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Autore: PapySanzo89    19/09/2012    10 recensioni
«Quando dico no, è no.»
«Beh John, in realtà quando dici “no” basta un nonnulla per farti passare al “sì”.»
«Sherlock ma che diavolo?! Dovresti stare dalla mia parte!»
«Oh, io sono dalla tua parte, infatti anch’io propendo per il no! Il mio però è un no definitivo, è il tuo che mi preoccupa, due occhioni che sbattono le ciglia e cambi facilmente idea.»
Tutta quella conversazione si stava svolgendo al 221B Baker Street sotto un’attenta signora Webber che li guardava –seduta su una sedia vicino la scrivania- con una tazza di the in mano. La signora Hudson l’aveva fatta accomodare e le aveva anche portato dei biscottini; del resto “qualcuno qui dovrà pur essere accogliente con gli ospiti”.
Genere: Fluff, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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DISCLAIMER: Mio fratello dice che non è mia nemmeno l’aria che respiro, figuriamoci questi personaggi. Lucro: tra un po’ non so nemmeno che significa…
 
RINGRAZIAMENTI: E qui ne servono quasi più che nell’altra. XD
Ringrazio in primis Eli che mi ha betato la fic (grazie Polipa <3) offrendosi volontaria e avermi sopportata. XD
Grazie a ReyMari per diverse ragioni, pure troppe. D: Intanto per come mi avete corretto la fic (sì, parlo delle diverse battute…) e a Mari per avermi insegnato l’html almeno riguardo ai collegamenti (e per tutte le virgole della fic. XD) a Rey per l’assassino, io ero già partita per serial killer psicopatici, invece mi ha messo un freno e fatto capire che potevo fare qualcosa di più tranquillo. XD
A Jess e Aistra le prime ad averla letta e ad aver ditto ‘’Su, vai Avanti!’’… Grazie!! <3 (*lancia comodino ad Aistra*)
Beh, dopo tutto ‘sto discorso… Buona lettura. Love you!
 
 
 
 
Il caso Webber.
 
 
Sherlock Holmes era l’unico consulente investigativo al mondo: non perché si fosse dato quel nome da solo –anche se era così- ma perché era in grado di dedurre cose banali –perlomeno per lui- da cose che gli altri non riuscivano ad osservare.
L’unica cosa che ancora lo spiazzava era tutto ciò che riguardava i sentimenti, quelli non riusciva proprio a capirli ma c’era qualcuno ad aiutarlo in quel campo (“Non va bene?” “Direi di no”) però questo caso era diverso, perché se lui non riusciva a capire gli altri, semplicemente John non era gli altri.
Per questo aveva notato il cambiamento di quest’ultimo nei suoi confronti. Aveva notato nell’amico i sentimenti che pian piano –nel corso degli anni-  si erano consolidati ben oltre il livello dell’amicizia e quei sentimenti erano rivolti unicamente a lui.
Sherlock però non ne voleva sapere. Non perché non provasse per John la medesima attrazione ma perché era fermamente convinto che il loro rapporto andasse bene così. Si conosceva troppo bene per intraprendere una strada così in salita, irta di cose da dire e da fare quando due persone finivano con lo “stare insieme”. Probabilmente sarebbe cambiato qualcosa e lui semplicemente non lo voleva: non si sarebbe buttato nel nulla assoluto per rischiare di rovinare quello che già aveva e considerava un miracolo. John era l’unica persona al mondo che era riuscita a sopportarlo più di mezz’ora nella stessa stanza e, anzi,lo aveva perfino accettato come coinquilino.
Si ritrovò a domandarsi quando era caduto in quella trappola così banale fatta di emozioni e sensazioni e non riuscì a darsi risposta; probabilmente si era annidato qualcosa già dal loro primo incontro.
Ma era giusto così? Lasciare tutto in sospeso? Vedere John che tentava di dimenticarlo uscendo con altre donne e vederlo tornare ogni volta a casa sempre più a pezzi e lacerato (lasciando oltretutto il consulente geloso marcio)?
Sherlock Holmes pensava di sì.
 
