Salve a tutti, cari lettori!
Come
già accennato in altre introduzioni, di questi tempi capita spesso che io abbia
un sacco di idee diverse da non riuscire a decidermi su quale scrivere, e che
così finisca col non scrivere proprio nulla… Ancora una volta però, sono
riuscito a sbloccarmi e, pensate un po’, sono rimasto a scrivere fino all’una
di notte XD
Che il mio io scrittore volesse recuperare?
Questa
AU sarà ambientata nel nostro mondo, anche come mio esercizio per scrivere in
maniera più reale, e mi è stata ispirata da una canzoncina scoperta guardando
la tv e poi cercata su internet (nella storia sarà inserito il link,
ascoltatela mentre leggete! ^__^); ci sarà modo, per un Alfred che in questa
fic apparirà ridotto abbastanza malino, di riscattarsi con una delle sue
imprevedibili gesta eroiche?
Buona
lettura, spero vi piaccia!
PS:
GERMANIA X ITALIA ORA E SEMPRE!
NOTE:
Emily è Fem!America, qui c’è
il suo design: http://sparxpunx.deviantart.com/gallery/?q=emily&offset=0#/d3idxq6
Suo
padre Arthur è il primo ad alzarsi non appena mette piede nella sala d’aspetto
del reparto maternità. Non è chiaramente contento di vederlo, al punto che non
ha sprecato un attimo per la sorpresa, passando direttamente alla rabbia.
Perfetto,
pensa Alfred, finora nulla che non ti aspettassi di già.
“Non
ci credo.”
“Ciao.”
Sulle
sedie di plastica azzurra vicino le pareti ci sono vari fasci di nervi in
attesa, tra i quali gli riesce facile riconoscere il marito di Emily in un
piccolo asiatico coi capelli a scodella. Così è questo il Kiku che le ha rubato
il cuore: in mezzo agli altri aspiranti paparini spicca più per il suo sangue
freddo che per gli occhi a mandorla, gli piace. Ma non può osservarlo a lungo,
c’è il pezzo grosso in camicia bianca e gilet di lana verde a sbarrargli la
strada.
“Di
tutti i momenti in cui potevi tornare a farti vivo, Alfred…”
“Questo è quello più giusto?” –prova a concludere.
“Oh,
santo…”
Si
morde la lingua appena in tempo, come ha sempre fatto ogni istante prima di
perdere la sua proverbiale flemma: sempre il migliore.
“Come
sta?”
“Non bene, e ora ti ci metti anche tu.”
“Ehi, vacci piano, bello, non ho fatto ancora nulla.”
Suo
padre lo squadra dalla testa ai piedi, dopo averlo preventivamente annusato
aspettandosi l’alcol piuttosto che un acqua di colonia da quattro soldi.
Da
quattro soldi sono anche i suoi vestiti, seppure si nota lo sforzo fatto per
dar loro una sistemata: la grossa camicia a quadri un po’ logora che copre la t-shirt
è un misto di ordine e stropicciatura, come se ci avesse passato in tutta
fretta il ferro che a malapena sapeva usare e tanto bastasse per essere
presentabile. Stessa cosa per il jeans. Del piccolo stereo a cd che si è portato
dietro nella mano destra non sa cosa pensare.
“Posso
vederla?”
“No! E anche se si potesse non pensare che io ti lasci andare da lei!”
“Potrebbe
aver bisogno di me.”
“Alfred,
non siamo in un film, non scoppierà di gioia al pensiero che il fratellone
prodigo è tornato da lei il giorno della nascita del suo primo bambino! Non ti
permetterò di farla soffrire ancora di più!”
“Che
vuol dire ancora di più?” –chiede in un istante.
“…
Il travaglio è iniziato 10 ore fa… Non riesce a farlo nascere.”
Abbozza
un passo.
“Non
ci provare!”
“Fammi
passare!”
“No!”
La
mano ad artiglio di Alfred è solo un bluff: l’ultima volta che ha afferrato per
la collottola suo padre fu, col senno del poi, il peggior giorno della sua vita
e non aveva nessuna voglia di riviverlo. Dal canto suo, il buon vecchio Arthur,
non si fa scrupoli ad afferrarlo.
La
gara di sguardi e respiri pesanti dura pochi secondi: nemmeno per lui valeva la
pena di sprecarsi tanto per lui.
