Brucio, come carta vecchia.
Avvolta nel suo fumo, ne divento un’estensione,
senza peso, nessuna ribellione.
Non
c’è motivo che io rimanga, ma non mi muovo, rimango fra le mie dita a farmi
consumare.
Divento
piccola, brucio, all’interno, fra i margini frastagliati del mio corpo, mi
ripiego su me stessa come un fiore appassito, petalo per petalo, sono cenere.
Buttata
in mezzo al mondo.
E’
l’ultima sigaretta lo giuro.
La
seconda e ultima sigaretta della mia vita.
La prima sigaretta è stata una miccia
di ribellione, fumata di nascosto dietro alla palestra della scuola.
E’ stata quella prima fragile speranza
dal cuore di tabacco a portarmi qui, dove la seconda sigaretta della mia vita
incenerisce fra i ricordi e fra le mie dita affusolate e si porta via di nuovo
come la prima tutta la speranza;esattamente sette anni dopo.
In un anno può succedere di tutto, in
sette anni io sono morta e resuscitata.
Come un gatto sono sopravvissuta per
sette volte.
Ora devo cercare di sopravvivere per un’ultima
volta perché non ho altre chance, devo cercare di tenermela stretta
quest’ultima vita o più che altro imparare a starci bene dentro.
Mi è rimasta solo questa.
Ho iniziato a vedere la vita come un
gioco a livelli quando avevo diciassette anni e frequentavo il liceo.
Quando grazie a Dio il liceo è finito,
mi sono resa conto a mio malgrado che la mia vita continuava a essere
un’alternarsi di ostacoli da superare e livelli da completare.
Nell’estate della mia maturità, l’estate
più torrida che io ricordi ho capito che, non la mia in particolare, ma la vita
in generale è un gioco a livelli.
I miei esami andarono di merda ma alla
mia migliore amica Emma andò peggio.
In quell’estate maledetta perse sua
madre, per una terribile malattia.
Mentre le stavo vicino, capì per la
prima volta di non essere la protagonista della mia vita ma solo un semplice
figurante, una pedina forse.
E mi andava bene così.
Mi dimenticai di me e passai l’estate a
prendermi cura di Emma e della sua famiglia recisa, a spiegare i suoi silenzi a
chi non li capiva, a sentirmi utile, viva.
Esattamente sette anni dopo, l’invito
al matrimonio di mia sorella arrivò in un autunno ancora caldo e rosso come una
fiamma.
L’elegante e smaltata grafica del
biglietto ripiegato con cura all’interno di una busta glicine non lasciava
dubbi ma io ci misi almeno un minuto per capire ed elaborare che era
chiaramente un raffinato invito a un matrimonio.
Il primo della mia vita.
Il più temuto.
Non vedevo mia sorella da due anni ma
da quell’invito sapevo che si stava per sposare e che inaspettatamente voleva
che fossi lì con lei.
Nessuna telefonata in due lunghi anni, neanche
un sms per augurarci buon Natale o buon compleanno e ora m’invitava al suo
matrimonio.
Attesi per un lungo istante, che mi
sembrò eterno che quel cartoncino color carta da zucchero si sbriciolasse fra
le mie mani, ma rimase lì fiero e consapevolmente inatteso ad aspettare una mia
reazione.
Ma io e la reazione siamo agli antipodi,
come il sole e la luna condividiamo il tempo e lo spazio ma non entriamo mai in
collisione.
Ci scansiamo a vicenda.
Così la mia reazione fu nulla, quel
biglietto finì sotterrato dal disordine del mio appartamento così come la sua
comparsa nella mia vita già abbastanza tragica.
Una settimana fa mentre il rosso si
stemperava, ritornò a galla.
Quell’invito fu solo l’inizio di quella
che si potrebbe definire un’anabasi: una spedizione verso l’interno, l’interno
di me stessa, della vita che avevo scelto, di ciò che temevo di più o al
contrario di ciò desideravo ardentemente.
Una notte quando il silenzio del sonno
era pericolosamente minacciato da una festa nell’appartamento accanto al mio, avevo
ripensato a mia sorella e all’invito al suo matrimonio.
Parteciparvi non significava solo
lanciarsi senza paracadute nel nostro rapporto problematico ma anche tornare
nella città in cui ero nata e vissuta sino ai miei vent’anni:Bari.
Provai a immaginarmi di nuovo a casa ma
sono un’abitudinaria, una che si culla nelle consuetudini e certezze
quotidiane, e il mio letto sicuro ora era lontano anni luce dal posto in cui
ero nata, solo il pensiero di ritrovarmi catapultata nella mia vecchia vita mi
lasciava inquieta e nervosa.
Quella notte dormii pochissimo e così
quella successiva e l’altra ancora.
Intanto il mio capo mi aveva dato le
ferie che avevo chiesto da almeno un anno e che ora sembravano spuntare
fatalmente.
Il destino a volte fa dei giri immensi
per farci ritrovare esattamente dove dovremmo essere e così il mio destino
specialmente nelle notti insonni mi convinse che quello che dovevo fare era
scritto da qualche parte nell’astro e che qualsiasi cosa avessi fatto per
sfuggirlo, sarebbe stato inutile. Era scritto.
Così l’invito ricomparse, un po’ impolverato ma sempre
carico di aspettative e di timori.
Una mattina, nel dormiveglia dei risvegli sognai mia
sorella vestita di bianco che attraversava la navata e ad aspettarla non c’era
lo sconosciuto dell’invito ma c’ero io, in smoking.
Mi svegliai di soprassalto e capì che dovevo
affrontare quel maledetto matrimonio.
