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Autore: TonyCocchi    18/09/2012    3 recensioni
“Questo… Era per una sorpresa. Per Emily. So che partorire fa un male cane quindi… le avevo portato qualcosa che potesse farla sentire meglio.” […] “Però ormai non importa, non se ne fa niente…”
Una donna che non riesce a far nascere il proprio bambino, e un fratello sbandato in cerca di riscatto che crede di poter fare la differenza. È la persona giusta col rimedio giusto, o solo un derelitto che ha scelto il momento sbagliato per tornare? Chi sarà disposto a dargli di nuovo fiducia?
[Presenza di Nyotalia: America]
Genere: Drammatico, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Giappone/Kiku Honda, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Hetalia - Little bird

Salve a tutti, cari lettori!

Come già accennato in altre introduzioni, di questi tempi capita spesso che io abbia un sacco di idee diverse da non riuscire a decidermi su quale scrivere, e che così finisca col non scrivere proprio nulla… Ancora una volta però, sono riuscito a sbloccarmi e, pensate un po’, sono rimasto a scrivere fino all’una di notte XD
Che il mio io scrittore volesse recuperare?

Questa AU sarà ambientata nel nostro mondo, anche come mio esercizio per scrivere in maniera più reale, e mi è stata ispirata da una canzoncina scoperta guardando la tv e poi cercata su internet (nella storia sarà inserito il link, ascoltatela mentre leggete! ^__^); ci sarà modo, per un Alfred che in questa fic apparirà ridotto abbastanza malino, di riscattarsi con una delle sue imprevedibili gesta eroiche?

Buona lettura, spero vi piaccia!

 

PS: GERMANIA X ITALIA ORA E SEMPRE!

 

NOTE:

Emily è Fem!America, qui c’è il suo design: http://sparxpunx.deviantart.com/gallery/?q=emily&offset=0#/d3idxq6

 

 

 

 

Suo padre Arthur è il primo ad alzarsi non appena mette piede nella sala d’aspetto del reparto maternità. Non è chiaramente contento di vederlo, al punto che non ha sprecato un attimo per la sorpresa, passando direttamente alla rabbia.

Perfetto, pensa Alfred, finora nulla che non ti aspettassi di già.

“Non ci credo.”

“Ciao.”

Sulle sedie di plastica azzurra vicino le pareti ci sono vari fasci di nervi in attesa, tra i quali gli riesce facile riconoscere il marito di Emily in un piccolo asiatico coi capelli a scodella. Così è questo il Kiku che le ha rubato il cuore: in mezzo agli altri aspiranti paparini spicca più per il suo sangue freddo che per gli occhi a mandorla, gli piace. Ma non può osservarlo a lungo, c’è il pezzo grosso in camicia bianca e gilet di lana verde a sbarrargli la strada.

“Di tutti i momenti in cui potevi tornare a farti vivo, Alfred…”
“Questo è quello più giusto?” –prova a concludere.

“Oh, santo…”

Si morde la lingua appena in tempo, come ha sempre fatto ogni istante prima di perdere la sua proverbiale flemma: sempre il migliore.

“Come sta?”
“Non bene, e ora ti ci metti anche tu.”
“Ehi, vacci piano, bello, non ho fatto ancora nulla.”

Suo padre lo squadra dalla testa ai piedi, dopo averlo preventivamente annusato aspettandosi l’alcol piuttosto che un acqua di colonia da quattro soldi.

Da quattro soldi sono anche i suoi vestiti, seppure si nota lo sforzo fatto per dar loro una sistemata: la grossa camicia a quadri un po’ logora che copre la t-shirt è un misto di ordine e stropicciatura, come se ci avesse passato in tutta fretta il ferro che a malapena sapeva usare e tanto bastasse per essere presentabile. Stessa cosa per il jeans. Del piccolo stereo a cd che si è portato dietro nella mano destra non sa cosa pensare.

“Posso vederla?”
“No! E anche se si potesse non pensare che io ti lasci andare da lei!”

“Potrebbe aver bisogno di me.”

“Alfred, non siamo in un film, non scoppierà di gioia al pensiero che il fratellone prodigo è tornato da lei il giorno della nascita del suo primo bambino! Non ti permetterò di farla soffrire ancora di più!”

“Che vuol dire ancora di più?” –chiede in un istante.

“… Il travaglio è iniziato 10 ore fa… Non riesce a farlo nascere.”