“Papà,
ti prego, fammi…”
“No.
Non è permesso ai parenti assistere in questo ospedale, finirai col farti
buttare fuori dalla sicurezza: l’unica cosa che puoi fare per Emily è andartene
via.”
“Sono venuto fin qui apposta.”
Arthur
lancia un’altra occhiata perplessa allo stereo. Poi torna a fissarlo negli
occhi, dietro quegli occhiali riparati col nastro adesivo.
“Alfred…
Sei suo fratello è vero. Suo fratello che se n’è andato di casa millantando di
diventare ricco e famoso senza neppure sapere come, dicendoci che saresti
tornato da eroe. E come non ci avessi già fatto soffrire abbastanza, le uniche
notizie che ci hai fatto arrivare da te provenivano dai commissariati di polizia.”
Ancora
nulla di inaspettato fino a quel momento, pensa. È venuto lì confidando nei
colpi di scena, nel bene che la fortuna vuole a chi si pente dei propri sbagli;
magari in fondo al suo sciocco cuore di sognatore, che aveva fatto si che si
sconquassasse da solo una bella vita che già aveva, ha sempre saputo che tutto
ciò che avrebbe ottenuto venendo lì sarebbe stato il classico discorsetto che
il padre fa al figlio fallito al momento della resa dei conti.
“Non
sei diventato né ricco né famoso: solo un ladro e un ubriacone. Lei ha pianto
per te, ha pregato per te, per riavere la sua colonna. Ma non è tornata, ed ora
ne ha un’altra.”
Un
colonna ben più mingherlina e un po’ giallina, ma a quanto pare molto più uomo
di lui, grande grosso e stupido.
“Non
gli servi. E se ti farai rivedere sarai solo un pensiero in più. E come puoi
immaginare, in questo momento ne ha già abbastanza.”
Deve passarsela malissimo, se
quel perfettino di suo padre appare tanto piegato.
La sua sorellina ha bisogno
di una mano, magari di una inaspettata, di quelle che tutti sperano di veder
comparire, e che lui per primo aveva sperato di diventare.
Ma
ora si sente dire il classico “troppo poco, troppo tardi”, che una parte di lui
sa essere la pura verità.
L’altra
parte di sé no, l’altra se ne uscirebbe sparando qualche altra idiozia.
“Io…
ho anche trovato un lavoro.”
Eccola.
Per quello si che meriti la redenzione.
“Alfred…”
“Io
sono il suo fratellone.”
“Avresti
dovuto esserlo sempre. Ti prego, non cambierai nulla. Vattene.”
Kiku
lo sta fissando. Se non avesse fatto di testa sua a diciassette anni, ora lo
conoscerebbe, lo chiamerebbe “cognatino”, e cercherebbe di tirarlo su di morale
nell’attesa col suo irresistibile estro di cui tanto si vantava.
Gli
piacerebbe avere uno specchio per guardare la sua strepitosa esibizione nella
faccia da cane bastonato in quel momento, da oscar.
Non
ci aveva voluto credere, dando ancora una volta retta alle sue fantasie,
ripetendosi che non avrebbero avuto il coraggio di cacciarlo via, ma si era
sopravvalutato. Di nuovo.
“Ciao,
papà.”
Preferisce
non guardarlo andar via. Arthur si morde le labbra e bada di non mostrare al
genero gli occhi lucidi. E come non bastasse, ci pensa un altro sguardo
all’orologio a rincarare la dose. Dieci ore di travaglio. La sua bambina soffre
da dieci ore filate. E per proteggerla ha dovuto separarsi dal suo bambino,
ancora una volta, e non sa nemmeno se abbia fatto bene o meno, se veramente
avrebbe rovinato tutto un’altra volta, o se avesse finalmente messo la testa a
posto.
Non
aveva voluto correre il rischio. Qualcun altro forse l’avrebbe fatto. Ma lui è
sempre stato un uomo severo, e non vuole cambiare. Meglio sedersi, e mordersi
il labbro.
“Alfred-san.”
<<
San? >> si domanda, girandosi.
Se
avesse saputo un po’ di giapponese, non si stupirebbe più di tanto vedendo che
a chiamarlo è stato suo cognato, quel tappo sprizzante ordine dalla testa ai
piedi, come una bambola di porcellana, grazie a cui la sua malgrado tutto
fortunata sorellina aveva ritrovato la serenità.
