*
-Mia madre si chiama Lola ed è ancora una bellissima donna. A Richmond, quando sono nato io, ventisette anni orsono, faceva la puttana. Una schiava non può disporre di se stessa, era per quello che l’avevano comprata, una bella jaloff di tredici anni e di sangue quasi puro.
Parlava
lentamente, con quella sua voce bassa, ipnotica e un po’ roca, con
quell’accento duro del Nord, gli occhi chiusi,le mani strette l’una nell’altra,
la testa abbandonata all’indietro contro la spalliera del divano: una ruga
verticale profonda, netta come un taglio, gli spaccava in due la fronte, dalle
sopracciglia aggrottate all’attaccatura dei capelli.
-La
schiavitù, suppongo, non è una di quelle cose che vi abbiano mai fatta
inorridire, Madame, o mi sbaglio? Vostro padre trattava bene i suoi neri, non
gli faceva mancare il necessario e non ha mai picchiato nessuno.Da bambina,
probabilmente, qualche vecchio schiavo vi ha fatta ballare sulle ginocchia e a
casa vostra doveva senz’altro esserci qualche negra brontolona che si vantava
di aver tirato su tre o quattro generazioni di O’Hara e tutte queste cose vi
hanno aiutata a scaricarvi la coscienza…
Rossella
osservò la macchia nera dei suoi vestiti, le brache di pelle, la giacca
indiana con le frange, le borchie d’argento,
le decorazioni d’ossi di bisonte e aculei di porcospino, i tacchi consumati
degli stivali da cavallerizzo. Che ci
faceva un uomo simile nel salotto di casa sua? Perché si lasciava insultare a
quel modo, a dispetto di tutto quanto il suo orgoglio, da un uomo vestito come
un vaccaio, da un negro che, prima che
il mondo scoppiasse, avrebbe abbassato lo sguardo incontrandola? Invece era
come se Wade fosse davvero in grado di leggerle dentro e non volesse risparmiarle
niente. Era uno scorpione pieno di veleno, un diavolo a cui nulla sfugge,
presente, passato, futuro… A dispetto dei suoi pochi anni e della sua faccia,
bella come quella di un angelo, del suo corpo teso, che rifiutava di
abbandonarsi all’abbraccio morbido del sofà, quel corpo magnifico per il quale
la donna provava, malgrado se stessa, una fitta dolorosa di desiderio.
“There is a house in New Orleans…The House of Rising Sun…”
Adesso
si era messo a canticchiare una di quelle loro canzoni dalla melodia
dissonante, piena di tristezza, una canzone che, probabilmente, raccontava una
storia vera: quella di una prostituta bambina. La voce era quella rauca e
spezzata dei suoi congeneri, una voce che metteva i brividi addosso.
-Mia
madre era una di quelle ragazze: puttana a tredici anni, incinta a sedici e non
si sa di chi…Una cosa la so per certa:chiunque fosse, mio padre era sicuramente
un bianco, uno di quei ricchi porci che frequentavano il bordello e sganciavano
fior di dollaroni per sbattersi le ragazze e farsi spennare al tavolo verde. La
madama, naturalmente, non l’aveva presa bene. Ci ha tentato con l’elleboro
nero, con i decotti di prezzemolo, con i bagni bollenti…Quando ha visto che io
continuavo a starmene saldamente abbarbicato alle viscere di mia madre, si è
rassegnata e ha detto soltanto
“Speriamo che sia una femmina”. Già, un’altra
prostituta bambina per la Casa del Sole Nascente, un’altra vergine da
mettere all’asta. Invece sono nato io. Per un po’ ci ha lasciati insieme, poi,
quando ha visto che ai clienti non andava d’avere un marmocchio in mezzo ai
piedi mentre facevano i loro porci comodi, si è risolta a vendermi: tra l’altro
le avrei fruttato un bel po’ di quattrini
perché a quell’età ero parecchio bellino e promettevo bene, sempre che
la cosa interessasse a quel disgustoso pederasta che sembrava intenzionato a
comprarmi: a lui piacevano piccoli, quando cominciavano ad avere nove o dieci anni se ne disfaceva
perché non gli interessavano più…Siete ancora convinta che la schiavitù possa
aver avuto un volto umano, Madame?
La
guardava fisso fisso, con quegli occhi bui come il fondo di un pozzo, e si
tormentava nervosamente il labbro inferiore con le dita.