Abbozza un passo.

“Non ci provare!”

“Fammi passare!”
“No!”

La mano ad artiglio di Alfred è solo un bluff: l’ultima volta che ha afferrato per la collottola suo padre fu, col senno del poi, il peggior giorno della sua vita e non aveva nessuna voglia di riviverlo. Dal canto suo, il buon vecchio Arthur, non si fa scrupoli ad afferrarlo.

La gara di sguardi e respiri pesanti dura pochi secondi: nemmeno per lui valeva la pena di sprecarsi tanto per lui.

“Papà, ti prego, fammi…”

“No. Non è permesso ai parenti assistere in questo ospedale, finirai col farti buttare fuori dalla sicurezza: l’unica cosa che puoi fare per Emily è andartene via.”
“Sono venuto fin qui apposta.”

Arthur lancia un’altra occhiata perplessa allo stereo. Poi torna a fissarlo negli occhi, dietro quegli occhiali riparati col nastro adesivo.

“Alfred… Sei suo fratello è vero. Suo fratello che se n’è andato di casa millantando di diventare ricco e famoso senza neppure sapere come, dicendoci che saresti tornato da eroe. E come non ci avessi già fatto soffrire abbastanza, le uniche notizie che ci hai fatto arrivare da te provenivano dai commissariati di polizia.”

Ancora nulla di inaspettato fino a quel momento, pensa. È venuto lì confidando nei colpi di scena, nel bene che la fortuna vuole a chi si pente dei propri sbagli; magari in fondo al suo sciocco cuore di sognatore, che aveva fatto si che si sconquassasse da solo una bella vita che già aveva, ha sempre saputo che tutto ciò che avrebbe ottenuto venendo lì sarebbe stato il classico discorsetto che il padre fa al figlio fallito al momento della resa dei conti.

“Non sei diventato né ricco né famoso: solo un ladro e un ubriacone. Lei ha pianto per te, ha pregato per te, per riavere la sua colonna. Ma non è tornata, ed ora ne ha un’altra.”

Un colonna ben più mingherlina e un po’ giallina, ma a quanto pare molto più uomo di lui, grande grosso e stupido.

“Non gli servi. E se ti farai rivedere sarai solo un pensiero in più. E come puoi immaginare, in questo momento ne ha già abbastanza.”

Deve passarsela malissimo, se quel perfettino di suo padre appare tanto piegato.

La sua sorellina ha bisogno di una mano, magari di una inaspettata, di quelle che tutti sperano di veder comparire, e che lui per primo aveva sperato di diventare.

Ma ora si sente dire il classico “troppo poco, troppo tardi”, che una parte di lui sa essere la pura verità.

L’altra parte di sé no, l’altra se ne uscirebbe sparando qualche altra idiozia.

“Io… ho anche trovato un lavoro.”

Eccola. Per quello si che meriti la redenzione.

“Alfred…”

“Io sono il suo fratellone.”

“Avresti dovuto esserlo sempre. Ti prego, non cambierai nulla. Vattene.”

Kiku lo sta fissando. Se non avesse fatto di testa sua a diciassette anni, ora lo conoscerebbe, lo chiamerebbe “cognatino”, e cercherebbe di tirarlo su di morale nell’attesa col suo irresistibile estro di cui tanto si vantava.

Gli piacerebbe avere uno specchio per guardare la sua strepitosa esibizione nella faccia da cane bastonato in quel momento, da oscar.

Non ci aveva voluto credere, dando ancora una volta retta alle sue fantasie, ripetendosi che non avrebbero avuto il coraggio di cacciarlo via, ma si era sopravvalutato. Di nuovo.

“Ciao, papà.”

Preferisce non guardarlo andar via. Arthur si morde le labbra e bada di non mostrare al genero gli occhi lucidi. E come non bastasse, ci pensa un altro sguardo all’orologio a rincarare la dose. Dieci ore di travaglio. La sua bambina soffre da dieci ore filate. E per proteggerla ha dovuto separarsi dal suo bambino, ancora una volta, e non sa nemmeno se abbia fatto bene o meno, se veramente avrebbe rovinato tutto un’altra volta, o se avesse finalmente messo la testa a posto.

Non aveva voluto correre il rischio. Qualcun altro forse l’avrebbe fatto. Ma lui è sempre stato un uomo severo, e non vuole cambiare. Meglio sedersi, e mordersi il labbro.