 
Dimmock li convocò su una scena del crimine.
Sherlock aveva catalogato il caso con un bassissimo livello tre ma qualcosa -probabilmente l'incapacità dell'ispettore nel raccontare un caso- lo aveva fatto desistere dal rifiutare l'offerta; questo, e il fatto che la vedova del defunto -a detta di Dimmock- lo avrebbe comunque convocato.
Così lui e John si ritrovarono in un modesto appartamento a cinque minuti da Londra, con una scena del crimine lasciata ancora -in buona parte- intonsa.
«Stephan Webber, 35 anni, morto suicida per una dose troppo elevata di eroina. La moglie continua a dire che era pulito da anni ma sappiamo bene come è facile ricadere nel giro della droga.»
Questo era il benvenuto dell'ispettore, che accolse entrambi con un cenno del capo prima di farli entrare nella piccola e discreta abitazione.
Sherlock non disse niente, limitandosi a tenere le mani dietro il cappotto e fare dei passi misurati prima di entrare, osservando -come al solito- ogni dettaglio. John dal canto suo salutò con un sorriso Dimmock, chiedendogli delucidazioni su quanto accaduto.
Facendo il primo passo ci si trovava già sul luogo del (presunto) suicidio: il soggiorno.
Gli agenti della scientifica non lo degnarono di una sguardo, mentre salutavano John con un leggero cenno del capo e mezzo sorriso. Le attenzioni rivolete a quest'ultimo, a Sherlock, non sfuggivano mai.
Adocchiò per prima cosa il cadavere. Era seduto, il corpo riverso sul tavolo, la faccia non visibile dalla sua angolazione, capelli scuri, abiti da lavoro.
Si avvicinò per poi notare una donna (età compresa tra i 30 e i 33 anni, capelli castani -tinti-, occhi gonfi dal pianto, fede al dito, moglie della vittima) seduta, mani alla bocca, su una sedia del piccolo cucinino adiacente. Si fermò e rimase a fissarla per pochi istanti per poi tornare a rivolgere la sua attenzione totalmente all'uomo morto.
John nel frattempo chiese chi fosse la donna e alla risposta dell'ispettore domandò cosa ci facesse ancora lì se era stata, come gli aveva detto poco prima, già interrogata.
«Aspettava il signor Holmes.» Fu l'unica risposta, stizzita, dell'ispettore.
Sherlock, che si era totalmente estraniato dal mondo, iniziò a girare per la casa e a fare qualche domanda alla donna, la quale gli rispondeva con voce ferma e risoluta, mordendosi il labbro quando stava per scoppiare a piangere di nuovo.
Finito quel piccolo interrogatorio il detective sorrise, chiudendo gli occhi e alzando lo sguardo verso l'alto.
«Ispettore...» il tono non prometteva niente di buono per il povero Dimmock, «Mi dica: perché questo sarebbe un suicidio?»
Il consulente aprì gli occhi per rivolgersi verso l'interlocutore, che lo guardava come se la cosa fosse chiara lì davanti a lui, un'espressione alla Sherlock insomma.
«Stiamo parlando di un ex-tossico, trovato morto di overdose a casa sua, con la siringa sul tavolo. Mi sembra piuttosto chiaro.»
La donna parlò, o più che altro, urlò «Se voi mi steste un attimo a sentire magari capireste che...»
Fu zittita da un'occhiata di Sherlock.
«Ispettore, quest'uomo non si è suicidato, è stato ucciso e se aveste ascoltato questa donna, come lei stessa stava asserendo al momento, probabilmente ci sareste arrivati da soli. John, controlla il corpo per favore.»
Il medico gli passò accanto e, anche se fuori luogo, gli fece un sorriso: sapeva che il suo amico aveva già capito buona parte -se non tutto- del caso. Sherlock lo ricambiò.
«Mh... Le pupille hanno la classica forma a spillo e il colorito della pelle è bluastro. Gli organi interni devono aver subito dei gravi danni. La morte è di certo dovuta ad un eccessiva dose di droga.» sentenziò richiudendo poi le palpebre dell’uomo.
Dimmock guardò il detective «Visto?!»
Sherlock sospirò pesantemente scuotendo la testa con fare melodrammatico. «Speravo fosse migliorato, invece mi sta ricadendo nello stesso identico trucchetto usato nel primo caso in cui ci siamo -sfortunatamente per me- incontrati.»
L'ispettore guardò il cadavere, poi Sherlock, poi di nuovo il cadavere, poi di nuovo Sherlock.
«Non me lo dica: era mancino.»
Sherlock sorrise, un sorriso assolutamente ironico che solo John sapeva riconoscere.
«No, era destrimano, ma il concetto è lo stesso, perché iniettarsi dell'eroina nel braccio destro se non si è mancini?»
«Magari le vene erano...»
«Le vene di entrambe le braccia sono a posto, non doveva farsi da molto tempo, anni oserei dire.» asserì John prima che lo facesse Sherlock. «Oltretutto...» continuò, «Ha un colpo dietro la nuca, coperto appena dai capelli più lunghi del normale, un trauma che non si è sicuramente autoimposto.»
«Beh magari...»
«Facciamola finita! Se guarda la siringa noterà che ci sono delle impronte –troppe- che probabilmente corrispondono a Stephan, ma se analizzerà la posizione delle dita, vedrà che non si troveranno in una posizione normale per impugnare un oggetto simile e ci saranno di sicuro dei segni di polpastrelli cancellati da qualcosa di simile alla gomma: un guanto, quello usato dall’assassino per non lasciare impronte. La porta esterna presenta dei piccoli graffi vicino la toppa, graffi non provocati da chiavi: qualcuno ha forzato la porta, è entrato, l'ha colpito e l'ha drogato. Chiaro come il sole ispettore.» scosse il capo con fare teatrale e voltò le spalle all’ispettore dirigendosi verso la vedova. «Dio, mi manca Lestrade, non avrei mai pensato di dirlo.»
Dimmock lo guardava a bocca aperta.
«Fantastico no?!» Disse John poggiandogli una mano sulla spalla per scuoterlo dalla sua inettitudine. Sherlock si voltò a guardarlo con la solita espressione compiaciuta.
«Daremo un'occhiata in giro. C'è qualcosa che dovremmo sapere? Sostanze illegali nascoste da qualche parte? Traffici illeciti? Qualcosa su cui la polizia non dovrebbe essere informata? A quanto mi è dato di vedere, anche lei era una tossicodipendente.»
La donna guardò l'uomo col cappotto scuro ritto davanti a lei, mani dietro la schiena, viso serio e spazientito.
«Se possibilmente parlasse mi farebbe un favore, non ho tutto il giorno libero e ricevere una denuncia da parte sua per effrazione -non avvenuta comunque- e per aver frugato nelle sue cose non mi porterà da nessuna parte.»
«Sherlock!»
Il detective si girò «Sì?»
«Tatto!»
«Ho solo detto la verità!»
John si voltò verso la donna «Lo scusi!»
La vedova rimase un attimo in silenzio.
«Mi chiamo Valery. Valery Webber.»
Sherlock alzò gli occhi al cielo sbuffando leggermente.
«Sì, può... Può controllare quello che vuole, non abbiamo... Niente in casa.»
John le si sedette accanto accarezzandole la schiena delicatamente; era senza ombra di dubbio sotto shock, e non riusciva a capacitarsi del perché fosse rimasta in quella stanza invece di andarsene.
Sherlock -dopo averle tirato un'occhiataccia che non le sfuggì- andò ad avvisare chi di dovere di portare via il corpo e iniziò a controllare la casa.
Il dottore iniziò a parlare con Valery facendole raccontare più cose possibili, valutando il suo grado di disagio e pensando mentalmente a cosa avrebbe potuto darle in caso di attacchi di panico (in verità se ne aspettava uno di lì a poco) e insonnia forzata.
Dopo minuti di conversazione, non aveva idea di cosa pensare di lei. Era scoppiata in lacrime più volte, fermandosi e tornando a parlare quasi normalmente ogni qual volta Sherlock tornasse a chiederle qualcosa, aveva iniziato a ridere istericamente guardando il tavolo ed era scoppiata nuovamente in lacrime con le mani poggiate sulle orecchie dondolando avanti e indietro.
«L'hanno ucciso.» asserì infine «Perché? Chi?»
Sherlock nel frattempo girò per l’appartamento. Entrò nel bagno, non notando nulla di strano: un pettine lasciato abbandonato sulla lavatrice vicino ai panni sporchi, mentre il tubetto del dentifricio era stato dimenticato aperto sul lavandino, lo sportellino dell’anta sopra lo specchio mostrava vari deodoranti –maschili e femminili- mischiati tra loro. Si diresse quindi in camera da letto a grandi passi sperando di trovare qualcosa di meglio.
La stanza era grande abbastanza da contenere un letto matrimoniale, un armadio e anche una cassapanca. Fece il giro del letto per poi inginocchiarsi sollevando le coperte: ci trovò un paio di ciabatte che dovevano appartenere alla vittima data la grandezza e varie scatole; le tirò fuori una per una controllandone l’interno. Niente. Contenevano semplicemente foto e quasi tutte erano dei coniugi Webber in varie località turistiche, non apparivano mai con nessun altro, non dovevano avere molti amici; altre invece li raffiguravano (presi singolarmente) da bambini con qualche parente. Si alzò da terra iniziando a frugare nei comodini, trovando solo libri, riviste, fazzolettini di stoffa e qualche penna con agenda (che ovviamente controllò da cima a fondo non trovando nulla) e una foto –un’altra- che stavolta riprendeva i due sposi all’età compresa tra i tredici e i sedici anni assieme ad un altro ragazzo, più o meno della stessa età, più alto della vittima e di carnagione più scura. Sherlock la ripose e andò ad esaminare armadio e cassapanca. Stava per andarsene quando trovò una scatola, nascosta sotto una pila di lenzuola.
Il detective comparve da dietro una porta spaventando il dottore e la donna.
«Cosa sono queste?» Chiese mostrando molteplici lettere legate tra di loro con dello spago, ingiallite probabilmente dal tempo.
La donna le fissò passandosi la stoffa del maglione sugli occhi e poi in viso, nessuno le aveva passato un fazzoletto.
«Qualche mese fa...» tossì piano mordendosi il labbro «A Stephan è arrivata una mail dagli zii, che si trovano nella sua città natale nella sua vecchia casa, per avvisarlo dell’arrivo di quelle lettere...» e indicò quelle che Sherlock teneva in mano «Con la data che legge scritta sopra, e gli avevano chiesto cosa avrebbero dovuto farci, essendo roba sua. Stephan si era informato di che lettere si trattassero e poi se le è fatte spedire.»
Sherlock le fissò e se le rigirò tra le mani, guardandole poi una per una controluce, controllando il destinatario.
«Chi è Alexander Ward?», non aspettò che la donna rispondesse per aprirle e iniziare a leggerne intanto il contenuto.
La signora Webber si schiarì la gola respirando poi piano.
«È… o meglio, era un amico d’infanzia di mio marito. Sono cresciuti insieme e poi, verso i quattordici anni, li ho conosciuti anch’io. Non si sono più visti da quando Stephan aveva diciassette anni.»
Silenzio.
«E…?» Sherlock iniziava a spazientirsi.
La donna fece spallucce.
«E niente, non si sono più rivisti. Alexander è stato portato via dal padre perché diceva che era colpa di Stephan se aveva iniziato con la droga e, devo ammetterlo, è stato così. Avevamo tutti i nostri problemi a quell’età; c’è chi riesce a risolverli e chi invece –come noi- si lascia abbattere. Alexander però era più debole di quanto credessimo e ha iniziato ad esagerare. Io e Steph ne siamo usciti, lui –con tutto il nostro aiuto- non c’è riuscito.»
John guardò Valery, seduta accanto a sé, e si chiese dove fosse sparita la donna di poco prima, insicura e piangente. Adesso teneva lo sguardo rivolto avanti e parlava in un misto di rabbia e amore.
Il detective iniziò a battersi le lettere su una mano. Era una situazione particolare, niente di troppo difficile comunque, probabilmente da un tre, il caso, era arrivato a un banale quattro; però ormai avevano accettato e non ci si tirava indietro.
«Credo sia il caso di far visita a questo Alexander Ward. Ovunque egli si trovi.» sentenziò e uscì dalla stanza.
John stava per chiedere alla ormai vedova Webber se le sarebbe servito qualcosa quando Sherlock tornò indietro. «John. Muoviti. Ora
Il caro dottore si ritrovò a sospirare ma si alzò comunque con un sorriso che non riusciva a togliersi dalle labbra, senza sapere nemmeno lui perché.
 
