numero di pagine sia piuttosto “scoraggiante”. Per questo motivo ho deciso di suddividerla in tre parti.
Inoltre ci tengo ad avvisare che gli avvenimenti narrati non seguono l'ordine cronologico quindi bisogna fare un po' attenzione alle date segnalate.
Per il resto ci vediamo sotto!

 

 

 

 

 


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13 Aprile 2010, ore 22.12
Upper East Side, Manhattan

 

La notte avanzava prepotente, trascinando con sé tutto ciò che rimaneva della giornata ormai passata: il ticchettio dei tacchi a spillo sul selciato del marciapiede, l’odore penetrante di bagel alla cipolla, il tripudio di colori in movimento che attraversavano le strisce pedonali... tutto era andato scemando, lasciando spazio a quel silenzio che appariva così innaturale nella città che non dorme mai.

La giovane donna poggiava i gomiti sulla balaustra di ferro battuto del balcone e teneva tra le dita pallide una sottile sigaretta, sentendosi grata per l'oscurità che l’avvolgeva nella tranquillità di quell'undicesimo piano e che la nascondeva agli occhi di un mondo che, con ogni probabilità, l'avrebbe solamente giudicata – indovinando la verità, magari.
Nonostante tutto, non era per se stessa e per la propria reputazione che si preoccupava. Era giunta a New York all'età di sedici anni, con un forte accento del Tennessee e un cappello da cowboy in testa: l'avevano chiamata campagnola, le avevano detto che puzzava di sterco di vacca e che la danza country era un ballo da animali; così aveva ben presto imparato a badare a se stessa e a non preoccuparsi di ciò che la gente pensava di lei – perché, in fondo, quello era solo un problema loro. Già, non le importava cosa pensasse la gente, ma da ragazza sveglia qual era comprendeva perfettamente che in determinate situazioni è preferibile passare inosservati.
Un rumore secco, giù in strada, la riscosse improvvisamente dai suoi pensieri; non le era necessario sporgersi al di là della balaustra per intuire la fonte di quel rumore e, come riconosceva perfettamente l'entità di quel suono, comprendeva anche che i suoi istanti da trascorrere in solitudine erano ormai giunti agli sgoccioli.
Non appena sentì il motore del taxi riavviarsi, la giovane donna spense la sigaretta sulla ringhiera e la gettò nel vuoto, osservandola volteggiare nell'aria sino a che non scomparì completamente dalla sua vista.

 

 

 

24 Ottobre 2007, ore 08.47
Brooklyn

 

Claire, cercando allo stesso tempo di reggere l'ombrello e di tenere chiuso il collo dell'ormai vecchio trench beige che aveva deciso di indossare quella mattina, si avvicinò al bordo del marciapiede e sollevò la mano sinistra in direzione della strada, tentando di richiamare l'attenzione di uno dei tanti taxi di passaggio – come un'altra ventina di persone stava facendo a pochi passi da lei.
In una qualsiasi altra giornata, Claire avrebbe preso la metropolitana alla stazione di Fulton St., un’alternativa più comoda e assai meno costosa di quelle maledette macchine gialle. Ma quella mattina la stazione di Fulton era chiusa per manutenzione causa guasto improvviso alle tubature e il ritardo dovuto all’impossibilità di prendere il metrò si era andato ad aggiungere fatalmente a quello causato dalla sveglia che, per un dispetto nei suoi confronti, non ne aveva voluto saperne, di suonare puntuale. Certo, avrebbe potuto camminare fino alla caffetteria… ma si sa, le disgrazie non arrivano mai da sole e, a conferma di ciò, il cielo aveva deciso di rovesciare sulla città un esagerato quantitativo di pioggia pochi minuti prima che lei mettesse piede fuori di casa. E quindi era lì, fradicia fino al midollo, visibilmente irritata e, soprattutto, in ritardo.

