Prompt: semplicemente
Perfect World
And I put a wish in
Made it my mission
To end the conflict
But oh…
I put a wish in
Hoping you’d listen
By my accomplice.
Mattia
lo odiava, il sabato mattina. C’era poco da
fare, ci sono cose che piacciono e altre che non piacciono. Amava il
gelato, il
sesso e il basket – e se lo poteva permettere, essendo alto
due metri o poco
meno. Il problema
erano le cose che
detestava: la luce di notte – doveva tenere le persiane
completamente abbassate
e la porta chiusa, che fosse mai che passasse uno spiraglio di luce!
Andrea lo
distruggeva per questo – le falene, le campane che suonavano*
alle nove di
mattina disturbandolo quando dormiva e, soprattutto, il sabato mattina.
O
meglio, il sabato mattina in periodo di scuola.
Non
lo aveva neanche odiato, gli anni prima, solo
che ormai da qualche mese si innervosiva inevitabilmente. Non erano le
due ore
di Filosofia, che diventavano regolarmente tre, visto che non faceva
Educazione
Fisica e si fermava a parlare di filosofi con la professoressa, tale
Alessandra
Giunta. Il vero problema era la penultima ora, cioè quella
di religione. Gli
anni precedenti non aveva avuto alcun problema, visto che il professore
era un
tipo particolarmente stravagante e
non particolarmente religioso, anzi. Ma quell’anno era venuta
una vecchia
zitella – che non si era fatta suora solo perché
cercava l'uomo adatto da
sposare. Peccato che i suoi uomini fossero tutti sposati e lei fosse
l’amante,
ma su questo soprassedeva volentieri; Mattia era venuto a saperlo
attraverso il
fratello del migliore amico del cugino di Salvo, un suo compagno di
classe –
che si era divertita a tirar fuori tutte le teorie più
bigotte e retrograde
dell’universo, roba che sembrava uscita più dalla
bocca di una come la Binetti
che da un insegnante. La madre di Mattia si era già
lamentata, perché la vedeva
come un esempio negativo per il figlio.
Quello
che manca a tutta questa storia è che Mattia
era gay – felicemente dichiarato a casa, per giunta. I
genitori non gli avevano
mai fatto mancare nulla e gli avevano addirittura permesso di andare a
vivere
col suo ragazzo, Andrea, studente al terzo anno di Matematica, quando
si erano
dovuti trasferire a Milano per lavoro. Non erano troppo lontani da
lì, d’altro
canto Padova-Milano non era tantissimo, né in treno,
né in macc… ok, in treno
non era tantissimo. Però comunque l’avevano
lasciato a vivere da solo. Col suo
ragazzo, in un’altra città. Erano fortune che
capitavano a pochi, soprattutto
nella patria della Lega Nord, orribile postribolo di populismo a
garanzia zero.
Il
problema era quest’insegnante – Bianchi, si
chiamava, e pure il nome richiamava la sua purezza – che non
aiutava qualsiasi
ragazzo che iniziava a muovere i primi passi nel mondo della vita, del
sesso e
dell’omosessualità. Mattia aveva dei dubbi su
Limoni, biondino, seconda fila a
destra, apprezzabile e timidissimo. Qualcosa gli diceva che
l’altro era
attratto dagli uomini – aveva pure fatto finta di non vederlo
al Pride,
l’estate prima – e una prof che paventava
catastrofi e diluvi universali
sicuramente non era d’aiuto ad un ragazzo alla scoperta e
accettazione di sé.
Era come se avesse iniziato ad indossare degli occhiali per mettere a
fuoco la propria realtà
– cosa che non gli
avrebbe mai augurato sul serio, visti i suoi bellissimi occhi tra il
grigio e
il verde, che dovevano essere mostrati all’umanità
senza lenti a disturbarli
Erano
due settimane che Limoni era particolarmente
alterato e apatico allo stesso tempo, il sabato. Il perché
lo sapeva: la
vecchia megera aveva iniziato a parlare a ruota libera del Levitico e
delle
orribili pene che sarebbero spettate, all’Inferno, per i
sodomiti.
Che
poi, il termine “sodomiti” lo faceva pensare ai
soli passivi e quindi gli
richiamava il famoso detto romano che “sò
tutti boni a fa li froci cor culo dell’altri”.
Tutto questo lo incuriosiva su
ciò a cui andasse incontro l’attivo che lo
appoggiasse o addirittura si spingesse
oltre, ma quella era una pura e semplice
curiosità personale.
Una
marea di chiacchiere di altri tempi – ma
riproposte ancora nel 2012 – insomma, che però
facevano più male che bene al
povero Limoni che stava diventando molto più esplosivo e che
si guardava
intorno di continuo, come se si sentisse accerchiato e sotto accusa,
neanche
fosse una lepre inseguita da un predatore. Era ora di intervenire a
mettere
qualche puntino sulla i.
Quel
giorno, infatti, la Bianchi si era spinta
addirittura oltre al solito: poteva capire che la sua religione
impedisse
queste cose barbine da sporchi sodomiti – si inserisca molta
ironia – ma la
professoressa, con la solita aria strafottente da nuovo Messia che tanto lo infastidiva, iniziò
addirittura
a dire che, a differenza del resto del mondo, gli Italiani e il Governo
italiano riconoscevano l’importanza della natura, e che
proprio per questo i
matrimoni gay erano incostituzionali, perché non
rispettavano la naturalità. Fu
per questo che Mattia si infuriò e iniziò a porre
tante domande per mettere un
po’ in riga – e informare, a dirla tutta
– la sedicente so-tutto-io dietro la
cattedra.
Mattia
era dichiarato con i suoi genitori, ma non
con gli amici. Non aveva mai detto l’orribile frase
“sono gay”, inutile quanto
dannosa, da un certo punto di vista, visto che attaccava
un’etichetta bella
vistosa – per carità, bellissima, visto che era
un’etichetta arcobaleno –
sulla fronte. Gli amici di
Andrea l’avevano sempre conosciuto come il suo ragazzo,
mentre i suoi amici di
chat o anche alcuni amici di lunga data se ne erano accorti,
più che altro
perché parlava costantemente al maschile. Il nome Andrea
poteva appartenere ad
un uomo e ad una donna, per cui chiamarlo per nome non dava certezze, e
su
queste si erano abbarbicati coloro che non volevano
vedere. La saggezza popolare non diceva che non
c’è peggior sordo di chi non voglia sentire?
Raramente sbaglia, e in questo
caso ha proprio ragione.
Che
poi, che importava? Magari in futuro si sarebbe
innamorato di una donna, anche se sperava di rimanere – ovviamente – il
più
possibile con Andrea. Ecco perché trovava controproducente
il coming out: non
permetteva libertà di comportamento, figuriamoci sessuale.
Anche perché dire
“sono gay” prefigurava ad una serie di
comportamenti stereotipati dai quali non
era socialmente accettabile uscire. Lui non doveva rendere conto a
nessuno,
neppure a una vecchiaccia moralizzatrice.
–
Si dà il caso, veramente, che non siano vietati
dalla Costituzione i matrimoni gay – iniziò a
parlare, mentre vide l’altera
professoressa-predicatrice iniziare a infiammarsi ulteriormente, visto
che
qualcuno stava osando contraddirla.
–
La dicitura “naturale”, infatti, non vieta
l’omosessualità, visto che esiste in
natura ed è riconosciuta dagli scienziati non come disturbo
comportamentale.
Tanto più che non si parla di uomini e donne, ma di coniugi.
–
Non osare, ragazzino! – tuonò la donna.
– I
matrimoni omosessuali sono empi.