«Quando dico no, è no.»
«Beh John, in realtà quando dici “no” basta un nonnulla per farti passare al “sì”.»
«Sherlock ma che diavolo?! Dovresti stare dalla mia parte!»
«Oh, io sono dalla tua parte, infatti anch’io propendo per il no! Il mio però è un no definitivo, è il tuo che mi preoccupa, due occhioni che sbattono le ciglia e cambi facilmente idea.»
Tutta quella conversazione si stava svolgendo al 221B Baker Street sotto un’attenta signora Webber che li guardava –seduta su una sedia vicino la scrivania- con una tazza di the in mano. La signora Hudson l’aveva fatta accomodare e le aveva anche portato dei biscottini; del resto “qualcuno qui dovrà pur essere accogliente con gli ospiti”.
John –che si occupava di tener informati i clienti- le aveva mandato diversi messaggi sullo svolgimento delle indagini, facendole sapere che Sherlock aveva trovato Alexander Ward (in meno di mezza giornata) il quale, purtroppo, era morto qualche mese addietro –causa del decesso non pervenuta-. Ciò non aveva impedito a Sherlock di trovare nome, cognome, stato civile, patente, carta di credito, ultimi spostamenti e le ultime tre mogli del padre di quest’ultimo.
Era fermamente convinto che fosse stato lui ad uccidere Stephan; avrebbe solo dovuto dimostrare come. E lì erano giunti i guai, o piuttosto, il guaio.
«Vengo con voi.» ecco come si era presentata la vedova Webber qualche ora addietro, con tanto di trolley, al 221B. Ed ecco come si erano ritrovati ingarbugliati in quella situazione.
«Sentite, non c’è nulla su cui discutere. Vengo e basta.»
Sherlock la guardò dall’alto del suo metro e ottantatre, mani in tasca e sopracciglio inarcato.
«Spiacente, non mi faccio carico di palle al piede.»
«Quello che il mio collega…»
«Amico.»
«Coinquilino.»
«Cos’è, giocate a trovare i sinonimi?» s’intromise lei sorridendo appena.
Sherlock si voltò a guardare da un’altra parte mentre John si schiariva la voce per dissimulare imbarazzo.
«Quello che Sherlock  tentava di dire è che…»
«So benissimo cosa tentava di dire ed è proprio quello che ha detto.» tagliò corto lei finendo il the e poggiando la tazzina sul piattino. Sospirò.
«Signor Holmes, non le sarò d’intralcio. Voglio solo venire a vedere in faccia chi ha ucciso il mio Stephan. Il resto non m’interessa. Voglio vederlo quando capirà di essere stato preso e voglio vederlo quando spiegherà –se lo farà- il perché. Credo che questo mi sia dovuto e credo anche di non poterlo colpire –perché lo farò- di fronte alla polizia ma voi mi sembrate più elastici riguardo questo.»
Il detective stava per ribattere qualcosa.
«Io vi pago per questo. Quindi si fa come dico io. E questa, signori, è l’ultima parola di cui vi dovete interessare.»
I due uomini guardarono prima lei con cipiglio sorpreso e poi si diedero un’occhiata veloce. E va bene. Tanto, figuriamoci! Cosa poteva essere una persona in più? Donna, dal carattere incontrollabile e che probabilmente meditava vendetta. Niente, assolutamente niente di non gestibile.
John rinunciò al suo the, optando piuttosto per una camomilla.
 
Qualche ora più tardi il terzetto si trovava su un treno, diretti verso Bath a un'oretta da Londra.  
 