«Taxi!». Una voce, più profonda e decisa, si sovrappose alla sua e una figura avvolta in un elegante cappotto grigio scuro si frappose fra lei e il taxi che si stava accostando al marciapiede.
«Scusi,» disse Claire allo sconosciuto «il taxi, l’ho visto prima io».
«Non mi sembra, signorina. Non vede che ci sono io davanti a lei?».
«Che cosa?» domandò la ragazza, incredula. «Senta, sono fradicia, infreddolita, in ritardo, e sto aspettando da dieci minuti buoni. Lei è asciutto, tranquillo, sorridente ed è appena arrivato. Sia un gentiluomo e mi faccia passare».
«Ah, fradicia e infreddolita… Ecco, infatti mi stavo chiedendo se il suo cappotto tremasse in quel modo tutti i giorni».
«Che co-».
«Senta,» la interruppe l’uomo «il tassista si sta innervosendo: che dice se dividiamo il taxi?».
Claire lanciò una rapida occhiata all’orologio e sbiancò: era tardissimo; non aveva intenzione di dividere il taxi con quell’uomo, ma se avesse perso ancora tempo con quell’inutile discussione era più che certo che Julie l’avrebbe scuoiata viva.
«D’accordo» rispose Claire, sbuffando sonoramente. «D’accordo».
«Dopo di lei» disse il gentiluomo, tenendole aperto lo sportello dell’auto e regalandole un sorriso che lei, prontamente, ignorò.
Claire chiuse l’ombrello e si lasciò cadere sul sedile di pelle scura, posando ancora una volta lo sguardo sulle lancette che si muovevano imperterrite. Mai, da quando era stata assunta alla caffetteria – ovvero due anni, sette mesi e sei giorni prima –, Claire era arrivata in ritardo al lavoro: quel posto era stato un miracolo e per nessun motivo avrebbe rischiato di esserne privata.
«Chi porto per primo, signori?» chiese l'autista, voltandosi appena.
«Me!» rispose subito Claire, il tono di voce qualche decibel sopra la norma.
L'autista la guardò storto per un istante; poi scrollò le spalle e avviò il taxi, dirigendosi all'indirizzo che lei gli aveva appena urlato all'orecchio.
«Lo sa, vero, che gli esseri umani non percepiscono gli ultrasuoni?» intervenne il suo improbabile compagno di viaggio, lanciandole uno sguardo divertito.
Claire lo osservò e, con sorpresa, notò che il suo aspetto reale non assomigliava affatto a quello che si era creata nella sua mente frettolosa e insofferente: era un ragazzo di ventitré, ventiquattro anni al massimo – esattamente come lei, quindi –, con corti capelli biondi e un irritante sorriso sghembo stampato sul viso magro.
«Senta, evitiamo ti fare della facile ironia. Sono in ritardo» – quante volte l'aveva già detto? – «e non ho tempo da perdere con inutili battute».
«Ah, il tempo…» commentò lo sconosciuto, con aria melodrammatica e senza smettere di sorridere «a tutti sembra scorra troppo velocemente. Ma il tempo va diversamente a seconda della persona: si potrebbe dire con chi va al passo, con chi va al trotto, con chi va al galoppo, e con chi sta fermo»[1].
«Shakespeare. Notevole. Sta tentando di fare colpo su di me?» replicò la ragazza, inarcando un sopracciglio.
Claire non capiva cosa le stesse succedendo: solitamente era una ragazza tranquilla e gentile, priva di quel pizzico di acidità nella voce e restia a rivolgere la parola a persone non meglio conosciute; non che non avesse mai avuto a che fare con uomini sconosciuti, intendiamoci, ma aveva imparato che a loro, spesso, non importava sentirla parlare.
Ma in quel momento poco le interessava: il taxi era ormai giunto alla caffetteria e, con ogni probabilità, non avrebbe mai più rivisto quel ragazzo.
Nonostante tutto, però, quello strano giovane era riuscito ad attirare la sua attenzione.
«Certo che no,» rispose lui, ridendo «ma non mi dica che non le piace Shakespeare».
«Mi piace molto, in realtà» ammise Claire, sentendosi improvvisamente più rilassata.
«Sa,» aggiunse rapido il ragazzo, come se non l’avesse nemmeno ascoltata «penso possiamo anche smettere di darci del Lei; in fondo la nostra età è più o meno la stessa... e non mi sembra siamo due sessantenni bigotti».
«Sì, ha... hai ragi-».
«Siamo arrivati, signorina» la interruppe l'autista, voltando la testa nella sua direzione.
Claire tirò fuori il portafoglio dall'inseparabile borsa extra-large e gli porse una parte del denaro indicato dal tassametro – il giovane seduto al suo fianco aveva insistito affinché lei pagasse solo la metà del dovuto. Dopodiché aprì lo sportello e scese velocemente dall'auto, borbottando un grazie e arrivederci piuttosto impersonale e generico.
Era già a pochi passi dalla porta a vetri del Coffee seeds quando un sonoro “Ehi!” la richiamò indietro.
«Non ci siamo presentati» disse il giovane, porgendole una mano. «Io sono Hayden, Hayden McGill».
Dopo un istante di perplessità, Claire si avvicinò e gli strinse brevemente la mano, riponendola subito dopo nella tasca della giacca.
«Piacere. Io sono Claire» rispose infine.
«Claire… ?».
«Claire e basta».
Il ragazzo, che ora sapeva chiamarsi Hayden, la fissò con un luccichio divertito negli occhi e, senza aggiungere altro, rientrò nel taxi e chiuse lo sportello; poi tirò giù il finestrino e si rivolse nuovamente alla ragazza che ancora stava lì in piedi, a pochi passi da lui e con un tremito nervoso alle mani che indicava la sua voglia di voltargli le spalle e raggiungere la caffetteria.
«È stato un piacere» disse. «A presto… Claire e basta».
Claire aprì la bocca per rispondere qualcosa – probabilmente che quel “presto” non sarebbe mai arrivato –, ma non ne ebbe la possibilità: il taxi era già ripartito, immettendosi nella frenesia di una giornata appena iniziata.