–
Sì, come la pelle del maiale. Non so se lei se lo
ricorda, ma era tratto dal Levitico, come il passo del “non
toccherai pelle di
un maiale morto”, mi si scusi – e lì
fece un sorrisetto strafottente – se non
ricordo le parole precise. Il Levitico era un codice
d’igiene, ed erano vietati
i rapporti omosessuali in virtù di questo.
–
Sei blasfemo! Stai affermando cose contro natura e
contro la morale che ci insegna, fortunatamente, la Chiesa.
–
Le ripeto che la scienza ha stabilito che
l’omosessualità non è una malattia e
non è contro natura. Come la mettiamo?
–
La scienza può sbagliare, Dio no –
continuò lei,
sbattendo un pugno sulla cattedra.
–
Mi scusi, eh, ma se ragionassimo così, il Sole girerebbe
ancora attorno alla Terra, e mi sembra che le tesi di Galileo siano
state
dichiarate legittime tipo nel Settecento o nell’Ottocento.
Lungi da me mettere
in dubbio le sue credenze, ma mi limito a mostrare che la sua immagine
non è
l’unica valida.
–
Tu insinui che i gay possono sposarsi?
–
C’è anche da chiedere? – chiese Mattia,
interdetto
dalla pochezza mentale della prof. Ok, non tutti i cattolici erano
uguali, ma
quando si ritrovava davanti a tali geni, gli veniva
solo voglia di
lanciare le peggio imprecazioni contro la loro magnifica religione
perfetta. –
In chiesa no, ma perché là siamo in ambito
religioso e non civile/giuridico. In
comune sì, dovrebbero, come si fa in mezzo mondo.
Addirittura, in Slovenia
usano la stessa dicitura nostra, in Costituzione, e il Parlamento sta
cercando
di far approvare una legge sui matrimoni omosessuali!1
–
Fuori di qui! Non ho intenzione di ascoltare le
tue bislaccherie da studentello di quinta che pensa di sapere tutto.
– La prof
indicò la porta, mentre Mattia le regalò (si fa
per dire) un adorabile
ghignetto.
–
Mi faccia indovinare, non sa come controbattere?
–
Oh, Schiavon, dai, smettila che ti metti nei guai
– disse la Trevisan, la secchiona del primo banco davanti
alla cattedra, forse
nel tentativo di leccare la professoressa. Mai avrebbe capito
perché gente che
così intelligente si dovesse ridurre a tali mezzucci
squallidi. – Mica stiamo
parlando della tua famiglia!
–
Non lo devo fare solo per me. – Vide, con
un’occhiata attenta, Limoni arrossire e nascondersi.
– E comunque, io vivo con
un ragazzo, pensate davvero che viva di sola aria?
–
Schiavon. Subito con me, dalla preside. Venga! –
gridò la donna, ormai esaurita per essersi trovata davanti
qualcuno che gli
stava tenendo testa. E finocchio, per di più! Come osava,
Mattia, farle questo?
A lei, che era così dolce e brava.
La
faccia della preside, non poteva negarlo, gli
aveva fatto tanto piacere. Era una
donna sui cinquant’anni avanzati, il cui viso non lasciava
trasparire alcuna
emozione. Aveva avuto modo di conoscerla a lungo, essendo stato per due
anni
rappresentante d’istituto. Aveva una certa simpatia per
quella donna algida, a
pelle. Ma vedere un momento nei suoi occhi, più che sul suo
viso, lo stupore
per la scena che le si stava presentando davanti, non aveva il minimo
prezzo.
–
Schiavon! Lorella! – si chiamava
pure Lorella? E grazie al cazzo che non acchiappava,
allora… –Che cosa è successo?
–
Il ragazzo si è dimostrato sgarbato e impertinente
nei confronti della mia lezione e pretendeva pure di avere ragione!
– gridò la
professoressa, mentre sentì la porta della segreteria
aprirsi. Forse qualcuno
era nel corridoio davanti alla presidenza per capire cosa fosse
successo.
–
Schiavon? – chiese la preside, alzando
impercettibilmente un sopracciglio. O meglio, impercettibilmente per
chi non
l’aveva studiata per capire i suoi stati d’animo.
– Lorella, ma sei sicura? Ho
avuto parecchio a che fare col ragazzo e non mi sembra minimamente il
tipo.
–
Secondo lei, verrei a dire bugie davanti al
Dirigente Scolastico?
–
Perfetto, allora cerca di spiegarmi cos’è successo
precisamente – concluse la preside, sedendosi dietro la sua
scrivania.
La
professoressa riassunse strettamente l’evento,
evidenziando particolarmente
– la stronza – la
parte finale, in modo da far percepire di essere solo una vittima. La
preside
sembrò sconcertata, addirittura, per cui, appena gli rivolse
la parola, Mattia
iniziò a raccontare la sua versione.
–
Sì, è vero, ho rinfacciato alla professoressa che
non sapeva controbattere, ma in ogni caso mi sono innervosito
perché mi stava
sbattendo fuori, solo perché avevo osato presentare
un’opinione e le stavo
facendo notare che, scientificamente, la sua tesi era sbagliata. Voglio
dire,
se una persona si accorge che un’altra persona fa un errore,
la corregge, no?
–
Io non stavo sbagliando! – gridò ancora, come una
forsennata, la Bianchi.
–
Lorella, fallo parlare e siediti – le intimò la
preside, tornata al suo gelo quotidiano.
–
Il problema, signora preside, era a monte, in
realtà. La professoressa Bianchi si è messa a
fare un discorso prettamente
omofobo, e non solo esponendo l’evidenza di ciò
che pensa la religione
cattolica, ma difendendo l’accusa di innaturalezza
dell’omosessualità. Per i
cattolici è immorale, ma la natura è parte della
scienza, non della religione!
– proseguì lui, incurante e con un tono
incredibilmente tranquillo.
–
Schiavon, stai offendendo la mia religione.
–
E lei la mia vita privata. – replicò, lapidario.
–
E a differenza della religione, io non posso scegliere chi mi attira.
In più,
non sono l’unico in tutta la scuola, per cui sentire idee del
genere è
assolutamente dannoso.
–
Tu, fin… – iniziò, in preda al
disprezzo puro, ma
la preside la zittì immediatamente.
–
Lorella, non ti azzardare o farò in modo di
cacciarti personalmente da questa scuola. E sarebbe già la
seconda per lo
stesso motivo. Schiavon, – continuò, tornando a
rivolgersi a lui – cosa
intendi?
–
Dire che l’omosessualità è malata e
innaturale può
confondere persone che iniziano ad essere consapevoli di se stesse. Le
fanno
sentire sbagliate e c’è il rischio che decidano di
farla finita. In America non
è così raro, anche per colpa dei bulli. Se un
ragazzo dovesse decidere di
suicidarsi per le parole della professoressa Bianchi, non sarebbe
assolutamente
una buona pubblicità per
la scuola,
oltre che moralmente disgustoso, s’intende.
–
Questo è un ricatto contro la mia libertà
d’insegnamento – tuonò ancora la
professoressa.
–
No, questa è la realtà dei fatti a cui si deve
adeguare, o quanto meno deve prendersi le sue responsabilità
– rispose, sempre
calmo e lapidario, mentre vedeva l’ira montare nella donna.
–
Ok, basta così. Non verranno presi provvedimenti
nei confronti di nessuno, per cui, Schiavon, puoi tornare in classe.
Professoressa
Bianchi, devo parlare un momento con lei prima – disse la
preside, tornando
improvvisamente formale con la donna.
Mattia
iniziò ad allontanarsi, facendo in tempo a
sentire un: “Finocchio”
urlato
dall’iraconda professoressa.