 

“Alfred-san.”

<< San? >> si domanda, girandosi.

Se avesse saputo un po’ di giapponese, non si stupirebbe più di tanto vedendo che a chiamarlo è stato suo cognato, quel tappo sprizzante ordine dalla testa ai piedi, come una bambola di porcellana, grazie a cui la sua malgrado tutto fortunata sorellina aveva ritrovato la serenità.

Gli fa anche l’inchino; di certo la loro cara America non gli ha insegnato a prendersela un po’ più liberamente a questo tipo.

“Sei il fratello di Emily, vero?”
“Si, ma stavo giusto togliendo il disturbo, tranquillo.”

Se gli hanno raccontato qualcosa sul suo conto, pensa, non è che mica gli è venuto dietro per mollargli un cazzotto per aver abbandonato e fatto soffrire la sua amata? Spera di no perché, contrito, pentito e tutto, non gli sarebbe andata giù farsi malmenare, non senza chiudere un occhio di destro al cognatino.

“Non ho fretta che tu te ne vada. Mi hanno detto di te, poco, ma mi hanno detto abbastanza.”

Alfred sbuffa e si guarda intorno, tutt’a un tratto con una grossa fretta di mandare a puttane i suoi tentativi di ritornare un bravo ragazzo… magari letteralmente…

“Quindi?” –sfida dall’alto gli occhi scuri del giapponese che però non sembra aggressivo, anzi, ha ancora addosso quella celestiale calma da maestro da film di kung-fu che, pur trovandola molto figa, inizia a metterlo in soggezione.

“Sai che tuo padre ti odia, ma sei venuto qui oggi per Emily. Tu le vuoi bene, e quando ti ho visto, avevi il viso di chi dalle mie parti è pronto ad inchinarsi per chiedere perdono. Io voglio credere che tu non sia un uomo cattivo, e che ciò che è prezioso per me, lo è anche per te.”

Sorride: ha ottenuto l’approvazione del bonzo, una piccola soddisfazione in una giornata di merda.

“Dimmi, perché hai quello stereo?”

La domanda che anche Arthur di certo è morto dalla voglia di fare, si dice tra sé il curiosissimo Kiku.

“Questo… Era per una sorpresa. Per Emily. So che partorire fa un male cane quindi… le avevo portato qualcosa che potesse farla sentire meglio.”

Il giapponese gli sorride: sembra davvero credere in lui. Si sente sollevato, ma di certo un sorriso in più non cambia nulla.

“Però ormai non importa, non se ne fa niente…”

“Non è detto.”
“Cosa?”

“Spiegami un po’ meglio, avanti.”

“… Va… bene…” –risponde in due tempi vedendo quanto quel “bonzo” sembrasse a un tratto più energico di lui. Certo, il lui di quel giorno, o di quello prima, non erano molto competitivi in quel senso, ma il lui di quando aveva una famiglia, quello non si sarebbe mai fatto battere.

Quello, di ciò che diceva Arthur, se ne è fregato tante volte.

Forse è proprio questa l’origine dei suoi guai.

Messisi in disparte, i due parlano un po’, con aria da cospiratori, e Alfred torna a guardare in alto, di preciso verso gli altoparlanti del comunicatore interno che il piccoletto gli fa notare.

Alla fine non riesce a credere che ci è voluto una specie di impiegatuccio giapponese tutto lavoro e niente svago per fargli capire che questa è proprio una di quelle volte in cui deve fregarsene.

 

 

“Non voglio il cesareo!”

Le ultime dieci ore sono state devastanti. Gli ostetrici e le infermiere possono darsi il cambio, chiamare altro aiuto, lei non può passare il testimone per prendere una boccata d’aria, per dei miseri cinque minuti senza quello strazio, e quella paura.

“Signora, arrivati a questo punto…”
“Non voglio farmi aprire la pancia!” -urla come un’isterica, graffiando alla cieca.

Ha sempre dato di sé l’immagine di una ragazza  di quelle toste, di quelle spigliate, indipendenti, che nessuno può fermare quando partono alla carica; ma la sua carica adesso non ha un fine, è solo un bambinesco sfogo, che le infermiere domano bloccandole le braccia sperando si calmi in fretta.

“Non voglio! Non tagliatemi!”
“La prego, signora Honda, deve pensare anche al bambino! Ormai siete troppo debole, siete qui da troppo tempo!”

