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Autore: Nicki97    22/09/2012    2 recensioni
Chi non ha mai avuto il tipico amore adolescenziale sui banchi di scuola??
Questa storia rappresenta il tipico amore adolescenziale che "non viene fuori", "non si fa vedere", solo perché una delle due persone è troppo orgogliosa per dimostrarlo...
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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Portava gli stessi pantaloni sportivi con le scritte fosforescenti che portavano tutti e una felpa blu con cappuccio; non sorrideva mai, sembrava sempre arrabbiato con qualcuno e forse lo era.

Caterina lo guardava correre verso il traguardo, era sicura che avrebbe vinto, ma il suo cuore impazziva, per l’emozione della gara, certo, ma anche per il timore che qualcuno o qualcosa, magari nell’ultimo metro, potesse fermarlo e impedirgli di trionfare, come sempre.

Era sempre così: quando interrogavano lui, anche lei entrava in agitazione e sentiva un fuoco inarrestabile che le saliva alle guance e la pervadeva tutta, proprio lei che aveva sempre freddo e che spesso veniva derisa perché portava sempre due maglie e l’immancabile piumino anche quando si giocava nel grande cortile e quasi tutti, addirittura, si ritrovavano in maniche corte.

Era soprattutto lui a deriderla, per qualsiasi cosa, anzi, soprattutto senza ragione. L’aveva presa di mira, forse non sopportava che a scuola fosse brava quasi quanto lui: accidenti, quella scema si faceva sempre ripetere tutto dai professori, diceva “Non ho capito” con quella vocina insopportabile e i professori a rispiegare, a fare nuovi esempi, e lei sempre con quella faccia da ebete stampata sulla faccia…. E poi nelle verifiche fioccavano i 9!

Dodo proprio non lo sopportava: ma come? Se non aveva capito niente! Ha preso in giro tutti?

Che stronza! Voleva fare quella che non ha paura di dire che non capisce, per far contenti i professori, che dicono sempre che è un segno di maturità.

Ma che matura, è un’impedita, goffa, non sa nemmeno correre, sempre agitata, sempre a farsi notare.

Dodo non aveva bisogno di farsi notare, era un leader nato, brillante, sicuro, anche nella cattiveria più spietata. Quel nome proprio non era adatto a lui, un anatroccolo dondolante e ormai estinto poteva essere il simbolo di tutto ciò che lui non era.

Gli avevano detto che si chiamava così un antico poeta bellissimo, e poi c’era uno zio da ricordare che portava quel nome, ma lui quando gli chiedevano come si chiamava diceva sempre “Dodo”; e le persone gli domandavano “Come Dodo?” 

“Dodo e basta, che ti frega?”  

Così soprattutto i più deboli, inevitabilmente, subivano il suo fascino, Caterina per prima.

Si perdeva a guardarlo, attenta, ma non troppo, a non farsi scoprire.

Le piacevano soprattutto i suoi occhi, neri come la pece, come diceva la mamma, ma cos’è la pece?

Boh, dev’essere qualcosa di molto scuro e molto bello, forse una pietra preziosa, no quella era l’onice. Caterina non ne sapeva di similitudini, sono i grandi che cercano i paragoni, qualcuno le aveva detto che gli occhi di Dodo avevano ciglia lunghissime, ma lei a dire il vero non avrebbe nemmeno saputo dire se fossero marroni, o azzurri o neri, prima che glielo spiegassero, le piacevano e basta, come i suoi capelli, lunghi, sempre appiccicati, chissà se era gel, sudore, o se li lavava poco. Dicono che i ragazzini a 12 anni odiano lavarsi, i maschi naturalmente, Caterina si lavava e profumava continuamente, nel tentativo di risultare finalmente un po’ più femminile, un po’ più carina. Solo i grandi dicevano che era carina e un po’ anche lei, a volte, magari subito dopo essersi piastrata i capelli, oppure quando metteva quel dolcevita rosso,  si  vedeva un po’ carina, ma solo qualche volta. 

E allora aspettava, sperando che una trasformazione nel suo corpo potesse determinare una trasformazione anche nel cuore del suo amore, perché lei lo chiamava così, fra sé e sé.

Ma in attesa, Dodo non perdeva occasione per passarle vicino e apostrofarla con frasi tipo  “Togliti dai piedi, mongola”, “Se ti trovo in classe con me anche alle superiori, mi suicido”, “Che strazio, oggi poi sei perfino più brutta del solito”.

Lei ne soffriva certo, a volte addirittura si offendeva e per qualche giorno si riprometteva di non pensare più a quel bastardo, come lo chiamava Francesca, la sua amica, che cercava, senza riuscirci, di proteggerla, e le diceva sempre di innamorarsi di qualcun altro, accidenti!

Ma poi  se abbassava la guardia e ricominciava a guardarlo di nascosto mentre scriveva, mentre magari un ricciolo gli cadeva su un occhio, ma lui era troppo intento a svolgere il tema per accorgersene, e anche le guance di lui si arrossavano, non per amore, ma per la foga e la fatica, allora Caterina sentiva che qualcosa dentro di lei si scioglieva, come un pezzo di burro nella padella, che se lo lasci lì troppo, frigge e diventa nero e poi non è più buono, fa male.