Quando la voce metallica annunciò l’apertura del
check-in per il mio volo, fui costretta senza neanche troppa disperazione a
buttare la sigaretta che tenevo goffamente tra le mie mani e a spostarmi dalla
sala fumatori al gate di partenza, trascinando con me il bagaglio a mano che
già consideravo di aver riempito troppo.
Emma mi aveva costretto a portare tante cose inutili
cui avrei fatto volentieri a meno ma che lei considerava fondamentali, come un
barattolo di una crema costosissima al mango e aloe o la piastra da viaggio con
annessi diversi beccucci per le varie acconciature.
Ripensandoci non riuscii a non sorridere
considerando che ero allergica al mango e che i miei capelli in sostanza
potevano essere o lisci come spaghetti o gonfi come quelli di Mafalda, nessuna
piastra avrebbe potuto cambiare le cose.
Passata indenne il controllo, raggiunsi la navetta
per l’aereo conquistando un posto seduta, che un secondo dopo cedetti a una
donna incinta alle prese con un marito incompetente e un bambino capriccioso.
Un’anziana mi sorrise per il gesto, accanto a lei un
ragazzo mi squadrò per un secondo per poi tornare a maneggiare con il suo
blackberry.
Il volo fu abbastanza tranquillo nonostante qualche
attacco isterico del bambino capriccio e le lamentele di un cinquantenne
riguardo la mancata presenza a bordo della sua marca preferita di biscotti
secchi.
Il ragazzo del blackbarry che sedeva qualche fila
avanti a me, si alzò una volta per andare il bagno, un’altra per chiedere a una
hostess una penna.
La seconda volta che si alzò intravidi nella tasca
dei suoi jeans un taccuino arrotolato e il mio animo d’investigatrice si stupì
che uno che si porta dietro un taccuino non si porti dietro anche una penna.
Conclusi che forse cercava solo una scusa per
attaccare bottone con l’avvenente hostess.
Dio solo sa quello che gli uomini possono inventarsi
per approcciarsi al genere femminile! Io avevo sperimentato sulla mia pelle gli
approcci più incredibili e inconcludenti, a volte persino inquietanti.
Emma mi diceva che ero una specie di calamita per un
certo tipo di uomini.
Io semplicemente ero convinta di non essere brava
con i rifiuti.
Nella mia vita non avevo mai detto no ad un uomo e i
miei uomini per qualche strana proprietà transitiva non riuscivano a dire di no
alle altre donne, divertente no?
L’atterraggio un po’ brusco mi riportò letteralmente
con i piedi per terra.
Scesi dall’aereo e rimasi avvolta per un secondo da
un tepore che non mi aspettavo, sembrava che lì l’estate non se ne fosse mai
andata.
Mi liberai del trench che appallottolai nella borsa
e raggiunsi correndo la navetta.
Questa volta nessuna famigliola in difficoltà mi
tolse il posto seduta.
Ero distrutta, in fondo il volo era durato solo un
paio di ore, ma solo l’idea di essere tornata a casa mi faceva sentire
psicologicamente e fisicamente una pezza.
Davanti al nastro in attesa del bagaglio mi sentivo
quasi sotto ipnosi e speravo con tutta me stessa che mi avessero perso il
bagaglio, avrei avuto una scusa per ritornarmene a Milano,al grigio
rassicurante dei suoi palazzi e del suo cielo.
Un fischio mi distolse dai pensieri e il nastro
incominciò a muoversi e a sputare i bagagli.
Mi guardai intorno, fui contenta che l’insopportabile
famigliola fosse stata la prima a ritirare i propri bagagli, quel bambino stava
iniziando a darmi sui nervi.
Così come fui felicissima nel vedere che il ragazzo
con il blackberry si fosse volatilizzato, per tutto il tratto dall’aereo al
ritiro bagaglio, infatti, non aveva fatto altro che guardarmi il sedere,
sentivo i suoi occhi puntati addosso, e la nuca formicolarmi.
Riconobbi il mio bagaglio color cachi con qualche
sfumatura fucsia che spiccava sempre su tutti, era stata Emma a regalarmelo
proprio per questo.
-Così Chiara nonostante la tua sfiga, è sicuro che
questo non la scambi con nessuno- aveva detto un anno prima, trascinandolo nel
mio salotto tutto impachettato.
Uscii dall’aeroporto e ancora una volta mi sorprese
un caldo inaspettato, un taxi sembrava aspettare proprio me e lo presi al volo.
Il tassista sistemava i miei bagagli quando vidi nel
bagagliaio aperto di una macchina dall’altra parte della strada, un trolley
identico al mio e un lampo mi attraversò la mente e divenne di disperazione
quando vidi sbucare dalla valigia che avevo caricato in macchina una cravatta. Non
mia chiaramente. Cazzo.
-Segua quella macchina- Scossi la testa incredula di
aver appena pronunciato la frase più banale mai stata scritta per la
sceneggiatura di un film d’azione.
Eppure ero proprio io a urlare nell’orecchio di un
burbero tassista di sbrigarsi e inseguire una macchina qualsiasi nel traffico
della tangenziale,all’ora di punta.
Cercai sulla valigia che avevo qualche indizio che m’indicasse
di chi fosse ma la volpe che aveva preso la mia valigia era più furba di quanto
pensassi e non aveva lasciato nessuna traccia della sua esistenza nel mondo.
Doppio cazzo.
Se avessi perso la macchina avrei detto addio alla
mia valigia.
E mentre quella rivelazione lampeggiava nella mia
testa come l’insegna di un casinò a Las Vegas, il taxi scivolò sulla strada ,il tassista
scosse la testa e pronunciò le fatidiche parole –l’abbiamo persa- seguite
subito dopo da un mio lapidario –adieu-