Gli
fa anche l’inchino; di certo la loro cara America non gli ha insegnato a
prendersela un po’ più liberamente a questo tipo.
“Sei
il fratello di Emily, vero?”
“Si, ma stavo giusto togliendo il disturbo, tranquillo.”
Se
gli hanno raccontato qualcosa sul suo conto, pensa, non è che mica gli è venuto
dietro per mollargli un cazzotto per aver abbandonato e fatto soffrire la sua
amata? Spera di no perché, contrito, pentito e tutto, non gli sarebbe andata
giù farsi malmenare, non senza chiudere un occhio di destro al cognatino.
“Non
ho fretta che tu te ne vada. Mi hanno detto di te, poco, ma mi hanno detto
abbastanza.”
Alfred
sbuffa e si guarda intorno, tutt’a un tratto con una grossa fretta di mandare a
puttane i suoi tentativi di ritornare un bravo ragazzo… magari letteralmente…
“Quindi?”
–sfida dall’alto gli occhi scuri del giapponese che però non sembra aggressivo,
anzi, ha ancora addosso quella celestiale calma da maestro da film di kung-fu
che, pur trovandola molto figa, inizia a metterlo in soggezione.
“Sai
che tuo padre ti odia, ma sei venuto qui oggi per Emily. Tu le vuoi bene, e
quando ti ho visto, avevi il viso di chi dalle mie parti è pronto ad inchinarsi
per chiedere perdono. Io voglio credere che tu non sia un uomo cattivo, e che
ciò che è prezioso per me, lo è anche per te.”
Sorride:
ha ottenuto l’approvazione del bonzo, una piccola soddisfazione in una giornata
di merda.
“Dimmi,
perché hai quello stereo?”
La
domanda che anche Arthur di certo è morto dalla voglia di fare, si dice tra sé
il curiosissimo Kiku.
“Questo…
Era per una sorpresa. Per Emily. So che partorire fa un male cane quindi… le
avevo portato qualcosa che potesse farla sentire meglio.”
Il
giapponese gli sorride: sembra davvero credere in lui. Si sente sollevato, ma
di certo un sorriso in più non cambia nulla.
“Però
ormai non importa, non se ne fa niente…”
“Non
è detto.”
“Cosa?”
“Spiegami
un po’ meglio, avanti.”
“…
Va… bene…” –risponde in due tempi vedendo quanto quel “bonzo” sembrasse a un
tratto più energico di lui. Certo, il lui di quel giorno, o di quello prima, non
erano molto competitivi in quel senso, ma il lui di quando aveva una famiglia,
quello non si sarebbe mai fatto battere.
Quello,
di ciò che diceva Arthur, se ne è fregato tante volte.
Forse
è proprio questa l’origine dei suoi guai.
Messisi
in disparte, i due parlano un po’, con aria da cospiratori, e Alfred torna a
guardare in alto, di preciso verso gli altoparlanti del comunicatore interno che
il piccoletto gli fa notare.
Alla
fine non riesce a credere che ci è voluto una specie di impiegatuccio
giapponese tutto lavoro e niente svago per fargli capire che questa è proprio
una di quelle volte in cui deve fregarsene.
“Non
voglio il cesareo!”
Le
ultime dieci ore sono state devastanti. Gli ostetrici e le infermiere possono
darsi il cambio, chiamare altro aiuto, lei non può passare il testimone per
prendere una boccata d’aria, per dei miseri cinque minuti senza quello strazio,
e quella paura.
“Signora,
arrivati a questo punto…”
“Non voglio farmi aprire la pancia!” -urla come un’isterica, graffiando alla
cieca.
Ha
sempre dato di sé l’immagine di una ragazza di quelle toste, di quelle spigliate,
indipendenti, che nessuno può fermare quando partono alla carica; ma la sua
carica adesso non ha un fine, è solo un bambinesco sfogo, che le infermiere
domano bloccandole le braccia sperando si calmi in fretta.
“Non
voglio! Non tagliatemi!”
“La prego, signora Honda, deve pensare anche al bambino! Ormai siete troppo
debole, siete qui da troppo tempo!”
“Non
è colpa mia!” –urla piangendo- “Io voglio farlo nascere! È solo che…”
“Lo so, lo so, non è colpa sua!” –fa bene il rassicurante, come è suo mestiere-
“Possono capitare delle complicazioni. Non abbia paura, non è il primo
intervento di questo genere che facciamo.”