 

 

 

29 Ottobre 2007, ore 14.51
Coffee seeds”, Brooklyn

 

«Un caffè medio, uno grande con latte, un milk-shake alla fragola e due brownies al cioccolato al tavolo 4 e… Claire, c’è un giovanotto in fondo al bancone che chiede di te».
Claire spostò dietro l’orecchio una ciocca di capelli corvini sfuggita dalla coda di cavallo e sollevò lo sguardo dal regolare tremolio del frullatore.
«Un… chi?» chiese perplessa, annotando l’ordinazione sul foglio a quadretti di un taccuino.

«Là in fondo, seduto sull’ultimo sgabello… Ed è carino! Chi è? Il tuo ragazzo che ti fa una sorpresa?» aggiunse Julie, facendole l’occhiolino.
«Impossibile» borbottò Claire; poi svuotò il contenuto del frullatore in un bicchiere, vi infilò una cannuccia fucsia e si avviò in direzione del visitatore misterioso, sbuffando. Non aveva un ragazzo – il grado di affollamento della sua vita privata era tendente allo zero – e, di conseguenza, una sorpresa da parte di suddetta persona era da escludere; pochi erano i conoscenti, ancora meno gli amici – e nessuno così intimo da arrivare a farle un’improvvisata al lavoro. Sì, da un punto di vista prettamente sociale la sua vita poteva essere considerata un fallimento cosmico… ma almeno era felice – e non lo era stata per troppo tempo.
Alla vista del giovanotto che chiedeva di lei, Claire sgranò gli occhi. «Tu» borbottò, dopo un istante di stupita esitazione. «Che ci fai qui?».
Claire non poteva dire che la presenza di quel ragazzo la infastidisse – come accadeva con la stragrande maggioranza delle persone sconosciute – e, suo malgrado, dovette anche ammettere a se stessa che c'era qualcosa in lui di maledettamente intrigante; tuttavia era solo un illuso se aveva pensato che lei avrebbe fatto i salti di gioia nel vederlo lì, sul suo posto di lavoro. Non le piaceva essere interrotta mentre svolgeva il proprio dovere – ed era quello che lui aveva appena fatto.
«Anche per me è un piacere rivederti, Claire e basta» ribatté Hayden, con un'espressione dipinta sul viso che lasciava intendere di avere perfettamente intuito i pensieri della ragazza che ora, di fronte a lui, si puliva le mani sul grembiule bordeaux.
«Che ci fai qui?» ripeté Claire, tentando di apparire il più gentile possibile.
«Speravo potessimo prendere un caffè insieme».
Claire non poteva credere alle proprie orecchie; uno sconosciuto la stava invitando fuori per un appuntamento? Certo, non era una cosa ufficiale – come lo sarebbe stata una cena –, ma a lei poco importava: nulla cambiava il fatto che uno sconosciuto di nome Hayden e con una dubbia varietà di espressioni facciali – come faceva a sorridere sempre? – le aveva appena chiesto di uscire.
Il primo pensiero che le attraversò la testa a quella proposta fu un gelido ed esasperato certo che no, ma a quanto pareva, alla presenza di quel ragazzo, le parole non ne volevano sapere di obbedire al suo cervello.
«Perché?» domandò invece.
«Perché penso che noi due potremmo andare d'accordo» rispose Hayden, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
«E cosa te lo fa pensare?» chiese Claire, sempre più scettica.
«Perché…» Hayden esitò per un istante, apparentemente sovrappensiero. «Be', perché tu sei acida, io simpatico e allegro... e quindi ci bilanceremmo. E poi ti piace Shakespeare» concluse infine.