E allora capiva che era proprio vero quello che dicevano sull’amore, “non si comanda al cuore”, e non poteva farci niente, lo amava e basta.

 

Aggrappato a un palo per sorreggersi e sballottato dal flusso inesorabile delle persone salite alla fermata di Piazza Duomo, Dodo malediceva la metropolitana e tutti i milanesi, ma soprattutto se stesso, per aver scelto di studiare in quella città, solo per togliersi da casa con una scusa plausibile; forse sarebbe bastato avere ancora un po’ di pazienza, o un po’ più di coraggio, per prendersi la sua libertà senza essere costretto a sopportare quel caos per non dover più sopportare il gelo di casa sua.

All’improvviso una spinta più potente delle altre gli fece perdere l’equilibrio e i libri che teneva stretti al petto gli sfuggirono e certo si sarebbero rovesciati a terra se il vagone non fosse stato talmente stipato da impedir loro di toccare il pavimento prima che lui riuscisse a riprenderseli.

Mentre cercava di risistemarli alla meglio, sentì le solite scuse:

“Oh mi scusi, accidenti, mi scusi tanto”

Con indifferenza si voltò borbottando “Di nulla…. ciao”.

“Oh ciao, come stai? Sono la solita imbranata” e sorrideva come per scusarsi, ma era un sorrisetto furbo e per niente contrito.

“Sei cresciuta! Che ci fai a Milano?”

“Sono venuta a trovare degli amici per il fine settimana, e tu?”

Chissà perché non gli aveva detto che stava andando dal fidanzato.

“Be’ io studio Lettere”

Caterina doveva scendere e Dodo, senza avere il tempo di capire o di sceglierlo, si trovò a scendere con lei e a incamminarsi per una via che non conosceva, lasciandosi trasportare dalle chiacchiere di quella ragazza che conosceva così bene, e che pure si ritrovava a scoprire.

Certo non aveva perso la parlantina, era molto meno timida però, lui di sicuro non la avrebbe trattata con così tanta affabilità se fosse stato nei suoi panni, dopo tutte le cattiverie che le aveva fatto.

“Io faccio Lingue”

“Lo sai che la tua amica Francesca viene alla mia stessa scuola?”

Ha lo stesso modo di inclinare la testa che aveva allora. Potrei chiederle di prendere un caffè.

“Davvero? Ci siamo perse di vista, è un peccato”

Sono un po’ in ritardo, ma tanto Luciano mi aspetta, se mi chiedesse di rivederci gli direi di sì.

Che scema, non lo farà mai, mi ha sempre odiata. Ora non mi odia perché siamo grandi e non ha senso, tutto qui.

“Anch’io ho perso tanti amici di allora. Però con Paolo ci vediamo sempre quando sono a casa”

Potrei almeno chiederle il numero di cellulare, non c’è niente di strano, mica è una dichiarazione, almeno saprei come trovarla in caso volessi, ma lei magari non vorrebbe, la metterei in imbarazzo, è una vita che non ci frequentiamo. A dire il vero non ci siamo mai frequentati, eravamo solo in classe insieme. Infondo però chiedo il numero a ragazze conosciute per strada o per caso in un locale, con lei sarebbe anche più normale.

“Be’, io devo prendere questa strada ora, sono quasi arrivata”

“Ok, mi ha fatto piacere rivederti. Davvero”

“Anche a me Dodo. Mi piacevi da morire alle medie, ma sei carino anche adesso. Ciao”

Era diventata rossa come il fuoco, ma quelle parole le erano uscite da sole e non era riuscita a trattenersi, come quando aveva 12 anni e non si controllava. Poi infondo era passato un sacco di tempo, mica aveva detto chissà che, poi ormai non aveva più paura di rendersi ridicola, aveva imparato che molti ragazzi apprezzavano la sua spontaneità e non si nascondeva più.

“Anche tu mi piacevi da morire Caterina, mi piacevi talmente tanto che non lo sopportavo tutto quel tumulto. Eri così diversa, così naturale, così vulnerabile, io ti invidiavo e avrei voluto che mi insegnassi a non pensare sempre agli altri, come facevi? Alla fine della terza non ti ho neanche salutata, perché sapevo che mi avrebbe fatto male e tutti se ne sarebbero accorti e non potevo mostrarmi debole, poi con te, figuriamoci: eri buffa, non eri di quelle da corteggiare. Alcuni dei ragazzi ti trovavano magari simpatica, divertente, anche affidabile, ma mi avrebbero crocifisso se avessi detto che per me era straordinario tutto quello che dicevi e che ti vedevo bellissima. E adesso lo sei ancora di più”.

Questo pensava Dodo mentre la guardava allontanarsi per quella viuzza del centro, dondolando sui tacchi in modo un po’ buffo; certo non era riuscita ad acquisire un’andatura molto elegante, ma per lui era deliziosa, e non era riuscito a dirle niente.

Avrebbe continuato a pensarla e sognarla per altri dieci anni, e a cercarla in cento altre ragazze, senza successo naturalmente.

Però , magari, un giorno, avrebbe potuto incontrarla ancora, per sbaglio, per caso, chissà.

  
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