“Non è colpa mia!” –urla piangendo- “Io voglio farlo nascere! È solo che…”
“Lo so, lo so, non è colpa sua!” –fa bene il rassicurante, come è suo mestiere- “Possono capitare delle complicazioni. Non abbia paura, non è il primo intervento di questo genere che facciamo.”
Ma a chi voleva darla a bere? Indomabile, irresistibile, forte, ma la verità è che non ha mai sofferto tanto dolore in vita sua, né è abituata a soffrirlo: mai uno schiaffo dai suoi, mai una caduta di quelle brutte, mai un incidente in moto, mai una frattura, non c’era niente per fare un raffronto. E non era solo questo. Ci pensa, e quella maschera di spensieratezza e sorrisi con cui aveva reso il suo mondo una gioia dopo l’altra per sé e i suoi cari gli sembra ora un nascondiglio, un bozzolo in cui è rimasta debole, viziata, impreparata a ciò che l’aspettava.
Ecco cosa l’aspettava: partorire è un dolore indescrivibile, come quando tua madre muore prima del tempo, come quando tuo fratello sparisce di casa per diventare un poco di buono. E lei in fondo non è forte, si è solo impegnata tanto, fino a sembrarlo.

“La prego, signora Honda, ci lasci eseguire il cesareo.”

Singhiozza soltanto.

“La scongiuro!”
“Non voglio tagliarmi! No! Ho troppa paura!”

E cos’altro fa ancora più male? Il pensiero che nonostante ciò che si reputa essere, malgrado il suo voler essere “l’eroina”, come eroe credeva che fosse quel fallito di tuo fratello a cui ancora non riesce a non voler bene, è il fatto che per quanto si sforzi non riesca a far nascere suo figlio come natura comanda. E la paura che la aprano in due la attanaglia, e pensa che se qualcos’altro va storto non si sveglierà più, e che forse è sul serio colpa sua, perché è una mollacciona e una fallita anche lei, sennò perché avrebbe sposato un tipo serio e concreto come Kiku?

Eccola sola, senza nessuno, alla sua prova più grande.

Dov’è Kiku? Dov’è papà?

Qualcuno, chiunque.

 

Un banjo?

L’intero reparto drizza le orecchie. I neo-papà in sala d’attesa smettono di essere in ansia, i dottori di passaggio nei corridoi alzano gli occhi dalle cartelle cliniche, le infermiere in sala parto smettono di brulicare, l’ostetrico accanto a lei sta finalmente zitto e quello tra le sue gambe finalmente alza gli occhi dalle sue zone private.

Il caos si fa ordine, sconvolto da un improvviso pizzicare di note, e poco dopo, incantato da una dolce voce di donna che intona  una canzoncina per bambini piccoli, fatta per posarsi sulle orecchie come la carezza di una maestrina o di una mamma.

 

(“Little bird, little bird” di Elizabeth Mitchell >>> http://www.youtube.com/watch?v=tz6WRiNwujQ )

 

Little bird, little bird,
Fly through my window,
Little bird, little bird,
Fly through my window,
Little bird, little bird
Fly through my window,
And find molasses candy

 

“Questa canzone…” – mormorano piano le sue labbra mentre sente il suo corpo sempre meno contratto, come le avessero appena somministrato il rimedio per tutti, ma proprio tutti i suoi guai.

 

Through my window,
My sugar lump,
Fly through my window,
My sugar lump,
And find molasses candy

 

“Ma che roba è?”

“È…” –provò a rispondere al medico, mezza stordita.

“Emily.”

“Kiku!”

Si volta verso l’altoparlante in alto sulla parete, da cui proviene la voce di suo marito, con la musica ancora in sottofondo.

“Emily, qui c’è qualcuno che è passato a salutarti.”

“Sorellina!”
“A-Alfred!”

 

-Who knows a bird?
-Me! Chickadee!
-What's a chickadee say?
-chchchchchch

 

Cerca di rimettersi su, ma ricadde immediatamente per le poche forze, prima ancora che glielo suggerissero le infermiere.

“Ciao! La senti? È la canzone che la mamma ti cantava sempre. Quando c’erano i tuoni e avevi paura, quando i compagni a scuola ti avevano preso in giro, anche quando il tuo primo fidanzatino ti aveva lasciata… Non importava quanto fossi spaventata, triste, sconvolta: ogni volta lei te la cantava stavi subito meglio, e la cantavi insieme a lei!”