-Io non
mi chiamo Harriett Beecher Stowe, e tutte queste cose non le ho inventate: le
ho provate sulla mia pelle, come altri hanno provato la frusta, il fuoco, le
botte, i lividi. Vi avevo avvertita che sarei stato sgradevole, che avrei anche
potuto…ferirvi Madame.
-Continuate. Vi prego.
-Scappare
non era facile, se l’avessero riacciuffata sapeva che cosa l’aspettava. Ma mia
madre è un diavolo di donna, non avete idea di quanto sia coraggiosa. E poi
abbiamo incontrato parecchia brava gente che ci ha aiutati. Ancora adesso le
capita di svegliarsi di soprassalto, con i latrati dei cani dentro le orecchie,
quei cani da pista addestrati alla caccia al negro, che non mancavano mai in
nessuna piantagione.
Anche suo
padre ne possedeva una muta, di quei cani: blodhound e coonhound dal fiuto
portentoso, capaci d’inseguire la loro preda da un sorgere del sole all’altro e
i terribili catahoula, i cani leopardo dai denti aguzzi come pugnali.
Sicuramente la madre di Wade aveva tremato più per il bambino che per se
stessa, quando aveva sentito ululare i cani a due passi dal confine, dalla
salvezza.
-Arrivati
a Philadelphia, tutto è stato molto più facile di quel che mia madre temesse: i
tempi erano quelli che erano, tutti provavano simpatia per noi e volevano
aiutarci. Leeland McRae, che già da allora dirigeva la Scuola di Belle Arti,
offrì lavoro a mia madre come donna delle pulizie.Non era molto, ma si poteva
tirare avanti decentemente.
Già:
probabilmente la bella Lola aveva arrotondato i suoi guadagni posando nuda per
gli studenti dell’Accademia e senz’altro aveva scaldato, nelle fredde notti del
Nord, il letto del Grande Maestro, fresco vedovo e ancora attraente e vigoroso,
malgrado i sessant’anni suonati. E il Maestro aveva finito col prendere in
simpatia il ragazzino, bello come un angelo, intelligente e sveglio, tanto da
pagargli gli studi fino al conseguimento della laurea nel più prestigioso
ateneo del Paese. Gli artisti non hanno i pregiudizi dei comuni mortali, gli
unici colori che contano, per loro, sono quelli da schiacciare fuori dai
tubetti e così vissero tutti felici e contenti: come nelle favole.
-Butler è il cognome di vostra madre?
-Il primo
che le sia venuto in mente, quando i funzionari dell’Ufficio Immigrazione
gliel’hanno chiesto. Butler era uno dei clienti del casino. Il più attraente e
il meno villano di tutti, a sentire mia madre.Le faceva spesso dei regalini, a
volte capitava che le lasciasse delle mance sottobanco. E lei metteva via quei
soldi, immaginava che le sarebbero tornati utili, prima o poi. Credo
desiderasse che io fossi davvero figlio di quell’uomo. Può essere che sì come che
no, chissà…
Butler,
come Rhett. Viaggiava spesso, niente di strano che si fosse trovato a passare
dalle parti di Richmond, anni prima, e a frequentare il locale dove lavorava la
madre di Wade. L’uomo che Lola Butler avrebbe desiderato fosse il padre di suo
figlio, galante perfino con una prostituta di colore, rassomigliava tale e
quale a Rhett.
-Sapete
se vostro padre era…bruno, olivastro, con i baffetti?
-Mia
madre non me ne ha mai parlato, ma che importanza può avere? So per certo che
era un bianco, e quando un bianco ingravida una negra, il figlio che viene
fuori è un po’ più chiaro di sua madre, ma molto più scuro di suo padre, conta
questo. Comunque scommetto che vostro marito è bruno, olivastro e con i
baffetti. Vi avevo avvertita che le mie parole avrebbero potuto ferirvi,
Madame.