Ma a chi voleva darla a bere? Indomabile, irresistibile, forte, ma la verità è
che non ha mai sofferto tanto dolore in vita sua, né è abituata a soffrirlo: mai
uno schiaffo dai suoi, mai una caduta di quelle brutte, mai un incidente in
moto, mai una frattura, non c’era niente per fare un raffronto. E non era solo
questo. Ci pensa, e quella maschera di spensieratezza e sorrisi con cui aveva
reso il suo mondo una gioia dopo l’altra per sé e i suoi cari gli sembra ora un
nascondiglio, un bozzolo in cui è rimasta debole, viziata, impreparata a ciò
che l’aspettava.
Ecco cosa l’aspettava: partorire è un dolore indescrivibile, come quando tua
madre muore prima del tempo, come quando tuo fratello sparisce di casa per
diventare un poco di buono. E lei in fondo non è forte, si è solo impegnata
tanto, fino a sembrarlo.
“La
prego, signora Honda, ci lasci eseguire il cesareo.”
Singhiozza
soltanto.
“La
scongiuro!”
“Non voglio tagliarmi! No! Ho troppa paura!”
E cos’altro
fa ancora più male? Il pensiero che nonostante ciò che si reputa essere,
malgrado il suo voler essere “l’eroina”, come eroe credeva che fosse quel
fallito di tuo fratello a cui ancora non riesce a non voler bene, è il fatto
che per quanto si sforzi non riesca a far nascere suo figlio come natura
comanda. E la paura che la aprano in due la attanaglia, e pensa che se
qualcos’altro va storto non si sveglierà più, e che forse è sul serio colpa
sua, perché è una mollacciona e una fallita anche lei, sennò perché avrebbe
sposato un tipo serio e concreto come Kiku?
Eccola
sola, senza nessuno, alla sua prova più grande.
Dov’è
Kiku? Dov’è papà?
Qualcuno,
chiunque.
Un
banjo?
L’intero
reparto drizza le orecchie. I neo-papà in sala d’attesa smettono di essere in
ansia, i dottori di passaggio nei corridoi alzano gli occhi dalle cartelle
cliniche, le infermiere in sala parto smettono di brulicare, l’ostetrico
accanto a lei sta finalmente zitto e quello tra le sue gambe finalmente alza
gli occhi dalle sue zone private.
Il
caos si fa ordine, sconvolto da un improvviso pizzicare di note, e poco dopo,
incantato da una dolce voce di donna che intona
una canzoncina per bambini piccoli, fatta per posarsi sulle orecchie
come la carezza di una maestrina o di una mamma.
(“Little
bird, little bird” di Elizabeth Mitchell >>> http://www.youtube.com/watch?v=tz6WRiNwujQ )
Little bird, little bird,
Fly through my window,
Little bird, little bird,
Fly through my window,
Little bird, little bird
Fly through my window,
And find molasses candy
“Questa
canzone…” – mormorano piano le sue labbra mentre sente il suo corpo sempre meno
contratto, come le avessero appena somministrato il rimedio per tutti, ma
proprio tutti i suoi guai.
Through my window,
My sugar lump,
Fly through my window,
My sugar lump,
And find molasses candy
“Ma
che roba è?”
“È…”
–provò a rispondere al medico, mezza stordita.
“Emily.”
“Kiku!”
Si
volta verso l’altoparlante in alto sulla parete, da cui proviene la voce di suo
marito, con la musica ancora in sottofondo.
“Emily,
qui c’è qualcuno che è passato a salutarti.”
“Sorellina!”
“A-Alfred!”
-Who knows a bird?
-Me! Chickadee!
-What's
a chickadee say?
-chchchchchch
Cerca
di rimettersi su, ma ricadde immediatamente per le poche forze, prima ancora
che glielo suggerissero le infermiere.
“Ciao!
La senti? È la canzone che la mamma ti cantava sempre. Quando c’erano i tuoni e
avevi paura, quando i compagni a scuola ti avevano preso in giro, anche quando
il tuo primo fidanzatino ti aveva lasciata… Non importava quanto fossi
spaventata, triste, sconvolta: ogni volta lei te la cantava stavi subito
meglio, e la cantavi insieme a lei!”