Trovata la casa del signor Ward (cosa non troppo difficile dato che era una villetta a due piani visibile a chilometri di distanza per il colore giallo canarino), semplicemente si presentarono alla porta suonando il campanello.
Aprì una donna sui quarant’anni (attuale moglie, una tra le più giovani), sorriso aperto (probabilmente stava ancora ridendo alla battuta di qualcuno nella casa), si stava mettendo un orecchino.
«Posso esservi utile?»
Fu Sherlock il primo a parlare.
«Buongiorno, scusi per l'intrusione, cercavamo il padrone di casa.»
La donna lo guardò con aria interrogativa e lui iniziò a spiegarsi.
«Mi chiamo Sherlock Holmes e questa è Valery Webber con suo fratello John.» Questa era la copertura, non potevano essere tutti e tre amici di Alexander senza destare sospetti, e John poteva anche scordarsi di fare il marito della donna, anche perché sicuramente il signor Ward sapeva che la donna era sposata con Stephan; ma questo era un dettaglio.
«Abbiamo saputo solo adesso della morte di Alexander e volevamo porgere le condoglianze.» Sherlock si finse affranto.
L'attuale signora Ward abbassò un attimo gli occhi a terra ed annuì spostandosi per lasciarli entrare.
«Caro, ci sono degli ospiti per te!» Urlò rivolta al piano di sopra, avvicinandosi allo scalone.
La villetta era pacchiana dentro quanto fuori, con colori assurdamente accesi alle pareti, quadri astratti rappresentanti orologi e animali -esistenti e non- e un mobilio in arte povera, con soprammobili di dubbio gusto.
«Chi è?»
Un uomo sulla sessantina in vestaglia, stava scendendo con calma i gradini. Sherlock si era fatto un'idea più o meno esatta su di lui. Alto, ben eretto con la schiena, la postura di chi ha ricevuto un addestramento ferreo (probabilmente marina militare), solo lo sguardo era diverso da come se l'era immaginato, sembrava una persona gioviale. I capelli erano brizzolati, gli occhi scuri e portava dei baffetti, un bastone in legno con impugnatura d'argento lo aiutava a scendere.
«Amici di Alexander.»
L'uomo portò lo sguardo ai tre che lo stavano fissando, qualcosa passò per i suoi occhi  talmente veloce che Sherlock non riuscì a decifrarlo.
«Salve.» Disse atono scendendo gli ultimi scalini. Fissò la signora Webber negli occhi e le fece un piccolo cenno del capo. «Francamente speravo di non vederti più Valery. Sei cresciuta bene.»
Non si sentì risposta.
«E questi uomini chi sarebbero? »
Rispose la moglie.
«Il signor Holmes e John, il fratello della ragazza.»
«Non ricordavo avessi fratelli.» l'uomo sembrava essere scettico; rispose prontamente John. «Io e mia sorella non siamo mai andati troppo d'accordo, ci siamo riappacificati soltanto negli ultimi anni, perciò non mi sembra strano che lei non avesse sentito parlare di me.» fece un sorriso di cortesia e si avvicinò tendendo la mano, «Mi dispiace molto per la sua perdita.»
John, un attore ancora più bravo di lui quando ci si metteva.
Sherlock nascose un ghigno con un colpo di tosse e si avvicinò porgendo a sua volta le condoglianze.
La signora Webber rimase ferma.
«Volete dirmi che siete venuti solo per questo?» Il signor Ward si spostò pigramente dall'ingresso per dirigersi al soggiorno.
«Caro io vado, mi aspettano le colleghe.»
Si voltò giusto un attimo per elargire un sincero sorriso alla moglie.
 «Giusto, me ne ero dimenticato. Scusa. Divertiti e a dopo.»
Nessuna effusione avvenne tra i due, la signora lanciò un bacio con la mano e uscì dalla porta. 
«Dicevamo: non sarete venuti qui solo per questo?!», si addentrò in soggiorno facendo cenno loro di seguirlo.  Sherlock scandagliò la libreria che si trovava in corridoio, notando velocemente una cornice in acciaio con una foto del signor Ward, la probabile moglie dell’epoca e un ragazzo che non poteva essere altri che Alexander, lo stesso che c’era nella foto nel comodino del signor Stephan.
«No. Ci trovavamo da queste parti perché siamo andati a trovare gli zii di mio marito che abitano qui vicino: è morto anche lui.»
Sherlock la guardò un attimo studiandola. Nessuna esitazione, una scusa oltretutto plausibile. Brava.
«Oh. Mi dispiace.» Rispose monocorde l'uomo fissando una varietà incredibile di bicchieri di cristallo in una teca, scegliendone alla fine uno e prendendo una bottiglia di brandy.
Sherlock si concesse un attimo per guardare il soggiorno; teste di animali li fissavano ovunque dalle pareti (assolutamente grottesco) e molte teche esponevano armi di ogni genere e tipo. Al signor Ward piaceva la caccia dunque…
«Ne dubito. Era Stephan.»
L’uomo sgranò gli occhi e la fissò versando un po’ di liquido ambrato sulla tovaglia del tavolino a cui si era appoggiato. «Allora fai bene a dubitarne.» Disse semplicemente, riprendendo il suo aplomb.
Sherlock lo studiò nuovamente, c'era qualcosa che non combaciava con la reazione che aveva e con la sua ultima dichiarazione, non si esternava l'odio in questo modo quando si uccide una persona...
«È stato assassinato.»
Ward sbuffò. «Sentite, se state cercando la mia compassione avete sbagliato porta. Non me ne potrebbe importare di meno. Non mi è mai piaciuto quel ragazzo e tu lo sai bene. Come non mi piacevi tu.» Indicò Valery «E non mi piaci nemmeno adesso. Ora, se volete andarvene. Non ho nulla da fare ma non voglio avervi tra i piedi.» Detto questo voltò le spalle dichiarando così la questione chiusa.
Valery stava per ribattere qualcosa ma John la fermò dopo un'occhiata di Sherlock il quale -al contrario di quanto volesse fare la donna- si voltò, si abbottonò il cappotto e lasciò la sala a grandi passi per poi fermarsi vicino la porta. «L'hotel Northey Arms; saprebbe indicarci dove si trova?»
Ward fece un cenno con la mano senza voltarsi «È qui vicino, in fondo la strada girate a destra, all'incrocio a destra di nuovo e lungo il viale troverete l'hotel.»
«La ringrazio.» Sherlock sorrise -uno dei suoi soliti sorrisi incredibilmente finti- e uscì facendo un cenno agli altri.
Fuori dalla porta Valery lo superò, parlandogli camminando all'indietro in modo da poterlo guardare in faccia «Perché...?»
«Perché gli ho detto dove alloggeremo? La prego, troppo semplice, perfino Dimmock ci arriverebbe!»
Silenzio.
Uno sbuffo.
«John...?»
«Suppongo...» il dottore si schiarì la voce per poi continuare «Suppongo sia perché se il signor Ward ce l'aveva con Stephan, probabilmente doveva avercela a morte pure con la signora Webber, quindi potrebbe tentare di...»
«Fantastico!»
John lo fissò stralunato, «Come prego?!»
Sherlock fece finta di niente e si rivolse alla donna.
«Comunque non si preoccupi.»
«Non sono preoccupata.»
«Bene. Molto bene.»
 
 
 