Claire sbatté le palpebre diverse volte prima di riuscire a formulare una risposta sensata. «Sai, non credo che dire a una ragazza che è acida sia un modo per convincerla a uscire con te».
«Forse no,» commentò il ragazzo «ma almeno sono stato sincero... e non credi che questa sia una qualità da premiare? Magari uscendo con me per un caffè».
Claire scosse la testa e si inginocchiò davanti alla piccola credenza ai suoi piedi, cercando la panna montata di cui aveva bisogno per servire i brownies. «Senti,» esclamò, mentre si rialzava sbuffando «ti ha mai detto nessun-».
«Claire, datti una mossa! Il tavolo 4 aspetta!» tuonò Julie, davanti alla macchinetta del caffè.
«Scusa, Julie! Ora vado!» strillò, aprendo di nuovo lo sportello della credenza per prendere tre tazze. «Come vedi, sono impegnata» aggiunse, rivolgendosi al ragazzo ancora appoggiato al bancone. «È meglio che tu vada».
«Ok, ok. Ho capito» disse quello, alzandosi dallo sgabello e avviandosi verso l'uscita della caffetteria. Afferrò la maniglia della porta a vetri e tirò; poi sembrò ripensarci e si voltò nuovamente.
«Magari la prossima volta, quando sarai meno impegnata» aggiunse, in direzione di Claire, sorridendo divertito.
«Magari mai!» esclamò lei di rimando. Ma lui non la sentì: se n'era già andato.

 

 

 

23 Novembre 2007, ore 17.38
fuori dal “Coffee seeds”, Brooklyn

 

«Ehi!».
«Lo sai, vero, che lo stalking non è una cosa romantica?» mugugnò Claire, stringendosi la sciarpa fin sotto il mento per ripararsi dal gelo che si era abbattuto su New York pochi giorni prima.
«Immagino tu non sia una fan di Twilight, allora»[2] rispose Hayden, storcendo le labbra in un lieve sogghigno.
Claire scoppiò a ridere a quelle parole: rimaneva sempre stupita dal modo in cui Hayden reagiva alle sue continue provocazioni, senza mai scomporsi o irritarsi.
Era ormai trascorso un mese dal loro primo incontro e da quando Hayden aveva iniziato a presentarsi regolarmente alla caffetteria, continuando a domandarle di prendere un innocente caffè insieme – perché, sai, un caffè non ha ancora ucciso nessuno. E Claire pensava sempre più spesso che lui avesse ragione, che effettivamente nessuno era mai andato incontro a tremende disgrazie solamente per aver accettato di bere un caffè in compagnia di un ragazzo carino e simpatico che, per di più, sembrava davvero interessato a lei – anche se ancora non ne comprendeva il motivo. E, sempre più spesso, Claire veniva anche colta da un irrefrenabile desiderio di accettare l’invito, di spolverare un po’ di fard sulle guance e di fuggire da quella routine in cui si era auto-ingabbiata da più di due anni e mezzo; ma sapeva anche che, se fosse uscita con lui una volta, poi l’avrebbe fatto ancora e ancora perché Hayden rischiava di piacerle davvero, e se l’interesse che lui dimostrava nei suoi confronti era sincero, sarebbero arrivati a un punto dal quale sarebbe poi stato impossibile fare marcia indietro. Sapeva che se fossero entrati davvero in confidenza lui prima o poi le avrebbe chiesto del suo passato e lei, questo, non doveva permetterlo: se il passato si fosse sovrapposto al presente, l’instabile castello di carte che aveva costruito con fatica sarebbe crollato, trascinandola in un vortice di vergogna e disperazione da cui non aveva la certezza di essere in grado di riemergere.