All’uscita
da scuola, Mattia vide Limoni venirgli
incontro, con una faccia abbastanza intimidita, come se avesse avuto
paura di
lui.
–
Ciao, Mattia. Senti… – iniziò, ma
Mattia lo
interruppe subito.
–
Mi hai chiamato Schiavon fino a dieci minuti fa,
come mai ora il nome? Non è che ora son finocchio e allora
devo essere chiamato
col nome.
–
Sì, scusami – disse, balbettando un pochino.
Mattia si rese conto di aver esagerato leggermente, per cui
cercò di rimediare.
La discussione con la Bianchi l’aveva lasciato di
cattivissimo umore, anche
perché aveva passato l’ora successiva a sentir la
gente bisbigliare su di lui.
–
No, tranquillo, hai ragione. Mi sono alterato un
po’. Scusa.
–
Beh, contro la Bianchi ti sei infervorato
parecchio – notò Limoni, pur sempre con una certa
timidezza.
Se
quello non era un gay ancora alla scoperta di se stesso, lui non si
chiamava
più Mattia Schiavon.
–
Andasse in mona, quella. E se mi sente, meglio,
ecco – rispose, sempre con una certa verve. Sì,
aveva ragione Fed… Limoni a
dire che si era innervosito assai. Era lapalissiano, non gli faceva
piacere
sentire tali orrori in un posto dove teoricamente avrebbe dovuto starne
al
largo.
–
Senti, volevo ringraziarti. Sai, per aver… –
iniziò, sempre balbettando. Oh oh, c’era aria da
ragazzo al primo coming out.
Meglio mettere in chiaro dei puntini sulle i.
–
Lo sapevo già, tranquillo – lo interruppe,
dandogli
una pacca sulla spalla. Ora, sapeva di essere stato un po’
sgarbato – e anche stronzo, a dirla
tutta – ma non
voleva cominciare col solito “sono gay”. No,
grazie, Limoni stava parlando con
lui e giocava con le sue regole. Lo vide arrossire, prima che Federico – ora
perché lo chiamava per nome? –
riaprisse bocca.
–
Ah. Ok – disse l’altro, lapidario. Sembrava
più
sconvolto che stupito, tra l’altro. Beh, accorgersi che la
maschera che porti
non inganna, dimostra che sei un pessimo attore, effettivamente.
– E come l’hai
capito?
–
Il tuo odore. Sai di terra e di carne. Di
selvaggina – rispose, immaginandosi ampiamente la faccia
sconvolta dell’altro
che, puntualmente, si presentò.
–
Selvaggina? Mi prendi in giro? – chiese allora,
sconvolto. Mattia fece una risata, prima di rispondere alla domanda del
ragazzo.
–
Tutto di noi risponde a quello che siamo, anche se
ti può sembrare strano. Tu sai di terra e selvaggina,
perché scappi e ti
nascondi e cerchi di rimanere attaccato e chiuso nella tua natura,
senza
aprirti. Si vede a occhio e si sente.
–
Oh. – rispose, palesemente poco convinto e
perplesso. Si aspettava un ma va’
in
mona, ma fortunatamente non arrivò. Gli rispose
tranquillamente, allora.
–
Guarda che scherzavo, era un modo poetico di dirti
che dalla tua natura non puoi scappare, e che io conosco abbastanza
bene come
si sente un ragazzo non dichiarato. Ad un occhio esperto si vede
– aggiunse,
regalandogli un occhiolino. L’espressione di Federico si
sciolse, visto che lo
stava cercando di mettere a suo agio. Conosceva benissimo
il passo successivo: migliaia di domande. D’altro canto,
come biasimarlo? Hai qualcuno che è già esperto.
Uno che, quasi quasi, con il
culo chiacchiera. Hai uno che è già passato in
tutte le fasi che puoi immaginarti.
Uno si sente solo, e bam! finalmente cade dal
cielo, neanche stesse
nella lampada di Aladino, qualcuno con cui sentirti meno solo.
–
Senti, allora, visto che è così semplice...
–
iniziò, mentre Mattia aveva già cominciato ad
interromperlo nella sua testa. Ti posso fare
qualche domanda? Oddio,
sperava non la dicesse così, sembrava più un
qualche strano individuo in stazione
che faceva domande sul fumo. – Ho tanti dubbi, e non so con
chi parlarne. Ti
va?
Beh,
meritava una risposta affermativa già solo da come aveva
formulato la frase.
Non poteva negarsi ad uno che si presentava così. Fuori
discussione.
–
Certo, Fede. – Wait.
Addirittura il nomignolo. – Quando vuoi.
Volendo anche ora, se non devi
tornare a casa.
–
Posso avvisare i miei – disse, iniziando a tirare
fuori il cellulare.
–
Perfetto, allora avviso An di apparecchiare per
tre. Sei invitato a pranzo, poi andiamo fuori a parlare – gli
disse, facendogli
un occhiolino e iniziando ad avviarsi.
–
Dove andiamo? Sai, i miei…
–
Tranquillo, tranquillo. Abito dietro l’università2,
poi vediamo dove andare, ok? Su, che ho una fame da lupi. –
continuò,
sistemandosi lo zaino sulla spalla destra e ravvivandosi i capelli.
C’era
un po’ da camminare, lo sapeva. La sua vecchia
casa era molto più vicina di quella dove abitava ora con
Andrea, per ovvi
motivi. Il suo uomo era uno studente fuorisede, quindi era quasi
scontato che
abitasse nei dintorni dell’università. Se poi era
stato talmente fortunato da
avere uno zio – fratello della madre, veneto, a differenza
della famiglia di
suo padre che era della provincia di Brescia – che aveva una
casa lì, beh,
c’era poco da fare. An sarebbe stato felicissimo di
conoscere, finalmente, un
qualche suo amico di scuola, visto che non gli aveva mai presentato
nessuno di
persona. Gliene aveva parlato, certo, ma non tantissimo, anche
perché era il
primo a non aver legato profondamente con nessuno di loro,
perché nessuno
sembrava pronto ad aprirsi. E gli dispiaceva, ma conosceva bene come
andassero
quelle cose: tu ti apri e l’altro ti fotte. Certo, non gli interessava
niente,
camminava tranquillamente con le mani nelle tasche, senza innervosirsi
per
queste idiozie. Però, comunque, gli faceva piacere che
qualcuno volesse un po’
sapere di lui. Gli altri chiacchieravano, mentre Federico gli aveva
chiesto un
po’ del fidanzato, tanto per saperne qualcosa. Non erano
domande generiche, non
erano le domande che – dopo
– gli
avrebbe rivolto, quelle per capire come comportarsi in quel mondo di
pescecani.
Tanto, o erano pescecani omofobi, o pescecani che avrebbero attentato
alla sua
virtù – che forse erano anche peggio, perché
più subdoli. Che poi vabbè,
alla virtù credeva relativamente, certo, ma non per questo
avrebbe fatto un
piacere a qualche stronzo maniaco.
Era
una sensazione strana, iniziare a pensare in
quel modo, come se tu stessi tirando su un figlio. Ci mancava poco che
si
sentisse vecchio.