“No,
Wade, anche se la verità può far male, me lo insegni tu stesso. Da queste
parti, tutti gli uomini bianchi hanno bastardi di colore, concepiti con una
schiava o con una puttana e le loro legittime consorti hanno finito col non
farci più caso. Io amo Rhett. Ma anche se lo amo questo non significa che lo
consideri un santo.” Solo il pudore la tratteneva dal dirglielo. Però aveva
ragione, al solito, il diavolo nero: Rhett non era diverso dagli altri uomini,
né s’era mai preoccupato di sembrarlo. E lei non era una a cui l’amore chiuda
gli occhi e turi le orecchie, era sempre stata cosciente del fatto che suo
marito potesse aver avuto altre donne. Tante, compresa una sgualdrina nera di
Richmond che gli aveva dato, a sua
insaputa, un figlio mezzosangue. Era un’ipotesi perfettamente realistica, sulla
quale era del tutto inutile arrovellarsi, arrabbiarsi, piangere…Eppoi indubbiamente l’unico uomo che Wade in
qualche modo doveva aver considerato come un padre era Leeland McRae, che si
era occupato di lui, gli aveva dato consigli, insegnato a scarabocchiare,
l’aveva calzato, vestito, aveva permesso che avesse una casa e che potesse
studiare. Rhett Butler: un semplice nome, per lui, né più né meno. Un nome
simile al suo, ma che apparteneva ad una persona del tutto diversa, un bianco
con i capelli bruni e i baffetti sottili, un perfetto sconosciuto, uno di quei
ricchi che gli facevano soltanto rabbia. Aveva letto “Il Capitale”, pensava Rossella. Di che cosa si trattasse con
precisione, lei non s’era mai curata di saperlo: un trattato politico, questo
era sicuro, forse il vangelo di quelli che sognavano di mettere il mondo
sottosopra in nome dell’uguaglianza. Di quelli come Wade, che sarebbe potuto
diventare un artista e invece aveva scelto di diventare medico per aiutare i
bambini mocciosi degli slums, gli operai che lasciavano le dita sotto le presse
delle fabbriche, gli immigrati che non sapevano una parola d’inglese e si
guadagnavano la fame pulendo le latrine pubbliche, magari perfino gli indiani
delle riserve. E chissà per quale misteriosa ragione aveva deciso di curare la figlia e la mantenuta d’un mercante
d’armi. Il bisogno di denaro? Mah, uno che vive in Congo Square nella casa di
uno stregone vudù, che veste e cavalca come un vaccaio texano, che si vanta di
saper badare a se stesso, non può essere un uomo che abbia grandi esigenze:chi
doveva mantenere, oltre a se stesso? Il suo cavallo, le aveva detto Prissy, e
un grosso cane nero sempre affamato. Basta.
*
-Le vostre mani, dottor Butler…Sono incredibilmente belle.
Lo
avrebbe fatto arrossire, a guardarlo come lo guardava, se fosse stato bianco.
Sì, lo avrebbe fatto arrossire, accarezzandogli leggera, con la punta dei
polpastrelli, il dorso della mano.
-E’
importante che un medico ne abbia cura: sono il suo strumento di lavoro. E che
le tenga pulite, soprattutto questo. Stein ,uno dei miei insegnanti ad Harvard,
uno che in Europa aveva studiato con il dottor Semmellweiss, non faceva che
ripetercelo.
Stein. Un
ebreo, sicuramente doveva essere quello. Solo un ebreo, anche al Nord, non
avrebbe recriminato, ritrovandosi tra i piedi un negro che pretendeva di
studiare per diventare dottore. E a lei gli ebrei non erano mai piaciuti, le
sapevano di nasi adunchi, animi gretti e mani sordide. Tutti, anche quel
dottore arrivato dall’Europa che se le lavava continuamente ed esigeva che
altrettanto facessero i suoi allievi. Ma era possibile che le mani di un negro
fossero pulite? I negri a lei avevano sempre messo paura, con quei denti
grossi, quegli occhi bianchi nelle facce nere, quei muscoli che sembrava
volessero scoppiare sotto i camiciotti di tela, quei capelli che dovevano
essere ruvidi come la lana delle capre. Negri ed ebrei, due facce della stessa
medaglia, gli assassini di Cristo e i reietti della terra. Non aveva mai
conosciuto un ebreo, negri sì. E le facevano ancora più paura, adesso che
quella maledetta guerra li aveva resi liberi com’era libera lei, i neri di casa e quelli dei campi,la stupida
Prissy e il dottor Butler, che era bello come un angelo e non abbassava gli
occhi incrociando il suo sguardo. Chissà se era vero che solo pensare alle
donne bianche mandava il loro sangue in fiamme. E chissà se era vero che…Con
tutti quelli che le erano passati davanti agli occhi in vita sua, non aveva mai
pensato che anche un uomo di colore
potesse essere bello e desiderabile. Come Wade, con i suoi occhi profondi e le
labbra socchiuse, con il suo leggero sentore di cuoio e di colonia che non
riusciva a mascherare l’odore eccitante della sua pelle. La stava osservando senza parlare. Che fosse
arrivato a comprendere la sua frustrazione di donna umiliata, a fiutare il suo
desiderio segreto, malato, vergognoso, che non doveva trapelare per niente al
mondo? Ci hai mai provato con un nero, bella signora?