Claire, senza smettere di ridacchiare, si avvicinò a Hayden e gli diede una leggera spintarella con la spalla. «È vero, non sono un’adoratrice di Twilight. Io sono più una tipa da Harry Potter, Il signore degli anelli e compagnia bella… ma è anche vero che non penso che Edward e Bella si stalkerassero a vicenda!».
«Vedila come vuoi, ma io continuo a pensare che siano inquietanti. E sì, anch’io sono un tipo da Harry Potter… Anzi, se devo dire la verità, ho una vera e propria ossessione per quei libri: penso di aver letto l’intera serie almeno dieci volte… ma non dirlo troppo in giro: ho ventiquattro anni e una reputazione da difendere».
«Tranquillo, il tuo segreto verrà con me nella tomba!».
Entrambi tacquero, continuando a camminare fianco a fianco e mimetizzandosi fra le orde di passanti che occupavano il marciapiede. C’era un uomo sui trent’anni che correva a passo ben ritmato, con le cuffie dell’i-pod infilate nelle orecchie e gocce di sudore che scivolavano dalla fronte; c’era una signora anziana con i capelli bianchi raccolti in una crocchia sul collo, che portava a spasso il suo barboncino e canticchiava fra sé e sé un vecchio motivetto; c’era una bella donna in elegante tailleur grigio scuro che spediva un e-mail dal suo Blackberry, una giovane mamma che spingeva una carrozzina blu a pois bianchi, un ragazzino con un berretto consumato in testa e scarpe troppo larghe ancorate a uno skateboard. E poi c’erano un ragazzo e una ragazza, vicini ma non troppo e che sorridevano al mondo, conoscenti o forse amici… o forse parte di un qualcosa impossibile da definire, qualcosa che le persone che passavano loro accanto non potevano nemmeno immaginare.
«Non mi hai ancora detto cosa fai» intervenne Claire, rompendo il silenzio che era calato tra di loro.
«Cosa faccio?».
«Sì, nella vita. Lavori? Studi? Sei un figlio di papà che può permettersi di bighellonare per New York dalla mattina alla sera?».
Sul viso di Hayden comparve una strana espressione che Claire non fu in grado di decifrare: sembrava che, a quella domanda, la sua abituale vitalità si fosse in qualche modo sopita, lasciando spazio ad un’emozione che Claire non riuscì a cogliere.
«In realtà studio. Mi sto per laureare alla Columbia» rispose Hayden, ritrovando il sorriso che, per qualche istante, era scomparso dalle sue labbra.
«Caspita, la Columbia… e non è nell’Upper West Side?» chiese la ragazza, tentando di spazzare via l’imbarazzo e il senso di inadeguatezza che l’avevano colpita pochi attimi prima.
«Sì… sì, è proprio lì. Ma cosa c’entra?».
«Niente. Mi stavo semplicemente chiedendo cosa ci fai sempre in una caffetteria di Brooklyn… non è esattamente di strada! Cos’è, nell’Upper West Side non hanno il caffè?» domandò Claire, strizzandogli l’occhio.
«Eh, no. Lì il caffè c’è eccome… ed è anche parecchio buono. Sei tu che, a quanto pare, essendo di orizzonti piuttosto stretti non sei interessata a provarlo». Hayden lanciò uno sguardo di sottecchi a Claire per osservare la sua reazione a quelle parole; poi proseguì, rallentando appena il passo: «Vengo qui per l’aria, in realtà. Aria fresca… sai com’è».
Gli occhi di Hayden si illuminarono nel sentire nuovamente la risata fragorosa di Claire: la conosceva da appena un mese, ma aveva capito che era davvero difficile per lei lasciarsi andare – che si trattasse di chiacchierare, ridere o sedersi al tavolo di una caffetteria con un ragazzo incontrato da poco.
«Certo,» commentò la ragazza, tra una risatina e l’altra «certo. Mi sembra una motivazione più che plausibile».
«Direi! Riesci a immaginare un motivo migliore per passare del tempo a Brooklyn?».
«No, proprio no!» esclamò Claire, dopo aver finto di pensarci per qualche secondo. «Io sarei arrivata» aggiunse. «Prendi anche tu il metrò?».
«No, io… continuo a piedi».
Claire aprì la borsa e iniziò a frugarvi dentro alla ricerca dell’abbonamento per la metropolitana.
«Ah, ok» disse poi, tentando di negare – anche a se stessa – il dispiacere che aveva provato nel sentire che Hayden non avrebbe proseguito il viaggio con lei. «Ok. Be’… ciao, allora. Ci vediamo!».
E, in quel momento, si rese conto di sperarlo davvero.