«Forse ci siamo sbagliati.»
Sherlock, seduto sulla poltrona nella camera d’albergo, fulminò John con una delle sue occhiate assassine predilette; quella da “non osare dire una cosa del genere o l’omicidio lo commetto io e poi mi complimento con me stesso”.
John dal canto suo c’era abituato e non ci prestò più di tanta attenzione. Era entrato nella camera del coinquilino dopo tre giorni che se ne stavano appostati in quella città e… beh, non era successo niente di niente.
Avevano preso due camere, una alla destra e una alla sinistra di quella di Valery, per essere sicuri di poter intervenire in qualunque tipo di situazione ma l’unica cosa che sembrava volerli uccidere era la noia.
«Ascolta Sherlock, forse abbiamo sbagliato pista fin dall’inizio, forse quelle lettere non volevano dire niente. Non sarebbe meglio tornare indietro e rivalutare i fatti?»
Sherlock si scompigliò i capelli con veemenza sbuffando sonoramente.
«Forse non è la pista giusta…» imitò la voce del dottore «… forse le lettere non c’entravano niente. Certo! Infatti deve trattarsi di una coincidenza –abbastanza sfortunata per il padre di Alexander, lasciamelo dire- e io ho sbagliato, certo! Questa ipotesi pare la più plausibile. Non fosse che, magari, l’assassino è vagamente più furbo e non verrebbe in un hotel il giorno stesso per uccidere la sua ipotetica vittima. No certo, io ho sbagliato.»
John fece un gran sospiro e incrociò le braccia. Non aveva voglia di litigare ma nemmeno di stare lì a sorbirsi i piagnistei da Prima Donna di Sherlock.
«Sto solo dicendo che forse potremmo cercare qualche altra prova o indizio.»
Sherlock a quel punto si spazientì. «Vacci da solo se ci tieni tanto. Io so che è stato lui e non me lo lascerò sfuggire solo perché tu non vedi l’ora di tornartene a casa.»
John inarcò un sopracciglio. «E da quando io avrei questa gran fretta di tornare a casa scusa?»
Sherlock fece un cenno con la mano verso il soffitto.
«Jeanette. Ah no, quella era tre ragazze fa. Lucy. No aspetta, com’era? Ah sì, Mary.»
John sgranò gli occhi e lo guardò a bocca aperta.
«Stai dicendo che voglio lasciare un caso di omicidio, con una donna in difficoltà, solo per tornarmene a casa per… per…»
«Per spassartela usando i tuoi termini.»
«Oh, non ci posso credere.» John sorrise scuotendo la testa. «No, non ci posso credere, mi stai seriamente accusando di una cosa simile? Mi credi seriamente una persona del genere?»
Il silenzio di Sherlock poteva essere interpretato in molti modi. Il senso di Sherlock era “No, ovvio che no. Sono solo avvilito” il senso di John era “Sì, lo penso”.
Il dottore se ne andò a grandi passi dalla stanza senza dire niente, sbattendo la porta.
Sherlock non si mosse. Rimase fermo nella stessa posizione per un tempo che gli parve infinito.
«Quella volta avevi ragione John. Anch’io sono un idiota.»*
Sentì bussare alla porta ma non rispose. Non ne aveva voglia.
Valery si affacciò alla stanza dopo aver dato un’occhiata dentro. Vedendo il consulente semplicemente disteso su una poltrona, decise di entrare, lasciando la porta socchiusa dietro di sé, non sapeva perché ma si era immaginata scenari apocalittici.
«Signor Holmes…»
Non si tirò su a sedere; francamente non gli importava di dimostrarsi sgarbato (e quando mai?!) e allora fece un piccolo suono con la bocca giusto per dire che stava ascoltando. Lei si chiuse la porta alle spalle e si avvicinò.
«John sembrava piuttosto scocciato uscendo da qui.»
John?! Oh, quindi lui era “Signor Holmes” mentre John era… “John”.
Grugnì qualcosa in risposta voltandosi di lato in una posizione al limite del contorsionismo senza dire niente. Si sentì poggiare una mano sulla spalla e voltò appena il capo con una smorfia: odiava essere infastidito e ancora di più toccato, a meno che non fosse John a farlo... Ovvio.
La donna dovette notare il disagio e tolse la mano guardandosi attorno per la stanza.
«Senta, a me non piace ficcare il naso nelle cose che non mi riguardano ma farò un’eccezione e so che a lei non piacciono i giri di parole, quindi sarò chiara. Lei è un idiota.»
Sherlock si voltò totalmente, sgranando gli occhi e guardandola come se fosse improvvisamente uscita di senno. «Come scusi?!»
La donna sospirò e gli spostò le gambe giù dal bracciolo (a Sherlock sarebbero usciti gli occhi dalle orbite se avesse continuato a sgranarli a quel modo) per poi sedersi al posto di queste ultime. «Lei e John non siete solo amici. O meglio: lo siete, fingete di essere solo quello. È dalla prima volta che vi ho visti che l'ho capito, voi due vi guardate come ci guardavamo io e mio marito.»
«Segua il mio consiglio, continui a farsi gli affari suoi.» La interruppe infastidito il detective. Come si permetteva quella donna di affermare certe cose?! Di che sguardi parlava poi?!
«Quello che voglio dirle è che mi sembra una situazione assurda e che, soprattutto, non ne vedo il motivo.»
La fissò qualche secondo e si chiese dove volesse andare a parare. «Sappia che si perderà la cosa migliore della sua vita in questa maniera. Non posso dire di conoscere John ma a vedervi così direi che il problema non è lui...»
Sherlock inarcò un sopracciglio e finalmente si tirò su, irritato come non mai da quelle parole. Lei non sapeva. Lei non capiva.
Si avvicinò alla porta e la aprì in un gesto eloquente. La donna si alzò -sospirando- dal bracciolo della poltrona e uscì lanciandogli un'occhiata che voleva dire tutto e niente.
 «La facevo più intelligente.» Quelle parole chiarirono lo sguardo. Chiuse la porta come l'aveva sbattuta poco prima John e andò a raggiungere la finestra sempre più seccato. Si appoggiò con la fronte al vetro freddo lasciando che il respiro caldo lo appannasse, guardando fuori.
"Sappia che si perderà la cosa migliore della sua vita"... Non gli serviva una donna, vedova, con ex problemi di droga per farglielo capire.
 
Quella notte, finalmente, accadde qualcosa.
Sherlock, che si era addormentato verso le tre e mezza, venne svegliato da John con un piccolo scossone sul braccio.
Doveva ammettere di averci messo qualche secondo a capire cosa ci facesse John in camera sua, nel pieno della notte, calcolando che quello non era uno dei suoi soliti sogni dove le cose prendevano una determinata piega.
«Che succede?» Chiese con la voce impastata sollevandosi sui gomiti, «Dobbiamo già partire?»
«Partire?! Ma di cosa parli? C'è una persona fuori che continua a girare qui intorno, non l'ho riconosciuta come una dell'hotel ed è un'ora troppo tarda per essere un visitatore; mi sono distratto un secondo ed è sparita.»
«Cosa ci fai sveglio?»
«Sherlock, le tue cellule cerebrali vanno in vacanza la notte?! Qualcuno deve pure stare vigile e attento.»
«Ma avevi detto che ho sbagliato. Pensavo ce ne andassimo.»
«Ho supposto che potesse essere la pista sbagliata, Sherlock, non che avessi sbagliato. Ora, ti vuoi alzare o vuoi sentirmi dire che avevo torto?!»
Si mise a sedere sul letto e si scompigliò i capelli con foga tentando di riordinare i pensieri, gli ci voleva un po’ per svegliarsi del tutto. John non lo aveva mai visto così e gli venne da sorridere dandogli una pacca sulla spalla.
«Semmai ci si presenterà un altro caso del genere, devo ricordarmi di non farti dormire o l'assassino potrebbe diventare un serial killer per tutto il tempo che ci metti a riprenderti.»
Il consulente si voltò a guardarlo sorridendo «Per fortuna che ci sei tu con me allora.»
E queste erano le scuse di Sherlock e John lo sapeva. Gli passò ancora la mano sul braccio senza ragione e si alzò dirigendosi verso la porta con passo silenzioso. «Andiamo a vedere se è tutto a posto.»
Sherlock annuì e ringraziò il buio della stanza che stava nascondendo la pelle d'oca che quel tocco gli aveva provocato.
 