-Mio
padre era arrivato a possedere anche quattrocento schiavi: li ho sempre avuti
sotto gli occhi, nei campi, in casa, dappertutto. Eppure…
“Eppure
te li sei sempre figurati come ti ha fatto comodo, bella signora: animali
creati per la fatica, con la schiena forte e il cervello debole, pigri,
sensuali, creduloni, i cui unici interessi sono ballare, mangiare e fottere e
molto più attrezzati tra le cosce che non dentro la testa. Eppoi ti mettono
addosso una terribile paura, perché non puoi più controllarli com’eri abituata
a fare e non li conosci abbastanza: è normale aver paura delle cose che non si
conoscono.”
Gli aveva
detto che la vita non era stata facile con lei e che spesso era stata costretta
ad affrontare con coraggio le difficoltà: stava con un uomo che non era suo
marito e dal quale aveva avuto una figlia; se n’era sempre infischiata di
schemi e convenzioni, e se un uomo le piaceva…Se le piaceva, non esitava a
farglielo capire, anche se le uniche cose che sapeva di lui erano il colore
della pelle e dieci anni e più di differenza d’età. Aveva mani morbide e
delicate, estremamente piacevoli mentre gli scorrevano dolcemente sulle
sopracciglia, sugli occhi, sugli zigomi alti e ossuti. Deglutì, quando gli
sfiorarono le labbra.
-Sei
bellissimo, Wade.
-Parecchi
uomini di colore lo sono. Non ve n’eravate mai accorta?
“Già, ai
bianchi ha sempre fatto comodo lasciarci credere il contrario, strapparci via
l’orgoglio di essere come siamo, insinuare nei nostri cuori l’invidia per gli
altri e il disprezzo di noi stessi. E noi ci siamo cascati. Quasi tutti i
sanguemisto come me sono orgogliosi di essere bianchi per metà, per tre quarti,
per un decimo soltanto; chi è nero, invidia i capelli lisci e la pelle chiara
di chi è meticcio. Chi è meticcio disprezza i neri e non si rende conto che i
bianchi disprezzano tutti allo stesso modo. Non è vero, Madame? Ai bianchi, il
loro mondo non basta più, e allora… Gli indiani vengono massacrati per
costruire la ferrovia. I neri, alla faccia di tutte le leggi, continuano a
restare la solita merda di sempre. In Asia e in Africa non è rimasto un solo
francobollo di territorio che non sia colonia. Che cosa ci abbiamo guadagnato,
noialtri? La vostra civiltà, che avete avuto la condiscendenza d’insegnarci a
colpi di frusta?”
Wade
aveva una pelle morbida e sensibile e un notevole autocontrollo. Un altro le
sarebbe saltato addosso, pensava Rossella. Lui si limitò a lasciarsi
sfuggire sospiro di piacere quasi
impercettibile e a guardarla con quegli occhi carichi di domande.
“Uh, ti
piace, il negro, eccome se ti piace, il negro grosso, puzzolente e sempre in
fregola, bella signora…Non te l’hanno insegnato, che le signore perbene
farebbero meglio a girare alla larga da quelli come noi? Ah, Rossella, piccola
mia, se continui a toccarmi in questo modo non so fino a che punto…”
Aveva
dita bianche e sottili, Rossella. Dita curiose e impudiche, che gli
sbottonavano la camicia e si divertivano a sfiorargli, leggere, la pelle scura
del petto. Che splendidi muscoli hai, Wade…Un bel paio di spalle, il collo
lungo e robusto, la nuca rotonda, coperta di riccioli fitti e ruvidi. E la
schiena liscia, lui che le aveva detto di frusta, fuoco, lividi e bastonate.