“Mamma…”

“E papà si incantava a guardarvi cantare insieme… Si commuoveva sai? Scommetto è commosso anche adesso.”

 

Chickadee, chickadee,
Fly through my window,
Chickadee, chickadee,
Fly through my window,
Chickadee, chickadee,
Fly through my window,
And find molasses candy

 

“Si.” –gli risponde Arthur, l’unico nella saletta a non starsene col naso all’insù, approfittandone per poter piangere senza che nessuno ci badi.

 

Through my window,
My sugar lump,
Fly through my window,
My sugar lump,
And find molasses candy

 

“Sapevo sarebbe stata dura per te oggi quindi te l’ho portata.” –continuò l’altoparlante.- “Non è la voce della mamma, ma magari funziona lo stesso.”

“Ma chi è?”
“È mio fratello! Il mio fratellone…”

“Cavolo…” –fece una pausa, e lei se lo immaginò ad asciugarsi la fronte o il collo, zuppi per l’imbarazzo- “A differenza mia te la sei cavata alla grande, Emily: la carriera, il marito innamorato, già il primo figlio… A proposito, sarebbe ora di farlo nascere, non credi?”
“Puoi giurarci…” –si sventola con la mano inguantata uno degli ostetrici.

 

-Who knows another bird?
-Me. Jaybird!
-What does a jaybird say?
-jayjayjayjayjayjay

 

“Nella tua panciona c’è un bell’uccellino azzurro della felicità che non vede l’ora di uscire a salutarti! Forza, datti da fare, ce la puoi fare! Sei forte tu, sei forte! Io, Kiku, papà e anche la mamma stiamo tifando per te, cosa credi?”

Jaybird, jaybird,
Fly through my
window,
Jaybird, jaybird,
Fly through my window,
Jaybird, jaybird,
Fly through my window,
And find molasses candy

 

“Prima che becchino me e Kiku qui, ti chiedo anche scusa…”

Appena  in tempo perché subito dopo si sente nelle casse uno scoppio! Alla fine ci sono riusciti a buttarla giù la porta…
“Cavolo, eccoli…”
“Ehi, voi!”
“Fermi!”

“Whoa! Ehi, ehi, ehi! Calma! Non c’è bisogno delle maniere forti!”

Si sentirono altri rumori confusi, mentre li portavano via per la loro commovente birichinata.


Through my window,
My sugar lump,
Fly through my window,
My sugar lump,
And find molasses candy

Ma gli agenti della sicurezza non hanno pensato affatto allo stereo, che, fortunatamente lasciato in pace, continua a suonare e a far giungere alla orecchie di Emily la voce della cantante, anche abbastanza somigliante a quella della loro mamma. E lei può ascoltarla tutta.

Through my window,
My sugar lump,
Fly through my window,
My sugar lump,
And find molasses candy...

 

Può ascoltarla tutta, ad occhi chiusi, con due lacrimucce e un sorriso, fino a che il banjo scompare e si sente solo il canto registrato degli uccellini, e poi infine lo scatto secco del tasto stop dello stereo.

“Signora Honda, si sente bene?” –chiede il dottore vedendo il cambiamento in lei.
“Si, ora sto meglio, sul serio!”
“Allora… vuole procedere col cesareo?”
“Col cavolo! Io lo faccio nascere con le mie forze il mio uccelli… mio figlio!”

 

Ci vuole un’altra mezz’ora buona, ma alla fine ci riesce.

Il frugoletto si chiama Kenneth, o “Kenny”, ed è un delizioso biondino con gli occhietti un po’ stretti e la pelle morbida che, in vita da pochi minuti, è già l’inseparabile bambolotto della sua mammina entusiasta. Dopo il parto l’hanno trasferita in una stanza vicina, dove Kiku la raggiunge anche se con un po’ di ritardo…

L’improprio uso del comunicatore interno gli era però stato perdonato abbastanza presto dal caporeparto (grazie al cielo ne avevano beccano uno col cuore tenero), che gli aveva consentito di correre lì senza future ripercussioni, addebito della riparazione della porta a parte.

“Guarda, c’è papà!”