“Mamma…”
“E
papà si incantava a guardarvi cantare insieme… Si commuoveva sai? Scommetto è
commosso anche adesso.”
Chickadee, chickadee,
Fly through my window,
Chickadee, chickadee,
Fly through my window,
Chickadee, chickadee,
Fly through my window,
And find molasses candy
“Si.”
–gli risponde Arthur, l’unico nella saletta a non starsene col naso all’insù,
approfittandone per poter piangere senza che nessuno ci badi.
Through my window,
My sugar lump,
Fly through my window,
My sugar lump,
And find molasses candy
“Sapevo
sarebbe stata dura per te oggi quindi te l’ho portata.” –continuò
l’altoparlante.- “Non è la voce della mamma, ma magari funziona lo stesso.”
“Ma
chi è?”
“È mio fratello! Il mio fratellone…”
“Cavolo…”
–fece una pausa, e lei se lo immaginò ad asciugarsi la fronte o il collo, zuppi
per l’imbarazzo- “A differenza mia te la sei cavata alla grande, Emily: la
carriera, il marito innamorato, già il primo figlio… A proposito, sarebbe ora
di farlo nascere, non credi?”
“Puoi giurarci…” –si sventola con la mano inguantata uno degli ostetrici.
-Who knows another bird?
-Me. Jaybird!
-What does a jaybird say?
-jayjayjayjayjayjay
“Nella tua panciona c’è un bell’uccellino
azzurro della felicità che non vede l’ora di uscire a salutarti! Forza, datti
da fare, ce la puoi fare! Sei forte tu, sei forte! Io, Kiku, papà e anche la
mamma stiamo tifando per te, cosa credi?”
Jaybird, jaybird,
Fly through my window,
Jaybird, jaybird,
Fly through my window,
Jaybird, jaybird,
Fly through my window,
And find molasses candy
“Prima che becchino me e Kiku
qui, ti chiedo anche scusa…”
Appena in tempo perché subito dopo si sente nelle
casse uno scoppio! Alla fine ci sono riusciti a buttarla giù la porta…
“Cavolo, eccoli…”
“Ehi, voi!”
“Fermi!”
“Whoa! Ehi, ehi, ehi! Calma!
Non c’è bisogno delle maniere forti!”
Si sentirono altri rumori
confusi, mentre li portavano via per la loro commovente birichinata.
Through my window,
My sugar lump,
Fly through my window,
My sugar lump,
And find molasses candy
Ma gli agenti della sicurezza non hanno
pensato affatto allo stereo, che, fortunatamente lasciato in pace, continua a
suonare e a far giungere alla orecchie di Emily la voce della cantante, anche
abbastanza somigliante a quella della loro mamma. E lei può ascoltarla tutta.
Through my window,
My sugar lump,
Fly through my window,
My sugar lump,
And find molasses candy...
Può ascoltarla tutta, ad
occhi chiusi, con due lacrimucce e un sorriso, fino a che il banjo scompare e
si sente solo il canto registrato degli uccellini, e poi infine lo scatto secco
del tasto stop dello stereo.
“Signora Honda, si sente
bene?” –chiede il dottore vedendo il cambiamento in lei.
“Si, ora sto meglio, sul serio!”
“Allora… vuole procedere col cesareo?”
“Col cavolo! Io lo faccio nascere con le mie forze il mio uccelli… mio figlio!”
Ci vuole un’altra mezz’ora
buona, ma alla fine ci riesce.
Il
frugoletto si chiama Kenneth, o “Kenny”, ed è un delizioso biondino con gli
occhietti un po’ stretti e la pelle morbida che, in vita da pochi minuti, è già
l’inseparabile bambolotto della sua mammina entusiasta. Dopo il parto l’hanno
trasferita in una stanza vicina, dove Kiku la raggiunge anche se con un po’ di
ritardo…
L’improprio
uso del comunicatore interno gli era però stato perdonato abbastanza presto dal
caporeparto (grazie al cielo ne avevano beccano uno col cuore tenero), che gli
aveva consentito di correre lì senza future ripercussioni, addebito della
riparazione della porta a parte.
“Guarda,
c’è papà!”
Il
resto è un classico di quelli che piace sempre guardare, alla faccia della
banalità con cui l’orientale rigido e impassibile fino a un attimo prima si
scioglie nel suo primo abbraccio al nuovo arrivato. Alfred arriva poco dopo, in
tempo per goderselo.