Non c’erano segni sulla sua pelle, pensava la donna assaporando le labbra piene
di lui, il sapore salato della sua lingua e della sua saliva. Parlava con le
parole degli altri, forse con le loro menzogne. La tua vita è stata meno
difficile di quanto non lo sia stata la mia.Che cosa ti hanno dovuto rubare e
ti sei dovuto riprendere, quando eri la scimmietta ammaestrata di Leeland
McRae? O quando tua madre, per farsi mantenere, gli faceva quello che aveva
imparato a fare nei bordelli di Richmond?
Sorrise,
sarcastica, continuando ad accarezzargli la nuca, le spalle, il petto, a
percepire il calore, la morbidezza, l’odore della sua pelle liscia e scura.
“Velluto di mezzanotte”, dicevano i signori bianchi parlottando tra loro a proposito delle grazie di qualche
sgualdrinella nera. E anche la pelle di Wade, che era figlio della degradazione
e della lussuria e non dell’amore, era
come velluto di mezzanotte.
-Tutto
questo…è molto meglio del laudano, non è vero, bella signora?
E’meglio
del laudano e non fa male. O fa male, forse. Uno schiaffo era l’ultima cosa che
Wade si sarebbe aspettato, quando anche lui cominciò a giocare con le mani.
Finché a dirigere il gioco era stata lei, tutto andava bene, ma poi il gioco
s’era fatto pesante: lei era una signora, lui uno straccione nero, inutile
illudersi.
La fissò
con quegli occhi bui come il fondo di un pozzo poi, sistemati alla meglio i
vestiti, infilata la giacca, calcato sulla testa il cappellaccio a larghe tese,
se n’era andato senza una parola.
*
-Wapiti!
Ricordò
di essere uscito dall’acqua in cui aveva cercato refrigerio, in quell’estate
torrida di cinque anni prima e d’essersi domandato, non senza imbarazzo, se lei
l’avesse visto nudo. Non doveva avere più di tredici, quattordici anni, ed era
una deliziosa ragazzina coi capelli neri che le arrivavano alle natiche, i
denti bianchi nella faccia cotta dal sole, gli occhi a mandorla
dall’espressione pungente. Masticava un po’ d’inglese,appreso alla scuola della
Missione cattolica che aveva frequentato fintantoché era stata in grado di
resistere rinchiusa, e gli stava sempre appiccicata alle costole. Era una
mocciosetta di quattro o cinque anni, quando l’Uomo Bianco Che Fa Vivere La
Gente Sulla Carta aveva preso l’abitudine di portarselo appresso quando lasciava
la città per andare da loro: un cucciolo di Uomo Bisonte, che le donne della
tribù avevano soprannominato Wapiti, come il grande cervo della foresta, che
aveva i suoi stessi occhi scuri, liquidi e dolci. Poi l’Uomo Bianco s’era fatto
troppo vecchio per cavalcare, e Wapiti tornava da solo a trovare i suoi amici
indiani, a schizzare sulla carta i loro tratti fieri, le loro facce aquiline
incorniciate dai lunghi capelli pesanti come coperte di lana, quei loro occhi
tristi che guardavano aldilà delle cose, cercando il ricordo di un passato che
niente avrebbe potuto richiamare indietro.
La
ragazzina gli sedeva sempre vicino per guardarlo disegnare, gli sorrideva
sempre. “Sei bellissimo,anche se sei diverso da noialtri”. Gli diceva. Era
maliziosa, per la sua età, più delle ragazzette bianche,doveva credersi già
donna. Gli aveva regalato i suoi braccialetti e le sue collane, dicendo che gli
avrebbero portato fortuna.
Quella
volta, se fosse stato bianco, di sicuro sarebbe arrossito fino alle orecchie,
vedendola correre verso di lui. Non potendo fare altro, s’era rituffato a
precipizio dentro l’acqua fredda del laghetto.
-Credi
che non abbia mai visto un uomo nudo, Wapiti?
-Agli
occhi della mia gente non sta bene che un uomo si mostri nudo davanti a una
donna.
-La tua
gente. I visi pallidi, come l’Uomo Che Fa Vivere La Gente Sulla Carta o gli
uomini bisonte?