Bussarono alla porta di Valery che aprì quasi subito.
Altro che “non sono preoccupata”, probabilmente non aveva chiuso occhio, a giudicare dalla velocità con cui aveva aperto e dalle occhiaie che alla lieve luce della lampada del comò erano più visibili.
«È successo qualcosa?»
«Speriamo avvenga tra poco. Entri e si rimetta a letto. John vai a vedere in giardino se ci sono movimenti sospetti, io controllo il corridoio e le finestre.»
Il buon dottore annuì e si avviò fuori dalla porta, raggiungendo le scale e scendendole il più silenziosamente possibile.
Valery dal canto suo si andò a stendere a letto, gli occhi sbarrati nel buio e le gambe racchiuse in un abbraccio. Sherlock le diede un'occhiata veloce grazie alla poca luce proveniente dalle finestre e poi se ne andò chiudendo la porta.
Avvicinatosi alla finestra che dava sulla strada non notò nulla di sospetto, la quiete più totale.
Aveva iniziato a piovere da un po’.
Ripercorse il corridoio fino ad arrivare dall'altra parte dando un'occhiata veloce al piano di sotto. Niente.
Si affacciò all'altra finestra, che questa volta dava al giardino interno, e gli comparve un ghigno involontario.
Delle impronte. Delle impronte fresche sul fango appena appena accennato. E non erano di John.
Digitò velocemente un messaggio sperando che l'altro si fosse portato dietro il telefono, era inutile continuare la ricerca là fuori, probabilmente li avevano già spiati da un po’, quindi non era un'ispezione per sondare il terreno, quella notte avrebbe fatto qualcosa.
Fissò ancora un po’ le impronte e dall'alto gli parvero un poco più piccole di quanto in realtà dovevano essere per appartenere a un uomo, ma non voleva fare supposizioni, del resto fuori pioveva e il vetro non era pulitissimo. Poteva anche sbagliarsi.
Tornò in stanza di Valery dopo aver bussato -non voleva che disgraziatamente lo prendesse per l'assassino e facesse qualcosa di stupido- e si andò a nascondere nel bagno in attesa di una mossa falsa.
Non dovette aspettare poi molto.
Venti minuti dopo -ma dov'era John?!- si sentì la serratura della camera scattare con un suono flebile, uno persona addormentata non si sarebbe accorta di nulla.
Una figura, decisamente troppo bassa e minuta, si avvicinò con calma e passo lento e cadenzato al letto. Sherlock uscì dal bagno senza far rumore, ma un pezzo di parquet traditore scricchiolò e la figura si voltò verso di lui puntandogli addosso una pistola.
E poi, semplicemente, il suo amico scelse il momento peggiore per intervenire.
La porta della camera si aprì di botto facendo entrare un trafelato John in procinto di dire qualcosa, ma un colpo partì dall'arma -che poco prima era puntata verso il detective- facendolo mugolare e cadere di peso a terra, come se fosse inciampato. Sherlock reagì al gemito dell'amico e si voltò verso di lui biascicando il suo nome.
In quello stesso momento, Valery si alzò dal letto avventandosi contro l’assassino tentando di bloccarlo e disarmarlo, Sherlock così poté controllare John che, dopo qualche attimo di stordimento, fece capire di stare bene alzando il pollice in sua direzione. Il detective tornò a respirare normalmente per poi riprendere il controllo di sé e passare a bloccare -assieme alla sua cliente- la figura armata.
Valery gli fu d'aiuto più di quanto avrebbe potuto immaginare, fermando in qualche modo il braccio disarmato dell'assassino, svantaggiandolo ampiamente, permettendo così a Sherlock di bloccarlo definitivamente facendogli appoggiare la testa contro il materasso e il resto del corpo piegato a terra in una posizione scomoda ed innaturale. La pistola cadde a terra e Valery accese la luce.
La figura di una donna -sulla sessantina- lasciò tutti in silenzio finché la cliente non la riconobbe come la madre di Alexander e rimase a fissarla attonita.
La donna non parlò e, anzi, iniziò a dimenarsi cercando di liberarsi ma Sherlock le bloccò le braccia dietro la schiena con una mano e con l'altra le fece riappoggiare la testa sul materasso. 
Un uomo della reception entrò dalla porta spalancata con al seguito altri due uomini.
«Alla buon’ora signori. Fateci un favore, chiamate la polizia.»
Sherlock diede un'occhiata a John -che si stava rialzando a fatica- con la coda dell'occhio; quella donna gli aveva colpito una gamba (inconsapevolmente strinse più forte la presa sulle braccia della signora facendole uscire un flebile lamento) e John doveva aver sminuito -come al solito- il dolore. «E anche un'ambulanza.»
Non si dilungò oltre con gli uomini che -ancora sbigottiti- ci misero un attimo (giusto un'occhiataccia di Sherlock) per riprendersi e andare a chiamare chi di dovere.
«Non mi va di andare in ospedale. Posso fare da solo.»
Sherlock alzò gli occhi e sbuffò contrariato. «Non dire sciocchezze John, prima vai, prima ti curano, prima andiamo a casa tutti tranquilli. Non ho tempo da perdere per portartici se ti becchi un'infezione.»
Il dottore lo guardò con mezzo sorriso e non protestò più: tutta l'attenzione fu poi riportata alla donna sul letto che continuava a non dire niente e a Valery che la fissava altrettanto impassibile.
«Credo non ci sia nemmeno bisogno di chiederle perché lo abbia fatto; come sia riuscita a colpirlo senza problemi -piccola e minuta com'è il signor Stephan non l'avrà trovata pericolosa se l'ha vista entrare in casa- nè come mai sia in possesso di un'arma, il suo ex marito non avrà nemmeno notato l'assenza di una pistola anche se mi sfugge quando gliela possa avere presa, ma al momento non credo sia rilevante. Suppongo volesse far passare anche questo come un suicidio o forse voleva far ricadere la colpa sul suo ex marito, tenendo conto che le armi vengono contrassegnate per permettere la rapida identificazione del possessore.»
«Credi che il signor Ward non c'entri nulla? » Chiese John usufruendo di un momento di respiro preso da Sherlock.
«No, avevo già dei dubbi appena lo abbiamo incontrato ma, vista la situazione, ne sono del tutto certo ora. Un assassino, in quanto tale, non avrebbe mostrato così palesemente la propria rabbia nei confronti del defunto e dell'attuale vedova ma, piuttosto, avrebbe finto costernazione e di essere pentito per il comportamento tenuto anni addietro, oltretutto non ha dato segno di voler conoscere la nostra destinazione e, anzi, ci voleva fuori dai piedi il prima possibile, cosa strana se le sue intenzioni erano quelle di voler portare a termine l’opera come avevo supposto.»
John tossì.
«Come avevamo supposto.» si corresse Sherlock dandogli un’occhiata tra il divertito e il rassegnato.
La donna fissò Valery e sputò cercando di prenderla in faccia, quest’ultima si scostò senza troppa fatica.
«È tutta colpa vostra. Tutta. Se non vi avesse mai incontrato ora non sarebbe morto.»
«Se invece di scappare via per richiuderlo in un centro, come sicuramente avete fatto, lo aveste lasciato con noi -con i suoi amici- sicuramente ora sarebbe vivo.»
Non ci voleva un genio per capire che Alexander non si era mai riuscito a disintossicare e che, probabilmente, l’ultima dose era stata quella fatale.
«Abbiamo avuto le nostre colpe ma eravamo dei ragazzini. Eppure siamo riusciti a tirarci fuori da quello schifo da soli, nonostante voi –gli adulti all’epoca- non c’eravate mai. Avete preso un’unica decisione nella vita. Quella sbagliata.»
La donna iniziò ad inveirle contro ma finalmente gli agenti arrivarono e la portarono via che ancora stava urlando.
Sarebbero dovuti andare in centrale a lasciare una deposizione, o perlomeno, Valery avrebbe dovuto. Lui non aveva nessuna intenzione di passare la notte a ripetere più e più volte l’ovvietà della situazione.
«Vado a vedermi l’alba, prima che mi portino via.»
Sherlock fissò la donna dopo essere stato distolto dai suoi pensieri. «Prego?»
La signora sorrise raggiante. «Vado a vedermi l’alba.»
«Non vorrei fare il guastafeste ma non mi sembra ce ne sia il tempo.»
Se possibile, lei sorrise ancora di più.
«Ogni alba potrebbe essere l’ultima, signor Holmes.»
Arrivarono anche i paramedici che andarono subito verso John tentando di aiutarlo a camminare. Sherlock li raggiunse a grandi falcate e spostò entrambi reggendo John dal fianco.
«Lo accompagno io.», e il suo tono non ammetteva repliche. John gli mise un braccio attorno le spalle e rise piano.
Infine il detective voltò di poco la testa per poter vedere in faccia Valery.
«Beh, signor Holmes, è stato un vero piacere conoscerla. Anche tu John.»
Il dottore le rispose dandole la schiena perché non riusciva a girarsi e si scusò per questo, mentre Sherlock la fissava. C’era qualcosa che non andava ma non riusciva a capire cosa.
«Beh, addio.» concluse lei voltandosi e andando verso la finestra per alzare le tapparelle. La tenue luce del sole stava entrando piano piano, creando lunghe ombre.
I due la salutarono e scesero con calma di sotto.
 