Avevano già superato la stazione ed erano quasi pronti per inserirsi nel dedalo di stradine, in pieno centro, che rivelavano la natura medievale della città. Era pittoresca, senza dubbio, e non sapeva di stantio; Mattia sentiva la città vitale, viva, nonostante l’antico che la circondava, mentre passeggiava per quelle strette stradine. Ok, in parte era forse da attribuirsi alla zona universitaria: se persino cittadine come Gorizia, gli diceva Francesco, un suo amico di lì, diventano vive di sera, è proprio merito dell’esistenza dell’università. Vedeva gente mangiare un pezzo di pizza e chiacchierare, appoggiata al muro accanto alla pizzeria di turno. Maschi, femmine, mori, biondi, rossi, castani, tinti, naturali, barbuti, glabri, etero, gay, erano tutti uguali lì in mezzo. Era bellissimo poter scendere la sera, durante il finesettimana, con Andrea e andare in qualche pub, c’era allegria, vita e si sentiva parte di quel posto bellissimo che era chiamato mondo. Erano tutti ragazzi e non c’erano facoltà, idee e azioni a renderli nettamente diversi. Ecco, avrebbe dovuto far passare questo a Federico, la vita sarebbe stata molto più facile. I ruoli erano noiosi, nella vita come a letto. Meglio essere conosciuti come persone che per tutta una serie di caratteristiche personali.
–
Ohi, mi hai sentito? – gli chiese Federico.
Effettivamente non gli aveva prestato troppa attenzione, era troppo
intento a
vedere la vita scorrere su quelle vie.
–
No, scusami. Dicevi?
–
Niente, ti chiedevo se abitassi qua in zona,
nient’altro! – rispose allora, e Mattia si accorse
che anche lui stava
guardandosi con molta attenzione intorno.
–
Sì, non mi dirai che sei stanco! –
lo canzonò, scherzosamente, mentre
iniziava a tirar fuori le chiavi dalla tasca, ormai mancava solo
qualche metro
a casa sua. Fischiettava la musica di Smalltown
Boy, gli era venuta in mente così,
sull’unghia. Forse era la gayezza di
tutta la situazione. Sarebbe stato molto divertente vedere la faccia di
Federico quando gli sarebbe venuto incontro Andrea, calcolando che non
era…
avvezzo a situazioni di coppia omo, chiaramente.
Aprì
il portone e salì le scale, tranquillamente,
seguito, due gradini indietro, da Federico, che taceva, non avendo
niente di
speciale da dire. Forse in quel momento aveva in testa solo i milioni
di
domande da fargli, per cui era lui a dover trainare la conversazione.
Dopo aver
salutato An, s’intendeva.
Appena
aprì la porta, lo sentì salutare dalla
cucina: dal rumore dell’acqua, stava presumibilmente scolando
la pasta, e ciò
spiegava anche perché non gli fosse ancora arrivato addosso.
Vide lo sguardo di
Federico perdersi per la stanza, ordinatissima al solito: tutta
apparenza. Se
fosse entrato in camera loro, ci sarebbe stato da ridere. Forse
c’erano ancora
le sue mutande appese al pomello della porta dopo la serata passata a
letto.
Finalmente
An si liberò della cucina e gli venne
incontro, baciandolo appassionatamente, come ogni volta che tornava a
casa. Era
facile accorgersi, così, se c’era qualcosa che non
andava. Si sentì addosso – normale
– lo sguardo esterrefatto di Federico,
che molto probabilmente aveva anche distolto, subito dopo, e
sicuramente era
arrossito.
–
An, – disse, dopo essersi staccato dalle sue
labbra – lui è Federico, un mio compagno di
classe.
Vide
Andrea rivolgere lo sguardo verso di lui, che
sembrava ormai diventato parte della tappezzeria – c’entrava forse il muro rosso?
– e, ridacchiando, gli tese la mano.
– Piacere, Andrea!
–
Piacere – lo vide rispondere, un po’ titubante.
Poverino,
non è abituato a tutte queste effusioni arcobalenose.
Il
pranzo andò bene, ma di questo Mattia non avrebbe
avuto alcun dubbio. An era sempre molto gentile con le persone che gli
stavano attorno,
ed era bastato far raccontare a Federico di quella mattina per spingere
anche
lui a socializzare. Manco un giorno e già meditava di fargli
conoscere qualche
amico del suo ragazzo. Ma vabbè, era proprio come un padre,
che già si metteva
in testa di fargli avere una storia. E dire che non aveva mai avuto
quest’indole protettiva con nessuno. Pessimo. Non vedeva
l’ora che perdesse la
verginità. Ancora più pessimo. Si rendeva conto
da solo che stava facendo
discorsi – o meglio, pensieri – che non stavano
né in cielo né in terra, però
era emozionato. Boh, si sentiva quasi scemo. Non più di
un’ora prima l’aveva
anche rimproverato perché l’aveva chiamato per
nome, invece che per cognome, e
ora se lo immaginava che diventava un finocchio fatto e finito.
Pessimo,
davvero. E dire che in cinque anni di scuola non è che
avessero parlato
granché, o meglio, ci aveva parlato come con tutti gli
altri: il minimo
indispensabile, senza che fosse per lui necessaria la loro presenza.
Finalmente, però, aveva trovato qualcuno interessato a
parlare, non a ciarlare.
We talk and talk, but no one spoke,
si ritrovò a canticchiare fra sé e sé.3
Vedeva
Federico più tranquillo, ma era una
sensazione che aveva già avuto quando si era avventato,
giusto a parole, contro
la prof. Lo vedeva più libero.
Meno
preoccupato di sembrare qualcuno che non era, in virtù di
qualche punizione
divina non ben specificata e probabilmente assente. Forse, anzi,
sicuramente,
era anche l’atteggiamento di Andrea a calmarlo. Forse era
l’atmosfera
casalinga, perché, si sa, casa è sempre casa, che
sia propria o altrui. Non
importava: era tranquillo. Non sarebbe stato neanche sbagliato pensare
al
coming out. Ricordava quanto si era tranquillizzato dopo averne parlato
con i
suoi, era stato tutto molto più semplice, anche per uno che
non si pone tanti
problemi come lui. Guardò l’orologio: erano
già le tre e mezzo, e sapeva che An
aveva lezione alle quattro, e poi si sarebbe fermato per farsi uno
spritz con
il suo gruppetto di amici gay dell’università.
Aveva
già deciso dove portare Federico per parlare:
al Prato della Valle. Era un posto della città che reputava
particolare: era un
enorme parco ovale, circondato da un canale artificiale, appena dietro
all’Orto
Botanico e alla Basilica. Era un cuore verde dentro Padova e spesso ci
andava,
se il tempo glielo permetteva. Erano anche quattro o cinque giorni che
non
pioveva, per cui il terreno era sicuramente asciutto e ci si poteva
fermare a
lungo sotto agli olmi. Gli sapeva di intimo, quel parco, pur essendo
parecchio
frequentato, e non aveva dubbi che fosse il posto migliore per portare
a
parlare Federico. Tanto lui non aveva problemi a trattare certi
argomenti in
pubblico. Sperò che nemmeno l’altro si
vergognasse. Pensò di chiedergli se
volesse un gelato, ma sarebbe suonato o malizioso o paterno e no, grazie.
–
Oh, quanto è tardi! Scusami, Federico, ma devo
davvero fuggire che ho lezione tra poco! Spero di rivederti!
– disse a lui,
salutandolo calorosamente. Si avvicinò poi a lui, gli
stampò un bacio prima di
scappare via.
Il
solito distratto… quando parla con qualcuno, perde anche ore
senza
accorgersene.
–
Vogliamo andare? – gli chiese, mentre finiva di
lavare i piatti – sì,
perché An
chiacchierava e lui sgobbava. Certo.
–
Sì. Dove, per curiosità? – gli
chiesel’altro, ma
lo sentì titubare, come se avesse paura. Non capiva bene di
cosa – o forse sì!
– però cercò di essere
accomodante.
–
Al Prato della Valle. C’è qualche problema?
–
cercò di dire con tono tranquillo, ma non sapeva se gli
fosse uscito così bene.