Non lo
sapeva nemmeno lui, era come se vivesse tra due mondi. La sua pelle scura, fino
a quel momento, non gli aveva precluso niente, ma lui non era così sciocco da
non capire che era solo fortuna e non sarebbe stato per sempre: solo il denaro
e il prestigio sociale di Leeland McRae, l’Artista erano stati capaci di
scardinare le mille porte che la vita avrebbe potuto chiudergli in faccia. Il
denaro, quello, anche se non era più di un sogno o di un incubo, per gli
immigrati degli slums, per i bambini che lasciavano le dita negli ingranaggi
delle macchine, quando la stanchezza, la fame e il sonno intorpidivano i loro
riflessi; o per i piccoli spazzacamini costretti a sei, sette anni, a
guadagnarsi da vivere vincendo a forza di botte l’angoscia del buio, di quei
pertugi stretti come una bara nei quali dovevano calarsi a testa in giù, legati
per i piedi. Non erano schiavi anche loro, malgrado la loro pelle bianca, malgrado il tempo della schiavitù fosse
stato cancellato dalla guerra? La Guerra Civile aveva spezzato le catene di
ferro dei neri per forgiarne altre, invisibili ma ugualmente pesanti da
portare: una schiavitù che non guardava in faccia nessuno, bianco, giallo,
nero, cittadino americano o immigrato.
-Non ti
si vede più spesso come prima, Wapiti.
-Ho
parecchio da studiare,se voglio diventare uomo-medicina.
-Un uomo
medicina…-il sorriso della ragazzetta s’era fatto scettico-Uno sciamano deve
vincere il dolore, se vuole conquistare la conoscenza. E il suo corpo porta le
tracce della sua lotta contro il dolore: non vedo cicatrici, sul tuo petto e
sulla tua schiena.
-Non la
conquistiamo in un’altra maniera, la conoscenza, piccola Donna Lupo:senza
bisogno di farci del male.
-E’difficile curare il dolore degli altri se non lo si è provato sulla
propria pelle,credo.
E lo
credeva il popolo di Donna Lupo: i guaritori si provocavano ferite,
scarificazioni e bruciature, arrivavano a forarsi i capezzoli e il prepuzio.
Forse era vero,non si riesce a curare il dolore degli altri, se non lo si
conosce.
Aveva
conquistato la conoscenza, quando era tornato; e Donna Lupo non era più la
stessa di tre anni prima: un essere febbricitante, deforme, terrorizzato, che
da due giorni e due notti urlava il proprio dolore per quel figlio, il primo,
che non voleva uscire da lei. Un dolore di cui un uomo non avrebbe conosciuto
la più pallida parvenza, neppure se si fosse strappato a brani la carne dalle
ossa. Donna Lupo sarebbe morta, se non avesse fatto qualcosa, e allora Wade
aveva preso il suo coltello, ne aveva arroventato la lama sul fuoco e aveva
allargato il canale del parto con un colpo secco. Il bambino era venuto fuori,
insieme con un fiotto di sangue e di materia purulenta. Morto.
Lei se la
sarebbe cavata, era giovane e forte, e poi gli sciamani della sua tribù
conoscevano le erbe che debellano la febbre. Ma l’amore non le avrebbe dato più
alcun piacere e forse non sarebbe stata in grado di avere altri figli: i suoi
simili l’avrebbero considerata una reietta, probabilmente il suo compagno
l’avrebbe ripudiata: era valsa la pena di salvarla?
-Sei
troppo sensibile, ragazzo: vedi di cambiare o per te saranno guai grossi. Un
medico deve abituarsi a convivere con i suoi fallimenti e i suoi errori: non
siamo dei padreterni.
Diceva di
parlare così perché aveva già avuto l’età di Wade, ma Wade non aveva ancora la
sua. Non era diverso da tutti gli altri neolaureati che gli mandavano come
tirocinanti, pieni di ideali eroici che, a contatto con la realtà, si
sgretolavano come legno marcio. Nessun problema economico, un facoltoso tutore
che, non avendo altri parenti, sicuramente gli avrebbe lasciato tutte quante le
sue sostanze…Era stato più fortunato di lui il cui padre, un modesto
insegnante,aveva dovuto tenere l’anima coi denti per farlo studiare. Più
fortunato di lui che, a quarantacinque anni suonati, non era ancora riuscito a
venir fuori da quel dannato ospedale
finanziato da un filantropo di cui non ricordava neppure il nome, dove si
curavano corpi fradici per la sifilide, occhi che suppuravano,dita tranciate
dai macchinari delle fabbriche, i malanni della fame e della miseria.Quando
rientrava a casa più morto che vivo, erano anni che ascoltava la solita solfa:”
Sei un fallito, un buono a niente, non ho più nulla da mettermi addosso che non
sia tutto rappezzato, i tuoi figli vanno in giro con le scarpe scalcagnate e si
vergognano di te…” Sua moglie aveva ragione. Quell’altro, invece, giovane e
bello com’era, e ricco come sarebbe diventato, avrebbe potuto avere il mondo ai
piedi, perfino sposare l’ereditiera più facoltosa e più carina della città
senza che nessuno osasse recriminare circa le sue origini o il suo colore.