Due giorni dopo John era finalmente potuto tornare a casa; lo avevano tenuto in ospedale anche troppo per quello che lo riguardava ma poteva dire di non essersi mai annoiato. Sherlock si era praticamente trasferito lì in pianta stabile, facendo imbestialire le infermiere e i dottori con il suo ciarlare e offendere tutti dando loro degli incompetenti ma Sherlock poteva stare lì, nessuno aveva il diritto di mandarlo via, nemmeno il capo dell’ospedale. Avere un fratello con un piccolo ruolo minore nel Governo Inglese (ma Mycroft ci credeva davvero quando lo aveva detto?!) poteva avere i suoi vantaggi. John aveva ragione infine: avrebbe dovuto curarsi a casa per risparmiare quella sofferenza ai poveri malcapitati.
La gamba gli faceva ancora male ma fortunatamente il proiettile era passato oltre per oltre, colpendolo oltretutto verso l’esterno del polpaccio, non aveva preso niente d’importante come ossa o nervi. Fatto sta che se ne doveva stare ancora buono e con la gamba ferma per qualche giorno, sperava che la signora Hudson avesse pietà di lui e lo aiutasse.
 
Valery lasciò la denuncia e la testimonianza alla polizia e poi se ne tornò a casa, esausta ma almeno felice di aver potuto dimostrare (grazie a Sherlock Holmes, ovvio) che Stephan non era la persona che tutti credevano, che nella vita si poteva cambiare, che gli sbagli si fanno, si pagano ma poi si può migliorare. Andò a trovare un’ultima volta il detective e il dottore portando (oltre la restante parcella) un pensierino fatto di biscotti e the. John non poteva esserle più grato mentre Sherlock si lamentava della scarsa qualità del the.
 
Dopo un tempo che a Sherlock parve infinito (insomma, non poteva più chiedere al collega di passargli oggetti incredibilmente lontani come il cellulare che aveva nella vestaglia che indossava) John ricominciò a camminare, zoppicando ancora un poco ma nulla di grave. 
Si trovavano nel soggiorno, Sherlock giornale in mano e John che si apprestava a fare un caffè.
«Ne vuoi anche tu?» chiese al coinquilino che non staccava gli occhi dalla pagina politica sbuffando come un treno.
«Sì grazie. Mi chiedo come faccia Mycroft ad occuparsi di roba come questa e avere a che fare con persone simili. È tutto così noioso.» disse buttando poi il giornale a terra.
John alzò gli occhi al cielo dirigendosi a passo lento in cucina.
«Ah, Sherlock, c’è della posta per te sul tavolino, è arrivata questa mattina.»
Il detective, ormai stravaccato sulla poltrona con le braccia aperte e l’aria annoiata a morte, voltò piano il capo guardando il tavolino come fosse lontano chilometri.
«John mi…» si morse il labbro chiudendo gli occhi. Okay, non poteva chiederglielo, ancora per un paio di giorni almeno. Si alzò sbuffando e raggiunse il tavolo sedendocisi sul lato.
Bollette, bollette, bollette, pubblicità… oh, eccola.
Una bella calligrafia svettava su tutto il resto delle buste “Signor Holmes, 221B Baker Street”.
Con un piccolo slancio si rialzò per tornare a sedersi più comodamente in poltrona, aprendo la busta nel mentre.
In cima alla lettera in stampatello c’era scritto il mittente: Valery Webber.
Sherlock inarcò un sopracciglio e, dopo aver buttato la busta a tener compagnia al giornale, iniziò a leggere.
 
Signor Holmes,
Quando leggerà questa lettera, io sarò morta (ho sempre voluta dirla come frase, quanto “segua quella macchina” però ormai per quest’ultima è tardi. Chissà; potrei farlo prima d’imbucare in realtà) ma forse l’avrà già scoperto da solo, con i ritardi che ci sono alle poste al giorno d’oggi potrebbe anche darsi. Le scrivo perché non vorrei che qualcuno (una persona a caso, magari l’ispettore Dimmock. Diciamocelo, non mi sembrava un tipo molto sveglio ma che rimanga tra noi!) pensasse che il mio fosse un altro omicidio e iniziasse ad investigare senza motivo.
Non è solamente questo il motivo del mio scritto ovviamente, gliel’ho detto, non mi piace farmi gli affari degli altri ma ormai vi ho presi a cuore.
Non mi creda una persona debole solo perché ho fatto quel che ho fatto, semplicemente non avevo motivi per andare avanti. Il mio motivo era Stephan, come so per certo che il suo ero io. Siamo cresciuti insieme, non andando sempre d’accordo e anzi, alle volte odiandoci con tutto l’odio possibile ma riunendoci sempre alla fine. Non avevamo nessuno. I genitori di mio marito erano praticamente inesistenti, gente che ha voluto fare figli solo perché la società definiva ciò “normale”. Io invece avevo solo mia madre agli inizi, mi è stata vicina finché ha potuto ma alla fine il cancro se l’è portata via e io mi son dovuta trasferire dai nonni, Sante persone, ma all’epoca non me ne importava niente. In più, come un fulmine a Ciel sereno, a nemmeno tredici anni sono stata operata d’urgenza per un cancro all’utero che mi è stato ovviamente asportato. Quindi cosa mi rimarrebbe adesso per andare avanti? I miei nonni sono morti anni fa, di amici –di quelli veri- non siamo mai riusciti a farcene per un motivo o per l’altro e, non potendo avere figli, non ho nemmeno questo a tenermi qui. E no, non troverei un’altra persona sulla faccia della Terra con cui condividere la mia vita. Non è una frase fatta, è una cosa che ci si sente dentro, che si sa. In anni e anni io non ho mai guardato nessun altro, nemmeno in gioventù quando non stavamo ancora assieme; è come se la gente mi passasse vicino e io non la vedessi perché non ha niente da mostrarmi.
Rileggendo queste righe sembra che io mi stia giustificando ma non è così. Sono serena nella mia scelta o non lo farei.
Ora, io le chiedo… guardi John. Come si sentirebbe se glielo portassero via? Se lo trovasse morto in casa? Non avrebbe nessun rimpianto? Nessuna cosa che avrebbe voluto assolutamente dirgli? Non si può rimanere fermi in una situazione di stallo perché si ha paura di vivere signor Holmes. Teme che un giorno John si accorgerà che lei è una palla al piede (mi perdoni, non lo penso sul serio)? Cosa le fa pensare che questo non potrebbe accadere semplicemente rimanendo amici? È anzi più probabile che se ne vada rimanendo in una situazione simile, non sapendo cosa fare e come comportarsi. Prima o poi arriverà qualcuna abbastanza perfetta per lui e se lo porterà via ma non sarà mai totalmente felice, e come potrebbe? E lei invece, se ne rimarrebbe da solo in quella casa fino la fine dei suoi giorni?
La prego, me lo faccia come favore personale, l’ultimo desiderio di una persona che sta per morire, ci provi a fare qualcosa. Un passo avanti, con calma magari, piano piano, con i suoi tempi.
Come può notare ho un’idea dell’amore ben precisa, magari un po’ infantile ma secondo me questo è tutto. Oltre il suo lavoro lei ha John. Se ne renda conto effettivamente.
Beh, io ci ho provato almeno. La saluto e le auguro una vita piena d’indagini… Sherlock.
 