–
No, niente. È solo che parlarne all’aperto mi
mette un po’ ansia, perché potrebbero sentire
tutti – replicò, distogliendo lo
sguardo dall’imbarazzo. Mattia si fermò a pensare:
doveva, forse, parlare lì
con lui? È che l’atmosfera casalinga, secondo lui,
non era il massimo: troppe
distrazioni, troppi artifici. Preferiva un posto naturale, stare sotto
un
albero a parlare. Però, ovviamente, non era lui a dover
decidere, era Federico.
In parte lo capiva: la certezza che nessuno potesse sentire era
intrigante.
Però lui, che ormai non si nascondeva, sapeva che era meglio
abituarsi ad
essere aperti, perché era quella la chiave. Chiudersi,
nascondere, crea solo
dolore. Forse poteva farglielo passare così, il messaggio.
–
Possiamo fare come vuoi. Ma penso sia meglio
fuori, perché all’aria aperta si vive, al chiuso
ci si nasconde. Sinceramente,
quello che desidero da tutte le persone del mondo è che
vivano la loro vita,
non che si nascondano nelle loro debolezze. Riflessione personale, eh,
non
voglio costringerti – aggiunse poi, preoccupandosi di non
sembrare un mastino.
Voleva aiutarlo, certo, ma voleva anche insegnargli qualche cosetta che
non
avrebbe sicuramente messo in pratica sul momento, ma il cui germe
sarebbe
cresciuto, prima – sperava
– o poi.
Federico
sembrò ragionarci su un attimo, e ne
approfittò per andarsi a prendere un bicchiere
d’acqua. Appena tornato, il
ragazzo gli rispose: – Ok, andiamo.
Mattia
adorava la strada che lo portava da casa al
Prato. Vedeva le varie anime di Padova uscir fuori, vedeva come la
città si era
espansa nel tempo e come dalla sua connotazione medievale si era poi
ampliata,
mostrando poi zone ottocentesche e più spiccatamente
recenti. Quando camminava
su Via Marsilio da Padova, per avvicinarsi al Prato, si accorgeva di
come
quella città avesse più anime. In quel momento
gli sembrava di essere in una
città barocca, come può essere la zona di Via del
Corso a Roma, ma proseguendo
si accorgeva di tornare indietro nel tempo, passando davanti al Palazzo
dell’Università, quattrocentesco. 4
Continuando
poi giù su via Roma, capiva proprio
l’indole medievale della città, su strade coperte
con sampietrini e vicoli che
sbucavano tra le varie case, che si insinuavano come bisce in tutta la
città.
Che dire degli ampi porticati, dell’atmosfera magica che si
respirava! Tra l’altro,
ricordava benissimo come da piccolo si fosse stupito a vedere, come
proprio nel
mezzo di questo groviglio di stradine, comparisse un canale, piccolo,
ma
evocativo. Non era riuscito a trovare più
quell’atmosfera, nemmeno a Venezia,
che era costruita su isole, dove quindi i canali non erano uno scorcio
ma veri
e propri mezzi di separazione. Arrivava così al Prato, che
si espandeva,
enorme, lasciandolo basito, sempre, quand’era piccolo.
Camminare in una
stradina come quella non lasciava neanche lontanamente immaginare che
ci
potesse essere tale maestosità lì davanti. Si era
sentito subito catapultato ai
tempi di Galileo – no, forse si
stava
confondendo, non poteva conoscere Galileo a sei anni, probabilmente era
un
ricordo sovrapposto, ma vabbè – e
adorava sedersi, nel parco, proprio di
fronte alla statua del grande scienziato, dando le spalle alla Loggia
Amulea,
immaginandosi qualche grande famiglia nobile, chiusa nel palazzo, a
governare
la città. Scoprì solo poi che il palazzo era in
realtà molto più tardo, ma non
importava. Continuava a vedere generazioni e generazioni di padovani
vivere lì,
come se si potessero incontrare. Sapeva che fosse un’idea un
po’ stravagante,
ma non se ne importava: di fondo, sentiva empatia con la
città e i suoi
abitanti. D’altronde, non si dice Padovani,
gran dottori? Come poteva non trovarsi bene con tale
tradizione?
Decise,
anche questa volta, di sedersi sotto a un
albero, esattamente di fronte alla statua di Galileo, sempre al suono,
nella
testa, del Padovani gran dottori
–
che poi Galileo neanche era di Padova, ma quello era un dettaglio. E,
tra
l’altro, meglio essere ricordati come gran dottori che come magna gàti.
Avevano
parlato poco per strada, e immaginava il
perché. A Federico, probabilmente, iniziava a mancare il
coraggio. Non lo
dubitava e, anche se pareva brutto da dire, non se ne stupiva neanche.
Già non
si aspettava che alla fine decidesse di parlarne fuori, ma poi parlare
di certe
cose con una persona per la prima volta è difficile. Sembra
quasi di imparare
di nuovo a parlare: parole che non hai mai usato e che non sai usare,
che ti
sembra non abbiano senso, di cui conosci un concetto vaghissimo ma che
non
riesci ad associare realmente. Sembra quasi di tornare bambini, e
Mattia lo
sapeva il perché: ci si ritrovava in
quell’orribile fase in cui si chiede il
perché di tutto, a sette o otto anni. E, talvolta, capitava
il perché più
orribile: perché a me?
L’unica cosa
che poté desiderare fu che Federico non avesse mai pensato a
quella domanda,
perché era l’unica capace di distruggere una
persona. Sentirsi in colpa, pur
non avendone alcuna. Sperò solo che capisse che dovesse
essere fiero di quello
che fosse, perché era parte di lui, una caratteristica, come
l’essere biondo.
Avrebbe avuto alcuni stereotipi contro, ma una persona bionda non si
tinge
perché il biondo è sinonimo di
stupidità.
Forse
avrebbe dovuto provare a rompere il ghiaccio
con qualche frase. Non ad effetto, magari, più sentita e
forse intima.
–
Sai, è qui che ho visto per la prima volta An. Ero
seduto qui, era l’estate di quasi tre anni fa, e stava
trascorrendo le vacanze
dallo zio, prima che gli lasciasse la casa per studiare qui. Mi ha
raccontato
che si trovava bene qua, si riposava e l’atmosfera gli
piaceva. Beh, non potevo
dargli tutti i torti. Io ero seduto ad ascoltare musica, qui, tanto per
rilassarmi, e mi si avvicina questo ragazzo per chiedermi una
sigaretta. Lo sai
qual è la cosa comica? An non ha mai fumato.
Federico
fece una faccia strana, come se credesse
impossibile che avvenisse una cosa del genere. – Scusa? E ti
ha abbordato così?
Come faceva a capire che fossi… – non
finì la frase, imbarazzato. Appunto, non
era facile parlare di queste cose. Già era un passo avanti,
quanto meno s’era
fatto capire.
–
Guarda, è difficile da spiegare. Sul momento me lo
son chiesto anche io, che comunque ero piccolino e aveva limitatissima
esperienza, non potevo capire come mai ci avesse provato con me. Pensai
all’inizio che si era buttato, roba da matti, per inciso,
perché gli
interessavo, ma poi mi sono accorto col passare del tempo che
è una cosa che
senti. Non si è infallibili, ma mano a mano che diventi
esperto, capisci se una
persona è tendenzialmente gay o meno. Lui aveva visto in me
quello che aveva
già passato prima. Aveva notato la contraddizione che
c’è in ogni gay non
dichiarato, tra la verità e la bugia. Sembra che siano i
gesti, l’aria, non so.
So solo che lo capisci, e chiaramente – rispose, con
tranquillità,
appoggiandosi al tronco dell’albero. – Ci vuole
tempo, ma lo capisci. Meglio
tardi che mai, no?