Il resto è un classico di quelli che piace sempre guardare, alla faccia della banalità con cui l’orientale rigido e impassibile fino a un attimo prima si scioglie nel suo primo abbraccio al nuovo arrivato. Alfred arriva poco dopo, in tempo per goderselo.

Arthur, che ha già avuto il suo primo incontro col nipotino, se ne sta fuori la porta, appoggiato al muro: suo figlio ci ha messo un po’ più di tempo perché doveva recuperare lo stereo, e ce ne è voluto per convincere la guardia a farlo rientrare un attimo nella saletta del misfatto.

Stessa camicia sfatta, stessi jeans vecchi, stesso profumaccio di quando è arrivato, stessa inclinazione alle cretinate di quando era giovane, ma per Arthur è già un po’ diverso, e stavolta lascia che si avvicini, e lo aspetta lì dov’è.

Alfred si ferma davanti a lui e non dice una parola. Avrebbero potuto dirsi tante cose importanti a quel punto, e, proprio per questo, lui preferisce buttarla altrove, sul piccolo.

“Tieni paparino: nel caso dopo voglia risentirla.”
Arthur afferra la maniglia dello stereo e con l’altra mano lo abbraccia.

“Ehi, vacci piano, mi stai diventando emotivo.”

“Imbecille.”

Ride e poi si affaccia sull’uscio, come su un davanzale. Emily e Kiku hanno occhi solo per il bambino, e suo padre al suo fianco aspetta solo di vederlo entrare, ma stavolta lo sorprenderà.

Stavolta ci arriva a capire di essere fuori posto, che dopo quel che Emily aveva passato, il ritorno del suo problematico fratellone non era cosa che potesse affrontare esausta com’era, o che dovesse affrontare quando aveva solo da pensare alla propria gioia.

“Ci vediamo dopo a casa, va bene?”

“Ma…”
“Tranquillo, paparino, non sparisco di nuovo. A meno che tu non voglia.”

Suo padre sbuffa e poi storce il labbro, cercando di non farlo sembrare un sorriso: “Dopo faremo i conti.”
“Mi sa proprio…”

Emily ha incrociato il suo sguardo.

Kiku, distratto e a buon ragione, non si accorge di nulla e il momento è tutto per loro due.

Quante cose da dirsi, quanti grazie per lei da dire, quante scuse per lui da chiedere, ma sorridendole la saluta con un gesto della mano, uscendo di scena. Non avrebbe volato attraverso quella porta come una finestra aperta; non subito almeno. L’avrebbe fatto dopo, con più calma, magari dopo essersi risistemato un altro po’.

Sua sorella capisce e torna a guardare Kenny prima che Kiku si accorga di qualcosa e si volti verso la porta.

Alfred si fa strada verso l’uscita tra sguardi sorpresi, contrariati e d’approvazione, e sguardi di gente che non sa che ha combinato lì in maternità e di lui non se ne frega affatto.

Si fa strada fischiettando, e più che un eroe, si sente un uccellino, un uccellino di colore azzurro.

 

Per uno che sognava di essere aquila era comunque un risultato: sempre di piume si trattava, no?

 

 

 

 

America non è un personaggio che gradisca particolarmente (mi è piaciuto spogliarlo della sua solita aura e farlo cadere alle stalle), ma a quanto pare, anche quando sono io a scrivere di lui, cade sempre in piedi! ^__°

Tutte e due gli America credo… Non mi è capitato spesso di leggere fic in cui lo stesso personaggio è presente sia come maschio che come femmina, e a voi? XD

Direi che è stata una bella fic, dolce ma spero di essere riuscito a darle un bel tocco di reale, specie nella prima parte.

Questo “uccello blu della felicità” di cui parla Alfred è una credenza molto diffusa negli Stati Uniti: si tratta di un tipo di passero che sarebbe simbolo di gioia e allegria.

Ecco una sua foto: http://www.oesnm.org/assets/images/bluebird.jpg

Riguardo al nome del pupetto, l’ho scelto perché, abbreviato, può anche essere “Ken”, che è appunto un nome giapponese.

Spero vi sia piaciuto questo insolito pairing tra Giappone e Nyo!America, l’ho conosciuto su deviantart grazie alle fanart di SparxPunx a cui vi consiglio di dare un’occhiata ^__^ >>> http://sparxpunx.deviantart.com/

 

Alla prossima, commentate mi raccomando!

 

PS: GERMANIA X ITALIA ORA E SEMPRE!

  
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