 

 

 

10 Gennaio 2008, ore 15.34
Coffe seeds”, Brooklyn

 

Claire versò il latte nell’alto contenitore di plastica, aggiunse qualche cucchiaio di cacao amaro in polvere, avvitò per bene il coperchio e accese il frullatore; poi lanciò un’occhiata veloce alla porta d’entrata – come aveva fatto continuamente da quando era iniziato il suo turno. Dopo averci ponderato per mesi aveva finalmente preso una decisione e non poterla comunicare immediatamente alla persona interessata la infastidiva non poco. Ogni volta che la porta si apriva, lasciando entrare questo o quel cliente, Claire abbandonava qualsiasi cosa stesse facendo e si voltava, correndo il rischio, più di una volta, di stirarsi i muscoli del collo.
Claire spense il frullatore, controllò che il composto risultasse sufficientemente schiumoso e aggiunse un paio di cubetti di ghiaccio e la giusta quantità di zucchero; quando la porta a vetri si aprì e una silhouette conosciuta mise piede nel locale, Claire perse ogni interesse per il milk-shake che stava preparando.
«Claire,» disse Hayden, avvicinandosi al bancone «per caso hai-».
«Sì,» esclamò la ragazza, tutto d’un fiato «voglio uscire con te!».
Hayden sembrò per un istante spiazzato dalle parole che aveva appena udito; poi, come se la confusione si fosse diradata, un luccichio soddisfatto gli si accese nelle iridi marrone chiaro.
«In realtà ero venuto per chiederti se avessi per caso visto il mio portafoglio: penso di averlo dimenticato qui ieri… ma ok, se insisti tanto, uscirò con te» rispose, lanciandole un’occhiata divertita. «Domani alle otto, va bene?».
«S-sì…».
«A domani, allora!». Poi uscì, senza però dimenticare di irradiarla con il suo solito sorriso.
Claire sorrise a sua volta, anche se il suo istinto insisteva per farla saltellare lungo tutto il perimetro della caffetteria emettendo gridolini entusiasti.
Perché sì, finalmente aveva smesso di fuggire.