Si
infilò le mani in tasca, e vide Federico
pensieroso, forse non troppo convinto. – Considera che ho
capito che tu lo sei,
per cui non vedo perché lui non avrebbe dovuto capirlo.
–
Beh, non ti conosceva, o sbaglio?
Ci
pensò su, ma poi rispose tranquillamente: –
Giusto. Boh, vabbè, non m’interessa.
Avrà buon occhio.
–
E tu, se non è troppo personale – aggiunse subito,
preoccupandosi di non suonare indiscreto – come te ne sei
accorto?
–
Se non hai problemi a trattare temi sessuali, te
lo posso raccontare– gli rispose, cercando di captare un
segno di ciò che
pensasse davvero. Federico annuì, anche abbastanza
energicamente, e quindi gli
rispose: – Tante volte mi facevo una pippa, e mi ritrovavo a
pensare a qualche
ragazzo, magari visto per strada, in bus, ma me lo immaginavo.
All’inizio, più
che spaventato o disgustato, son rimasto interdetto. Diciamo che non
è che uno
si sveglia la mattina e si immagina di succhiarlo ad un altro, diciamo,
–
sorrise, cercando di non preoccuparlo, ma lo vide molto interessato. Questo finisce nella gabbia dei leoni, me lo
sento – per cui son rimasto così. Poi
per un po’ ho fatto finta di niente,
fino a che non mi sono accorto che mi piaceva da morire. Diciamo che me
ne sono
accorto così, dal lato fisico. Dal lato sentimentale, beh,
quando ho incontrato
An.
–
Tipo? – Curioso,
il ragazzo.
–
Mi sono accorto che non volevo soltanto andarci a
letto. Volevo passarci le giornate, baciarlo, toccarlo, anche,
sì, ma non era
solo corpo, era anche mente. Quando ti prendi una sbandata del genere
per un
uomo, ti tocca ammettere, anche non volendo, che gli uomini ti
piacciono. Anche
perché l’hai visto, non assomiglia per
niente ad una donna. Sbaglio?
–
No, certo. Bel ragazzo, tra l’altro –
replicò,
sovrappensiero, prima di rendersi conto della frase. – Oddio,
no, scusa, non
intendevo… – lo vide cercare di scusarsi, ma lo
fermò prima.
–
Tranquillo, non m’offendo. Finché sono
apprezzamenti
gratuiti, s’intende – aggiunse, con una faccia
pseudo truce, prima di mettersi
a ridere. Notò come l’atmosfera ormai fosse
tranquilla e che fosse bastato
pochissimo per far uscire Federico dal suo guscio. Sì, la
sua compagnia gli
stava facendo davvero piacere.
O
meglio, c’era ancora un filino di preoccupazione,
e si sentiva il perché. Voleva sapere del sesso, e lo
capiva. Si è omosessuali
anche nell’ambito del sesso, non solo dei sentimenti. Anzi,
per alcuni solo del
sesso, ma sperava non fosse il suo caso.
–
Dai, lo so di cosa vorresti parlare – gli fece,
ammiccando, dandogli un colpetto sul gomito. – Non te ne
vergognare. È tutto un
pacchetto completo.
Sentì
Federico lanciare un breve sbuffo – che
non riuscì a far confondere col vento
che stava soffiando. Colpito e affondato – prima
che gli rivolgesse la
tanto agognata domanda: – Com’è?
Neanche
aveva chiesto, come prima cosa, se facesse male. Zio can, ma che tipo
si era
beccato? Era attivo, forse?
–
Diciamo che dipende. Le prime volte è strano,
soprattutto da passivo, perché non è
così agevole, diciamo. Le prime tre o
quattro volte, a dirla tutta, non sono neanche venuto. Era piacevole,
ma boh,
ero bloccato. Penso che però questo valga per ogni
esperienza sessuale. Ne hai
con donne, te? – chiese, e al segno di diniego di Federico,
continuò. – Ti
senti un po’ come se niente fosse come prima. Ti dico pure
che da passivo è più
forte l’idea. Mi sentivo completamente scombussolato, e dopo
aver fatto, mi
sono guardato allo specchio e non riuscivo a riconoscermi. Non
è che ti
femminizzi, non pensar male. Forse è lo sguardo a cambiare.
Comunque penso che
le emozioni varino da persona a persona. Però ti do un
consiglio personale.
–
Tipo? Usare sempre il preservativo? – chiese,
prima di mettersi a ridere. – Tranquillo, penso di essere
troppo ipocondriaco
per non fare attenzione a queste cose. Le malattie veneree non sono una
cosa
che vorrei incontrare in maniera ravvicinata.
–
No, tranquillo, per quanto riguarda l’educazione
sessuale, penso e spero che tu sappia quello che devi sapere, era
più un’avvertenza
di altro tipo. – Sorrise, dandogli un colpetto su una spalla.
– Quando vorrai
farlo, dovrai sentirtelo per davvero. Altrimenti rischi di credere che
stai
facendo la cosa sbagliata, e per questo ti consiglio io personalmente
di farlo
con una persona con cui hai feeling. Amici, fidanzati, non gente appena
incontrata, cioè, non le prime volte almeno,
perché l’idea te la fai così.
Decidi te, eh, ma è una mia personale opinione –
aggiunse poi, insicuro che
suonasse come un ordine. Beh, in fondo voleva che venisse su in un
certo modo –
ancora con istinti paterni!
– non
come una troietta che andasse a fottere nelle dark room. Poi magari, al
Pride
ce lo portava lui,
per divertirsi, per
ballare, per entrare nell’ottica gay e non chiedersi perché.
–
Ah, altro avviso: ci sono tanti attentatori alle
virtù dei verginelli. Sta attento, soprattutto se non sei
sicuro di volerlo
prendere – gli fece un occhiolino, prima di mettersi a ridere.
Continuarono
a parlare per parecchio ancora, di
sottigliezze, di sesso – perché
tira più
un pelo di… – e roba simile, prima che
arrivassero al tanto temuto
argomento del coming out.
–
Cioè, scusa. – chiese Federico, arrossendo, forse
preoccupato di dire stupidaggini. – Ma tu oggi hai fatto,
diciamo, coming out
così, semplicemente dicendo che stavi con un uomo. Ma
è davvero così facile?
La
domanda lo imbarazzava, ed era palese. Era anche
giusto e normale: la cosa più difficile di tutte non
è il praticare –
sessualmente o sentimentalmente – ma il viverlo senza doverlo
nascondere. Era
una rogna mostruosa, difficilissima da gestire, soprattutto da soli.
Bisognava
conoscersi bene, già solo per accettare di essere gay,
figurarsi prima di
ammetterlo davanti ad altre persone!
–
Vorrei dirti di sì, ma no. Cioè, a meno che non
te
ne freghi niente di nessuno, all’inizio è un
incubo. Io ti posso dire una cosa:
a me importava solo che le persone a cui tenevo davvero, come la mia
famiglia,
lo sapesse. È stato un periodaccio, perché varie
volte ero quasi arrivato a
dirlo, ma era difficile, difficilissimo. Quando gliel’ho
detto, non ho avuto
più problemi e ho iniziato a parlare di An come ho fatto
stamattina. Il prima,
però, ti fa rimettere sangue.
–
Brutta immagine – constatò lui, sospirando.