-Il
denaro corrompe-diceva sempre. Se avesse ereditato tutte le sostanze di Leeland
McRae, come sembrava più che probabile, avrebbe lasciato un vitalizio a sua
madre e investito il resto in quel dannato ospedale. Pazzo. Poi sarebbe sceso
al Sud, per curare i malanni dei suoi simili e magari si sarebbe fatto linciare
dal Ku Klux Klan non appena quella
gentaglia avesse realizzato che non era stato capace di restarsene al suo posto
o una donna bianca gli avesse posato gli occhi addosso anche solo per
guardarlo. Dieci, cento, mille volte pazzo. Era un bel ragazzo simpatico, con
la parlantina facile, ricordava il dottor Brannighan, che cavalcava come un
centauro, non si tirava indietro se c’era da menare le mani e anche con la sei
colpi se la cavava mica male. Era bravissimo a disegnare, forse avrebbe fatto
meglio a non intestardirsi a diventare medico e sarebbe potuto diventare un
artista di vaglia come il suo tutore. Con le idee che gli frullavano in testa,
per lui sarebbe stata la scelta migliore, invece…
-Il
momento in cui un medico deve misurarsi con la morte prima o poi arriva sempre,
Wade. E non sempre a morire sono i vecchi, o chi ci vuole male. E’ dispiaciuto
anche a me, credimi, ma nessuno avrebbe potuto farci niente.
Inutile
dirgli che piangere di tristezza e urlare di dolore non è vergogna, Brannighan
tanto non lo avrebbe capito, e magari gli avrebbe rinfacciato di avere il cuore
di cera e le lacrime in tasca, come tutti quanti i maledetti neri, una
razza impastata di sentimento più
che ragione. “Ti saresti dovuto fare le
ossa dove me le sono fatte io,
ragazzo”. Già, lui se l’era fatte come medico militare durante la Guerra, le
maledette ossa. Avesse visto anche solo una decima parte di quello che aveva visto lui quando era chirurgo
dell’esercito, giovani rovinati per sempre, gente che pregava Dio di toglierla
dal mondo, avrebbe mollato tutto quanto
per tornarsene all’Accademia a dipingere. O sarebbe diventato duro come una
pietra, e non avrebbe dato una lacrima, per la piccola immigrata morta in
quella maniera spaventosa solo perché non aveva abbastanza denaro da comprarsi
un paio di scarpe.
-Forse
quella tua…Anna è stata più fortunata da certi che dalla guerra tornavano
ridotti a rottami. E non piangere come piangono le donne, Wade, maledizione!
*
Wade
cavalcava verso casa sotto la pioggia, la pioggia tiepida dell’autunno di New
Orleans. Quei pochi anni, quella città, l’avevano cambiato, indurito, come
l’allume di rocca aveva indurito la pelle delle sue dita. Aveva imparato, se
non ad accettarle, almeno a misurarsi con le numerose facce della morte che in
quella città putrida di fango erano le febbri, i serpenti velenosi, i morsi
incurabili dei cani arrabbiati, la presenza incombente del Padre delle Acque,
il grande fiume che fagocitava e non restituiva quel che si era preso, una
città che sembrava sempre sul punto di marcire, se non di sprofondare in quel
fango su cui si reggeva per puro miracolo. E poi c’era l’odio, il puntiglio
truccato da questioni d’onore, il fanatismo cieco e senza ragione che armava le mani dopo essersi rivestito
d’ideali assurdi che, in realtà, servivano solamente a nascondere giochi di
potere: bianco contro nero. Uomo contro uomo. Quando sarebbe finita? Ne aveva
curate a decine, ferite d’arma da fuoco e ossa rotte dalle bastonate. Qualcuno
gli era morto tra le braccia, com’era successo a Papa Joe, un vecchio negro
mezzo svanito che era stato pestato chissà per quale motivo, dai fantasmi
bianchi che s’erano dati il nome di un fiore. Era stata dura non piangere,
anche se nessun Brannighan glielo avrebbe rimproverato.