Arthur,
che ha già avuto il suo primo incontro col nipotino, se ne sta fuori la porta,
appoggiato al muro: suo figlio ci ha messo un po’ più di tempo perché doveva
recuperare lo stereo, e ce ne è voluto per convincere la guardia a farlo
rientrare un attimo nella saletta del misfatto.
Stessa
camicia sfatta, stessi jeans vecchi, stesso profumaccio di quando è arrivato, stessa
inclinazione alle cretinate di quando era giovane, ma per Arthur è già un po’
diverso, e stavolta lascia che si avvicini, e lo aspetta lì dov’è.
Alfred
si ferma davanti a lui e non dice una parola. Avrebbero potuto dirsi tante cose
importanti a quel punto, e, proprio per questo, lui preferisce buttarla
altrove, sul piccolo.
“Tieni
paparino: nel caso dopo voglia risentirla.”
Arthur afferra la maniglia dello stereo e con l’altra mano lo abbraccia.
“Ehi,
vacci piano, mi stai diventando emotivo.”
“Imbecille.”
Ride
e poi si affaccia sull’uscio, come su un davanzale. Emily e Kiku hanno occhi
solo per il bambino, e suo padre al suo fianco aspetta solo di vederlo entrare,
ma stavolta lo sorprenderà.
Stavolta
ci arriva a capire di essere fuori posto, che dopo quel che Emily aveva passato,
il ritorno del suo problematico fratellone non era cosa che potesse affrontare
esausta com’era, o che dovesse affrontare quando aveva solo da pensare alla propria
gioia.
“Ci
vediamo dopo a casa, va bene?”
“Ma…”
“Tranquillo, paparino, non sparisco di nuovo. A meno che tu non voglia.”
Suo
padre sbuffa e poi storce il labbro, cercando di non farlo sembrare un sorriso:
“Dopo faremo i conti.”
“Mi sa proprio…”
Emily
ha incrociato il suo sguardo.
Kiku,
distratto e a buon ragione, non si accorge di nulla e il momento è tutto per
loro due.
Quante
cose da dirsi, quanti grazie per lei da dire, quante scuse per lui da chiedere,
ma sorridendole la saluta con un gesto della mano, uscendo di scena. Non
avrebbe volato attraverso quella porta come una finestra aperta; non subito
almeno. L’avrebbe fatto dopo, con più calma, magari dopo essersi risistemato un
altro po’.
Sua
sorella capisce e torna a guardare Kenny prima che Kiku si accorga di qualcosa
e si volti verso la porta.
Alfred
si fa strada verso l’uscita tra sguardi sorpresi, contrariati e d’approvazione,
e sguardi di gente che non sa che ha combinato lì in maternità e di lui non se
ne frega affatto.
Si
fa strada fischiettando, e più che un eroe, si sente un uccellino, un uccellino
di colore azzurro.
Per
uno che sognava di essere aquila era comunque un risultato: sempre di piume si
trattava, no?
America
non è un personaggio che gradisca particolarmente (mi è piaciuto spogliarlo
della sua solita aura e farlo cadere alle stalle), ma a quanto pare, anche
quando sono io a scrivere di lui, cade sempre in piedi! ^__°
Tutte
e due gli America credo… Non mi è capitato spesso di leggere fic in cui lo
stesso personaggio è presente sia come maschio che come femmina, e a voi? XD
Direi
che è stata una bella fic, dolce ma spero di essere riuscito a darle un bel
tocco di reale, specie nella prima parte.
Questo
“uccello blu della felicità” di cui parla Alfred è una credenza molto diffusa
negli Stati Uniti: si tratta di un tipo di passero che sarebbe simbolo di gioia
e allegria.
Ecco una sua foto: http://www.oesnm.org/assets/images/bluebird.jpg
Riguardo
al nome del pupetto, l’ho scelto perché, abbreviato, può anche essere “Ken”,
che è appunto un nome giapponese.
Spero
vi sia piaciuto questo insolito pairing tra Giappone e Nyo!America, l’ho
conosciuto su deviantart grazie alle fanart di SparxPunx a cui vi consiglio di
dare un’occhiata ^__^ >>> http://sparxpunx.deviantart.com/
Alla
prossima, commentate mi raccomando!
PS:
GERMANIA X ITALIA ORA E SEMPRE!