 

 

 

13 Aprile 2010, ore 22.19
Upper East Side, Manhattan

 

La giovane donna chiuse l’immensa porta a vetri che dava sul terrazzino e, con un solo gesto, tirò i tendaggi decorati con un rincorrersi di sottili arabeschi dorati che si espandevano per l’intero tessuto color cremisi. Evitando il riflesso che le rimandava il vetro, si diresse verso la toletta alla sua destra e si sedette sulla sedia imbottita intonata alle tende e alla carta da parati; solo dopo aver limato le già perfette unghie delle mani e allacciato la vestaglia di seta sull’intimo di pizzo rosso che sul poggiolo non si era preoccupata di coprire, si permise di incontrare il suo riflesso sullo specchio. Non appena questo accadde, le sue labbra si storsero in una smorfia: non che non le piacesse il suo aspetto, sia ben chiaro, ma ciò che la contrariava più di tutto era la vuotezza che riempiva i suoi occhi scuri, la consapevolezza dipinta in uno sguardo che, giorno dopo giorno, le ricordava di essere stata debole, di non aver avuto il coraggio di combattere per ciò che l’aveva resa davvero felice. Ed era in quei momenti, quando il rimpianto si affacciava nuovamente nello squallore della sua vita, che non poteva fare altro che provare vergogna per ciò che era diventata – per ciò che era tornata a essere.
Decisa a scacciare via quegli inutili pensieri, la giovane donna afferrò la spazzola ancora posata sul ripiano della toletta e iniziò a spazzolarsi accuratamente i capelli, tentando di sciogliere nodi inesistenti; in realtà stava solo attendendo lo squillo del telefono.
Non dovette aspettare molto; pochi istanti e un trillo esageratamente acuto invase l’intera stanza. Senza scomporsi, la giovane donna afferrò la cornetta.
«Sì?».
«Buonasera, signorina. Il Signor Forbes è arrivato» annunciò la receptionist, con tono fastidiosamente allegro.
«Certo. Lo faccia salire».
«Come desidera, signorina».
La giovane donna riattaccò senza ringraziare; poi lo sguardo le cadde sulla spazzola che ancora reggeva e avvicinò la mano all’unico cassetto della toletta. Le sue dita si erano già strette attorno alla maniglia laccata con tintura dorata quando si ricordò dell’unica cosa che teneva in quel cassetto; e si maledisse per averlo dimenticato. Non lo aprì.
La giovane donna lanciò la spazzola sul liscio ripiano di legno e la lasciò lì, allontanandosi il più possibile da quel cassetto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 Credits e varie
[1] Frase del celebre poeta e drammaturgo William Shakespeare – di cui non scrivo altro perché penso tu (e non solo) ne abbia sentito parlare sino alla nausea.
[2] Questo scambio di battute, mi spiace dirlo, non è stato inventato da me: io ho solo provveduto a inserirlo in un contesto adeguato. Stavo cercando prompt da utilizzare e ho trovato questa pagina di LJ (http://pll-fest.livejournal.com/1586.html); il mini-dialogo da me riportato puoi trovarlo sotto il pairing Aria/Jason.
(N.B. Io non ho assolutamente nulla contro Twilight; certo, i film non mi hanno entusiasmata, ma i libri, con l’eccezione di alcune parti dell’ultimo volume, non mi sono dispiaciuti. Quella sopracitata è sola una battuta che ho trovato carina e divertente e che, per questo, ho deciso di inserire.)

 

 

Note dell'Autrice
Allora, che dire?
Innanzitutto spero che il modo in cui ho deciso di narrare la storia non sia troppo confusionario: ho sempre amato leggere le storie in cui vengono descritti singoli episodi che avvengono in determinati momenti e quindi ho voluto provare. Gli avvenimenti, infatti, non sono posti in ordine cronologico: questo è perché ho voluto dare un po' di “movimento” alla storia, sovrapponendo i piani temporali e svelando le cose un po' per volta.
Poi... be', questa è la mia prima storia Originale: ci ho lavorato per molto tempo e ho davvero amato scriverla. Spero che a voi possa lasciare almeno un po' di tutto quello che io ho messo in questa storia e spero anche che questa prima parte vi sia piaciuta e che abbiate voglia di continuare a leggerla.
La storia, essendo stata scritta per un contest, è già conclusa e, per questo, gli aggiornamenti non si faranno attendere; venerdì prossimo posterò la seconda parte.
A presto!

M. 

 
  
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