Ma, per
fortuna, quella città era anche piena di vita, generosa e calda come una
vecchia puttana alla prese con un ragazzino a cui debba insegnare tutto: il
Carnevale, il profumo speziato del gumbo (minestra di gamberi, N.d.A.) e
delle callas (frittelle dolci N.d.A,), il mercato con il suo vociare, la
musica e le donnine dei locali malfamati di Storyville, la stupefacente
bellezza delle mulatte di Rampart, i tamburi del vudù. “L’appé
vini le Grand Zombi /L’appé vini pou fé gris gris…”(« E’ venuto il grande Zombi…E’
venuto per fare gris-gris… » si tratta di una sorta di formula di
scongiuro nel dialetto creolo di New Orleans N.d.A.)
*
Nell’accomodarsi la veletta, mentre la carrozza di avvicinava alla meta,, Rossella si domandò se qualcuno avrebbe potuto riconoscerla. Con il viso velato e le mani coperte dai guanti, niente la rivelava per una bianca. I riccioli neri che le sfuggivano dal cappellino avrebbero potuto spacciarla per una quarto od ottavo sangue, per qualcuna di quelle languide bellezze dalla pelle color avorio vecchio con le quali i gentiluomini bianchi della città solevano formare,col beneplacito di tutti quanti, mogli comprese, le loro famiglie clandestine. Rise dentro di sé, sarcastica, al pensiero di come si sarebbe sentita, appena pochi giorni prima, se qualcuno si fosse azzardato a scambiarla per una donna di colore. Nessuno può mettere ipoteche sul proprio futuro. E le differenze, in fondo, non erano poi molte, anche se nelle vene di Rossella scorrevano solamente sangue irlandese e francese. Anche di lei dicevano a bassa voce puttana e mantenuta. Rhett era stato suo marito cento, mille, diecimila anni prima, adesso era soltanto l’uomo che le giaceva accanto nel letto e per il quale ogni scusa era buona pur di rimandare un matrimonio a lungo promesso. Rhett non era mai stato una persona come si deve e mai che gliene fosse importato qualcosa. Era ancora sposata a Frank, il buon vecchio Frank che non amava, la prima volta che era stata con lui. Frank, marito di Rossella e socio in affari di Rhett. Delle remore morali avevano fatto cartastraccia, sia lei che lui, e la paragonassero a chi volevano, le malelingue di New Orleans: anche a una negra. Per quel che gliene importava…
La vettura pubblica, mai avrebbe immaginato in vita sua di doversi servire di una carrozza a nolo, di dover sedere sulla stessa panca dove poteva aver posato le natiche una prostituta, si era fermata.
-Congo Square, Madame-aveva bisbigliato il vetturino, aiutandola a scendere. Era un negro corpulento, di mezza età e sicuramente dalla voce, dal biancore delle mani, dalla consistenza dei capelli o da qualche altro particolare, doveva averla riconosciuta per quella che era. Ma non si era, grazie a Dio, meravigliato più di tanto: da Mexcal,perché era lì che stava andando, a farsi preparare filtri d’amore e fatture a morte, non andavano solo le negre.
La casa dello stregone era un vecchio edificio fatiscente in fondo a un giardino incolto, ombreggiato da alberi di catalpa che da anni non venivano potati. Un grosso cane nero latrava minacciosamente, lanciandosi contro l’inferriata. Ringraziando il Cielo, la casa era dotata di un piccolo ingresso secondario che si apriva direttamente sul muro esterno della costruzione e doveva essere la porta che immetteva nell’abitazione di Wade.
Bussò. Era possibile che lui non fosse in casa, come capita spesso ai medici.
-Desiderate, Madame?
-Ho un terribile mal di testa…da un paio di giorni in qua.
Gli rispose, sollevando la veletta e dedicandogli il migliore dei suoi sorrisi. Lui era scalzo, in maniche di camicia, bellissimo.
-Non avrete intenzione di ricominciare con quel dannato laudano, spero:detesto l’idea di veder morire i miei pazienti.
(continua)