–
Già, ma realistica. E non sei mai sicuro se andrà
bene o male, è quella la cosa orribile. È quello
che ti dilania dentro. Ti
posso dire, per la mia esperienza, che poi ti senti meglio. Ma non oso
immaginare cosa possa accadere nel caso in cui non ti accettino. Niente
di
positivo, ecco. – Fece una pausa, prima di avvicinarsi a
Federico, spalla a
spalla, per fargli capire che parlava con lui, ma soprattutto con se
stesso. –
Il bello del genere umano è questo: ognuno
reagirà in maniera diversa agli
stimoli. Diventa, però, un boomerang micidiale, quando ci
sarebbe bisogno di
certezza matematica e invece c’è solo un calcolo
probabilistico. Zio can, sto
parlando come An. – Ridacchiò ancora, prima di
stendere bene la testa
all’indietro sull’albero, intento a guardare il
cielo nuvoloso attraverso le
fronde. – Tutto è relativo, anche noi lo siamo. E
l’essere umano attacca
etichette a rotta di collo per avere certezze, creandosi solo problemi.
Bisognerebbe essere ciò che si sente, senza aver paura o
bisogno di
etichettature. Fare ciò che si sente, perché in
molti casi non si può
scegliere. Non si può scegliere di credere in un Dio o in un
altro, non si può
scegliere dove si nasce, non si può scegliere chi amare. Non
si può scegliere
di essere timidi o estroversi, e chi pensa di poterlo fare, si prende
in giro e
si snatura. È orribile cercare di essere chi non si
è.
Si
sentì lo sguardo di Federico addosso, come se
tutto quel discorso lo atterrisse, ecco. Sapere di essere schiavi
dell’etichetta era orribile, e anche lui, spacciandosi per
gay, ci sarebbe
caduto. Non che non lo fosse, ma non doveva dire di esserlo, punto.
– Per
quello io parlo così: per quello non ho mai detto
“sono gay”, ma ho parlato di
An al maschile. Per quello stamattina ho detto così quella
frase. Io non sono
in un etichetta. Io so cosa provo, e so che amo Andrea. Nothing
else matters. Sarebbe
potuto essere un uomo come una donna, ma non ci innamoriamo del sesso,
ma di
quello che una persona è. Sai quante persone si sono
riscoperte gay dopo aver
preso una cotta pesante per qualche loro amico? Anche a venti,
venticinque
anni. Non c’è un tempo in cui capita,
perché non è detto
che capiti. Vedi, secondo me non è un discorso facile da
affrontare, perché i sentimenti sfuggono alla logica.
È tutto relativo ed è
impossibile catalogare, e anche inutile, a dirla tutta.
È… boh. Basta seguire
se stessi, son convinto di questo. Il resto, chissenefrega.
– Gli
sorrise, prima di concludere con una raccomandazione che, ovviamente,
si era
dimenticato di fare a monte: – Questa è la mia
opinione, eh, non devi seguirla
per forza. Come t’ho detto, ognuno reagisce in maniera
diversa agli stimoli.
Meglio condividerli, però, altrimenti tutto il mio discorso
sarebbe ipocrisia.
Forse è un po’ contorto il ragionamento, mi
capisci?
–
Sì, sì, lo capisco. – Federico gli
sorrise prima
di sdraiarsi accanto a lui sul tronco dell’albero.
– Chi vivrà, vedrà. Ora non
posso dir molto, capisci. Non so come si viva in questo mondo.
–
Oh, ma quello è semplice. – Gli fece un
occhiolino, prima di gettare una frase ad effetto che non sarebbe mai
stata
colta, almeno non nell’immediato. – Fare
ciò che si sente.
Trascorsero
un po’ di tempo, ancora lì, al Prato,
prima di fare un giro, diretti verso la stazione. Di rifargli fare
tutta quella
strada a piedi da solo non gli andava molto, per cui aveva deciso di
accompagnarlo almeno fino in stazione. Si erano fermati in un bar per
strada,
non aveva neanche fatto caso a quale, giusto per farsi uno spritz, come
ogni
pomeriggio o sera in compagnia. Avevano chiacchierato di altri
argomenti,
musica, robe leggere, perché ormai avevano da recuperare un
po’ anni a
scambiare due chiacchiere così, tanto per. Si erano trovati
a fare prima
discorsi seri, sempre per l’idea che ognuno reagisce a modo
proprio. Con lui,
gli era venuto più naturale parlare di coming out e
omosessualità che di altro.
Forse era la volontà di preservarlo – basta,
istinto paterno, vattene! – o forse era solo che
il loro rapporto si doveva
evolvere così, senza troppe pippe mentali.
Dopo
averlo accompagnato e invitato a una serata da
qualche parte con lui, An e i suoi amici, Mattia si
incamminò nuovamente verso
casa, fischiettando allegramente e salutando, di tanto in tanto,
qualche
studente di Lettere che incontrava spesso. A vivere sopra
all’università
capitavano anche queste cose. Rientrò in casa che era,
obiettivamente, un po’
esausto.
–
Zio can, vedi ad affrontare tutti sti discorsi
assieme? Poi ti ritrovi distrutto per il carico di emozioni suscitato
–
borbottò, mentre si affacciava sulla finestra che dava sulla
strada. An non era
ancora tornato, stava facendo decisamente tardi. Gli sembrò
di vederlo
avvicinarsi in lontananza, aveva un cappotto rosso vistosissimo e quasi
inconfondibile. Camminava di fretta, probabilmente per il freddo: ok,
non
nevicava e non pioveva, ma comunque era freddo e parecchio. Lo sentiva
anche
nelle ossa, il freddo, e solo lì a casa col riscaldamento
acceso stava
tranquillissimo. Lo sentì salire le scale: sì,
era decisamente lui, non vedeva
l’ora di accoglierlo in un caldo abbraccio e dargli qualche
bacetto. Appena
entrò in casa, lo salutò e gli diede un bacio, ma
si rese subito conto che era
successo qualcosa. Era nervosissimo, lo aveva ricambiato di sfuggita.
Non era
arrabbiato con lui, altrimenti l’avrebbe scostato,
semplicemente. Il problema
era altro.
Lo
osservò andare in cucina e prendersi un bicchiere
d’acqua, andare avanti e indietro per la cucina per cercare
qualcosa da
mangiare, prima di buttarsi, distrutto, sul divano.
Non
serviva neanche chiedere, sapeva che a breve,
dopo aver finito di bere, avrebbe iniziato a parlare. Infatti,
così andò.
–
Quegli altri imbecilli mi hanno fatto innervosire
– iniziò, dando un colpo sul bracciolo.
– Si comportano da idioti beceri quando
fanno così. Lo spritz mi è andato per traverso,
zio boe.
Bene,
aveva anche capito di chi parlava. I suoi
amici gay dell’università. Cazzo, non
l’aveva mai visto così arrabbiato, o
meglio, almeno non con loro. Dovevano averla fatta grossa, assai grossa.
–
Che hanno fatto? – gli chiese allora, cingendogli
le spalle con un braccio.
–
Varda se stavolta non li uccido. Si comportano
proprio come quelli che criticano. Zio can –
continuò a borbottare, e la
sequela infinita di pseudo bestemmie – seppure
minori rispetto allo standard della zona –
preoccupò parecchio Mattia, che
gli diede un bacio, nella speranza di calmarlo. Anche perché
sembrava quasi
confuso, e non è che ci stesse capendo molto, in
realtà.
An
gli rispose e, pian piano, sembrò calmarsi.
Appena si staccarono, Mattia lo guardò negli occhi, prima di
ascoltare quello
che era successo.
