- Titolo: “Sonno
artificiale”
- Tipologia: One
Shot
- Genere: introspettivo
- Avvertimenti: missing
moments
- Rating: verde
- Frase scelta: “Il destino ha un
modo crudele di chiudere il
cerchio e di coglierti di sorpresa”
- Note dell'autore:
ho lasciato libera interpretazione al lettore
riguardo l’io
narrante.
È naturalmente più che evidente che a parlare sia
uno dei due tributi del
distretto 12 (Katniss o Peeta) volutamente, però, ho deciso
di non specificare
quale dei due.
Nelle notti insonni si ritrovava spesso a pensare a Haymitch Abernathy.
Ci si
poteva sentire attanagliati dalla paura, in quei momenti.
Sentiva la morte vicina, l’arena la sua ultima meta. Non
poteva essere
altrimenti, del resto.
Non si trattava solo della corsa per sfuggire la morte. Non era la
morte
l’unico fattore da prendere in esame. Né la
sopravvivenza.
Analizzando la situazione, il futuro non era certo dei più
rosei: vivere una
vita da vincitori, una vita senza aria, quello avrebbe dovuto essere il
suo
scopo finale? Era quello il raggiungimento della vittoria?
L’unico consentito a ben pensarci.
Una vita senza aria. Ecco come si chiudeva il cerchio.
Osservava Haymitch più spesso di quello che lui poteva
immaginare, e aveva
capito ormai da tempo che l’alcool era il suo unico modo di
respirare.
Una dipendenza inevitabile per la sopravvivenza di un’anima
spezzata. Un
involucro che trasudava sofferenza, malgrado cercasse di nasconderla
dietro un incessante
crudo cinismo.
Come avrebbe potuto, un vincitore degli Hunger games,
riuscire anche solo a dormire, portandosi
dietro anni e anni di esperienza da mentore, anni e anni ad assistere
ragazzi –
di ogni età – morire sotto la sua guida?
Era possibile dormire? Eppure era di quello di cui Haymitch avrebbe
avuto
bisogno. Dormire. Estraniarsi, non pensare più a niente. Una
via di fuga. Si
trattava ancora di quello infondo: trovare una via di fuga.
Era un cerchio senza fine, un cane che si mordeva la coda. La vittoria,
e
l’annientamento.
Haymitch saliva sul palco, schiacciato dagli sguardi dei nuovi tributi
del
distretto dodici. Anno dopo anno, notte dopo notte li rivedeva tutti.
Nel fluire incalzante dell’oscurità, sentiva il
fiato venirgli meno. Si svegliava
di soprassalto, urlando e vagando per la casa. Una casa nuova di zecca,
una
casa destinata a chi si era ritrovato intrappolato in quel cerchio
senza via
d’uscita.
E così eccolo, oggi. Anni e anni di allenamento a trascinare
i passi in un
miraggio creato dal veleno che si insinuava nel suo corpo, giorno dopo
giorno.
Haymitch non dormiva più. Perdeva i sensi, le forze - la
forza di volontà più
di tutte - abbandonandosi sul divano, sul letto, e a volte –
più spesso del
desiderabile in realtà – sul pavimento gelido.
Nella sua testa rimbombava l’inno,
il suo
nome accostato alla parole “vincitore”. E
non vi era lutto che contasse in
quell’istante.
L’istante – uno solo sia ben inteso – in
cui la consapevolezza della vittoria
trovava dimora in lui. Quante emozioni potevano vivere in un solo
fugace
attimo?
Gioia? No, non gioia. Sollievo, ecco sì: sollievo. Salvezza.
Casa.
“È tutto finito, va tutto
bene ora.”
Ma la sorpresa era lì ad attenderlo. Esattamente
nell’istante successivo
alla chiusura del cerchio.
Gli incubi, le notte insonni, il volto degli altri tributi ad
accompagnarlo in
ogni momento della sua nuova vita. E il peggio sarebbe arrivato al suo
primo
anno da mentore. Cosa si poteva provare nel guardare negli occhi due
ragazzini,
due nuovi prescelti, bisognosi di consigli e di aiuto prima di
affrontare
l’arena? E, soprattutto, cosa si poteva provare nel vedere
anno dopo anno due
nuovi tributi, morire sotto i suoi occhi, sotto la sua guida?
Mentore.
Era questa la sorpresa macabra che il destino da vincitore gli aveva
offerto.
Una vita da mentore.
Anno dopo anno i protagonisti dei suoi incubi aumentavano
considerevolmente di
numero.
Morte dopo morte.
E così aveva trovato infine un’artificiosa
soluzione.
Un inconfondibile mellifluo piacere, amaro e liquido,
scendeva giù per la gola
e annebbiava la sua vista. I suoi ricordi.
Haymitch non vedeva più gli occhi dei tributi al momento
della mietitura.
Saliva sul palco nascosto nel suo involucro spezzato e osservava i due
nuovi
ragazzi selezionati. Forse uno o due istanti prima di cadere svenuto
davanti a
tutti quanti.
Eccolo il vero traguardo.
Il vuoto. Il buio totale. Haymitch
non sognava più da anni
ormai, e quelle rare volte che succedeva era qualcosa di indistinto e
talmente
lontano da non toccarlo minimamente.
Aveva letto da qualche parte, una volta, che chi non sogna non fa altro
che
dormire.
E infondo era questo che succedeva ad Haymitch Abernathy.
La fuga. L’estraniarsi.
Nel sonno avrebbe dovuto trovare conforto. Non si diceva, forse, che
nel sonno
l’anima si rifugia in un luogo eterno e distante?
E visto che questo ad Haymitch non sarebbe stato più
concesso, l’unica vittoria
a lui consentita, l’unica vittoria che si era preso dopo gli
Hunger Games, era
il buio totale.
Niente più incubi, solo un vuoto artificioso da lui voluto.
Eccola la sua unica via di salvezza dal cerchio in cui
l’avevano rinchiuso. Da
chi non l’aveva avvisato del dopo. Da chi
non gli aveva rivelato la terribile sorpresa celata nella vittoria.
Oh sì, c’era da aver paura a pensare che
l’estrazione dei nomi celava ben più
terrori e problemi della semplice sopravvivenza.
C’era da avere paura a
pensare ad Haymitch Abernathy.