Con sincero affetto,
 
                                             Valery Webber
 
 
Sherlock rimase immobile a fissare le righe scritte e le rilesse più e più volte. Non poteva essere.
Digitò un veloce messaggio a Lestrade e rimise il cellulare in tasca rileggendo ancora e ancora. Poi alzò gli occhi verso il coinquilino.
Si sarebbe mai suicidato per la morte di John?
No, non lo avrebbe fatto –John non lo avrebbe voluto poco ma sicuro-, sarebbe andato avanti facendo quello che gli riusciva meglio -risolvere omicidi- ma una parte di lui sarebbe morta in via definitiva.
Non avrebbe più provato niente per nessuno e, lo sapeva anche troppo bene, non si sarebbe mai più fatto avvicinare.
Poi chissà, magari sarebbe tornato a drogarsi per distogliere la mente da certi pensieri, poi chissà, magari avrebbe potuto esagerare per sbaglio e non risvegliarsi più.
Scosse la testa e tornò a fissare il coinquilino che stava adesso versando il caffè nelle tazze ignaro di essere studiato.
Quando John era caduto a terra in quella stanza, credeva di non sentire più niente, credeva che il tempo si fosse momentaneamente fermato e qualcosa si era chiuso sulla bocca del suo stomaco finché l’altro non gli aveva fatto cenno di stare bene e lì era tornato a respirare. Una sensazione liberatoria.
«Una cosa non ho capito, come faceva la signora a sapere che eravamo in quell’hotel?»
Sherlock si accorse solo in quel momento di essere rimasto a fissarlo, sperava solo di non avere qualche strana espressione.
Tossì e volse lo sguardo altrove.
«L’ex marito deve averla semplicemente chiamata per dirglielo, in buona fede ovviamente, anche se si sono lasciati si tenevano comunque in contatto.»
«Mmh…» rispose semplicemente l’altro iniziando a portare il caffè in soggiorno.
Il detective gli diede un’ultima veloce occhiata. Il medico camminava scalzo, aveva addosso i pantaloni –troppo larghi- del pigiama e si era messo addosso uno dei suoi soliti maglioni per ripararsi dal freddo –era incline a sentire più freddo che caldo- che aveva un piccolo buco vicino il polso, i capelli scompigliati perché quella mattina non aveva avuto voglia di pettinarsi.
E Sherlock lo trovava bellissimo.
«Ti amo.»
John quasi inciampò sui suoi stessi piedi facendo così scivolare il vassoio e cadere sul tappeto della signora Hudson il caffè –quelle macchie non se ne sarebbero mai andate via- il latte e tutto quello che c’era sul piatto… quasi.
Riuscì invece a rimanere fermo in piedi dopo aver fatto una mezza giravolta tenendo ben saldo il vassoio. La gamba al momento lo stava odiando. Poggiò il tutto sul tavolo in mezzo alle finestre e si voltò verso il collega.
«Scusa, devo aver capito male.» disse solo, con un sorriso mezzo ironico. Credeva sul serio di non aver sentito bene.
Sherlock allungò una mano in sua direzione e attese che il medico la prendesse, cosa che successe poco dopo.
Il detective la fissò per un po’, passandoci poi sopra il pollice carezzandola, guardando poi finalmente in faccia John con l’espressione più seria che quest’ultimo gli avesse mai visto.
«Ti amo.»
E il dottore sentì distintamente le ginocchia farsi molli ma rimase dritto nella sua posizione senza far notare cambiamenti nella sua persona.
«E non te lo ripeterò perché so perfettamente che questa volta hai capito benissim…»
Le labbra di John si poggiarono delicatamente su quelle di Sherlock impedendogli di finire la frase e lì rimasero, ferme, immobili, aspettando che l’altro si decidesse a fare qualcosa. Il detective gli cinse le spalle con le braccia e lo tirò a sé con forza, il medico sorrise e approfondì il bacio poggiando una mano sullo schienale della poltrona per non rovinare addosso al compagno.
Quando si staccarono John scoppiò a ridere, di quelle risate liberatorie e belle.
Sherlock la prese come un’offesa e gli pizzicò un fianco.
«Ehi, non faccio così schifo.»
E John rise ancora più forte abbracciandolo e baciandogli la tempia più volte.
«No, decisamente non fai così schifo. Per niente.» tentò di dire tra una risata e l’altra, poi sentì il detective tirargli il maglione.
«Ancora.» ordinò perentorio.
E John smise di ridere, sorridendo poi con dolcezza e carezzandogli i capelli.
«Agli ordini…», si avvicinò alle labbra dell’altro con studiata lentezza.
 
 
Sherlock Holmes era l’unico consulente investigativo al mondo; non perché si fosse dato quel nome da solo –anche se era così- ma perché era in grado di dedurre cose banali –perlomeno per lui- da cose che gli altri non riuscivano ad osservare.
L’unica cosa che ancora lo spiazzava erano i sentimenti. Ma aveva notato il cambiamento di John nei suoi confronti. Aveva notato nell’amico i sentimenti che pian piano –nel corso degli anni-  si erano consolidati  ben oltre il livello dell’amicizia e quei sentimenti erano rivolti unicamente a lui.
Sherlock però non ne voleva sapere. Non perché non provasse per John la medesima attrazione ma perché era fermamente convinto che il loro rapporto andasse bene così. Si conosceva troppo bene per intraprendere una strada così in salita, irta di cose da dire e da fare quando due persone finivano con lo “stare insieme”. Probabilmente sarebbe cambiato qualcosa e lui semplicemente non lo voleva, non si sarebbe buttato nel nulla assoluto per rischiare di rovinare quello che già aveva e considerava un miracolo. John era l’unica persona al mondo che era riuscita a sopportarlo più di mezz’ora nella stessa stanza e, anzi,c’era pure andato a convivere.
Ma era giusto così? Lasciare tutto in sospeso? Vedere John che tentava di dimenticarlo uscendo con altre donne e vederlo tornare ogni volta a casa sempre più a pezzi e lacerato (lasciando oltretutto il consulente geloso marcio)?
Sherlock Holmes era totalmente convinto di no.
E finalmente si era deciso a cambiare.
Tutto grazie a una donna, vedova, con ex problemi di droga, che credeva fermamente in un sentimento più grande.
 
 
 
NOTE: Anche questa, come la fic prima, è venuta tutta fuori da un’immagine che mi è venuta in mente, questa volta parlo della lettera. Camminavo per città e infine ho pensato ‘’Oh, bell’idea’’ e ci ho ricamato intorno… Potevo non farlo, sì, me ne rendo conto. XD
Ah, mi è stato fatto notare da un po’ tutti quelli che hanno letto la storia (non parlo solo di questa ma approfitto), che i miei discorsi sono abbastanza… diciamo, scialbi? Banali? Cioè, non era usato in tono d’offesa ma insomma, al momento non mi viene un sinonimo. XD Volevo solo dire che solitamente, nei discorsi, tendo a non usare parole che io stessa non userei. Non lo so, per esempio ‘’allorquando’’ (esempio osceno, lo so) essendo che io non lo direi mai, non lo metto nei discorsi, perché essendo io la prima a non usarlo mi fa strano. Come anche ‘’egli’’, credo di non aver mai usato la parola ‘’egli’’ in tutta la mia vita in un discorso. Quindi, testardaggine mia, anche se mi danno consigli per fare un discorso con un po’ più di corpo, tendo a fare orecchie da mercante. u_u
Va beh basta, note troppo lunghe. D:
Love you!
 
   
 
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