–
Gli stavo raccontando la scena madre di stamattina
tua con la professoressa, tranquillamente, e stavo raccontando come tu
fossi
stato bravo a cavartela, ma ad un certo punto Giacomo ha detto
“Fanculo a ‘sti
etero di merda!”. E tutti gli altri dietro, come dei
cagnolini, lanciando imprecazioni
su imprecazioni contro questa stronza che aveva cercato di
discriminarti –
disse, prima di fermarsi a respirare e a sbuffare. – Il
problema è che non
hanno capito che si stavano comportando come lei, la stavano
discriminando in
quanto etero. Non era giocoso, era feroce, perfido. Mi son sentito a
disagio e
abbiamo discusso, chiedendogli se fossero scemi a comportarsi come non
volevano
che si comportassero gli altri. Sai qual è stata la risposta?
Questa
volta, a sbuffare, fu Mattia. – Che se ci si comportano
gli altri per primi, perché non possono farlo anche loro?
–
Già. – concluse, lapidario, fissando il bicchiere
che aveva poggiato sul tavolino. Era nero di rabbia, Mattia lo vedeva,
e sapeva
di poter far poco. Come fare a cambiare la mentalità di una
persona? Sarebbe da
illusi, da utopisti, o da folli, neanche ci si trovasse in 1984.
–
Che ci devi fare? Alla fin fine, è una loro idea,
che ti piaccia o meno. In questo caso, meno, lo capisco –
aggiunse poi, mentre
vedeva il volto del ragazzo sempre più scuro.
Più
o meno lo capiva: uno sfugge per una vita alle discriminazioni in
quanto gay,
tante persone etero non fanno storie – in
quanto persone,
appunto – e poi ci si ritrova con
degli
amici gay che ripropongono quelle discriminazioni e disuguaglianze alla
società.
–
Lo so. Ma mi dà fastidio uguale. Più che altro,
mi
dà fastidio che non se ne siano accorti, perché
troppo presi contro il nemico –
sibilò, rimarcando l’ultima
parola con una rabbia strisciante.
–
Dai, magari ci penseranno su, visto come te ne sei
andato, e magari si rendono conto dell’errore. Non disperare.
– Sorrise,
accarezzandogli la guancia. Ma non finì di parlare, Andrea,
non così
facilmente.
–
Non è quello, amore. È che non capisco
perché non
ci si possa voler bene e coesistere senza dover lottare gli uni contro
gli
altri.
Mattia
gli rispose, lasciandolo sgomento: – Perché
senza lotta, non c’è potere. E ci è
sempre stato insegnato a lottare, in
qualche modo. E perché la legge del taglione è
sempre la più gustosa. L’unica
cosa che possiamo fare è sperare che le persone cambino e
son sicuro che, pian
piano, non ci sarà neanche più bisogno di questa
lotta. Nel corso dei secoli si
sono esaurite tante lotte, perché non dovrebbe finire anche
quella tra etero e
omosessuali?
–
Quanto sei filosofico – disse, ridacchiando, An.
Finalmente si era calmato, forse era la positività insita
nel discorso, o forse
era la paura che anche nel suo stesso fidanzato ci fosse un eterofobo
nascosto,
che era stata sicuramente fugata da quella frase. –
Vabbè, hai ragione tu.
L’importante è non farlo noi per primi.
–
Figuriamoci. Gli eterofobi sono etero repressi, e,
sinceramente, io non so se mai andrò con una donna, e
neanche mi interessa. Al
momento, mi basta vivere i miei sentimenti. Compresi quelli per te.
E
Andrea, come risposta, tirò fuori il suo
sentimento di quel momento, la voglia di ridere, tirandogli un cuscino
del
divano addosso.
Aerials in the sky
When you loose small mind
You free your life
Aerials, so up high
When you free your eyes
Eternal prize.
*Piccola
parentesi divertente: la frase iniziale
era, in realtà “l’arrotino che
passava…”: il problema è che, come mi
è stato
fatto notare, è una cosa romana – a tal proposito:
chi non ha forbici da seta a
Roma?! – e che a Padova non esiste. Vabbè. XDDDD
1
La legge sui
matrimoni gay fu bocciata a fine
marzo
da referendum popolare, in Slovenia, per cui la storia può
essere ambientata
attorno alla metà di Marzo.
2
Per essere
precisi, mi sono immaginato che abiti nei dintorni della
Facoltà di lettere,
che sta dall’altra parte dell’Adige rispetto alla
stazione. Giusto per
completezza.
3
La citazione è
tratta dalla canzone No One Spoke del
gruppo olandese The Gathering.
4
Lo dico da
subito, le informazioni non saranno precise, se non in pochi casi, ma
per una
volontaria scelta di voler cercare di mantenere una certa atmosfera.
Gli anni
sono relativi, di fronte all’atmosfera.
Note
finali!
Inizio
esordendo con un enorme “CHE FATICA!”.
C’ho
messo una vita e mezza a scrivere questa shot, perché
è un argomento
obiettivamente molto difficile e caustico da trattare, e ho dovuto fare
in modo
di “frenarmi” per non andare in depressione (XD) e
per non metterci troppo di
mio dentro. Tra l’altro, quest’ultimo è
un progetto in cui ho miseramente
fallito, perché questa serie di argomenti segna chi li ha
vissuti, tantissimo,
per cui alcune sensazioni non sono – purtroppo –
frutto d’inventiva. Non ci
dovrebbe essere troppo, quantomeno, però è stata
comunque un’agonia.
Faccio
la stessa premessa che fa Mattia nella
storia: NON è un argomento con risultato univoco o con
procedimento matematico
che viene portato avanti. Ho cercato di portar avanti
un’analisi completa delle
varie opzioni, senza sfociare (ancora!) in campo di logica e di
probabilità, ma
spero che traspaia un’idea del personaggio – quella
sì, coincide perfettamente
con la mia idea. Diciamo che ho cercato, da un lato, di incoraggiare al
coming
out, ma com’è giusto che sia si avverte anche dei
rischi. Si chiama “consenso informato”
:P.
In
realtà, il titolo non doveva essere questo, ma
“We are the Others”, dall’omonima canzone
dei Delain – che non mi appartiene,
appunto – solo che avrebbe cozzato col messaggio della shot.
Perfect World è
meglio, e vi consiglio di guardare il video, a tal proposito, che
potrebbe
darvi una sfumatura diversa sulla canzone.
Si
ringrazia Nyappy per il betaggio, e vi prego,
abbiate pietà per eventuali romanate: ho cercato di affinare
e di rendere il
tutto più “veneto” possibile, ma io so
benissimo di non esserci riuscito. Anzi,
se potete, ditemi che correggo ;). Lo so, avrei potuto ambientarla a
Roma, ma è
dall’idea iniziale che sono convinto che si sia svolta a
Padova, città nella
quale sono già stato e a cui son collegati non proprio bei
ricordi in assoluto.
Facciamo che l’ho anche utilizzata per esorcizzare un
po’ tutto :P. Ah, e
aggiungo che il fatto che Mattia non abbia alcuna descrizione fisica,
come
Andrea e come in parte Federico, è totalmente voluta. Chi
capisce il perché
faccia un fischio ;)
La
storia partecipa al contest “Lo Slash è un
diritto”, indetto da Il_Genio_Del_Male e Florelle, ho usato il
prompt
“semplicemente” (come il modo in cui parla Mattia
dell’argomento) e usato sia
il tema del coming out, dell’omofobia e – anche se
non inserito, ma per me
degno di nota – dell’eterofobia. Per il resto, beh,
spero vi piaccia, è venuto
un mattoncino bello lungo :P
Alla
prossima, allora, penso con nuove trashate sul
mio standard!
Ciao!
–RaspberryLad–
P.s:
Disclaimer: Perfect World, Aerials e No One
Spoke non mi appartengono, appartengono a Gossip, System of A Down e
The
Gathering rispettivamente e alle loro label. Niente scopo di lucro, per
cui
scialla.