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Autore: _Dark Side    23/09/2012    2 recensioni
E' un ragazzo normalissimo. E' come se mi avesse attratto a se col solo potere dello sguardo. Lui non vive con la famiglia, perchè non ce l'ha. Lui non studia perchè non va a scuola e non corre in camera sua quando ha voglia di stare da solo, perchè non ha una casa. Lui è un senzatetto. Mi sono innamorata, tutto qui. Cosa importa se non può farmi vivere nel lusso o non potrà accompagnarmi a casa con una macchina? Non mi importa assolutamente nulla.
Genere: Fluff, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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«Maledetta sveglia!» Pensai. Ancora una volta in ritardo. Da pochi giorni mia madre aveva trovato lavoro fuori città ed io ero costretta a svegliarmi da sola e prendere l’autobus per andare a scuola. Ero al quarto anno del Liceo Scientifico, scuola che tutti mi avevano consigliato. Quella mattina persi il pullman e, dato che non ne passava un altro prima delle quattro del pomeriggio, avevo la mattinata libera, senza scuola. Mia madre si sarebbe arrabbiata, ma poco importava…in fondo capita a tutti di sbagliare! Parlo solo di mia madre, perché ho perso papà in un incidente quando avevo quattro anni. Un muletto, in fabbrica, non l’aveva visto e lo investì. Lasciò me, mia madre e mio fratello, Gabriele, di soli quattro mesi. Fu dura crescere senza un padre e per mamma, crescerci entrambi svolgendo entrambi i ruoli di genitore, fu ancora peggio.
 
Cominciai a gironzolare senza meta per la stazione. Lì si prendeva sia l’ autobus che il treno e c’era sempre tanta gente. Mentre aspettavo il pullman, di solito mi divertivo a guardare le persone correre di qua e di là con i biglietti in mano come se fossero galline in un orticello. C’era chi trascinava pesanti valigie stracolme, chi bevevo lattine di Coca- Cola tutte d’un sorso e chi, per precauzione, chiedeva al capostazione i sacchetti per il mal d’auto. Guardai l’orologio. Le otto e un quarto. Decisi di telefonare mia madre «Pronto? Senti mà, ho perso l’autobus» Lei sbuffò, ma senza arrabbiarsi. «Adesso và a casa, combinaguai! E quando è ora vai a prendere tuo fratello da scuola. Apparecchia la tavola, così quando torno preparo subito il pranzo»
 
Ero abituata ad aiutare mia madre nelle faccende di casa, perché col solo stipendio di lei, non navigavamo nell’oro e quindi non ci potevamo permettere un’aiutante. «Ok, va bene. Vado, ci vediamo dopo» Nonostante la tragedia di quattro anni prima, continuavamo ad essere serene, superando col sorriso gli ostacoli. Io e mamma a sempre abbiamo avuto un buon rapporto; le raccontavo sempre tutto e anche lei mi confidava ogni cosa, così ero sicura che nella sua vita non ci fosse nessun altro uomo e francamente credevo non potesse più innamorarsi.
 
Svoltai l’angolo, diretta verso la via che mi avrebbe portato a casa dopo aver ricacciato il cellulare in tasca. Tra le piante dell’aiuola vidi qualcosa che si muoveva, qualcosa di nero. Di soppiatto mi avvicinai al cespuglio vicino e sbirciai. C’era un ragazzo, doveva essere poco più grande di me, che si stava sdraiando su di una panchina lì, nel piccolo parco della stazione. Era vestito di nero, sia pantaloni che maglietta a maniche corte e aveva capelli corti parecchio arruffati. Aveva con se un borsone, anch’esso nero, che poggiò pesantemente accanto alla panchina. Poi, sdraiato, chiuse gli occhi. Si stava addormentando lì? E non si faceva il problema che chiunque avrebbe potuto vederlo scambiandolo per matto? Davvero bizzarro.
 
Decisi di riprendere il cammino verso casa, perché non mi sembrava il caso di andare lì e dirgli qualcosa…in fondo poteva fare ciò che voleva. Era suolo pubblico. Il giorno dopo, andai alla fermata mezz’ora prima, per essere sicura di non riperdere l’autobus. Salutai qualche ragazza del terzo anno che come me erano in anticipo. Per curiosità, ritornai al cespuglio dell’aiuola, convinta trovare la panchina vuota, invece eccolo di nuovo lì. Stavolta aveva una maglietta azzurra, sempre gli stessi pantaloni e il borsone ancora al suo fianco. Stava nuovamente sdraiato con gli occhi chiusi. Se non fosse stato per il diverso colore della maglietta, avrei pensato che fosse morto il giorno prima.
 
Una barcata di domande iniziarono a brulicarmi in testa. Chi era quel ragazzo? E perché anche quella mattinata se ne stava lì? E quel borsone? Pensai che fosse un ladro, che si dovesse nascondere da qualcuno, ma poi il fatto di starsene steso lì, dormiente tranquillo e beato, mi fece escludere quell’ ipotesi. Decisi di scavalcare l’arbusto che mi nascondeva e chiedere spiegazioni al misterioso ragazzo, anche se una parte di me continuava a ripetermi che poteva fare ciò che voleva. Però dovevo placare la mia sete di sapere.
 
Facendo più rumore possibile, così da svegliarlo senza andare lì e punzecchiarlo con un dito dicendo «Ehi, bel tenebroso, svegliati!». Riuscii nell’intento, perché infatti il ragazzo si tirò su di scatto e mi fissò con i suoi grandi occhi blu. Mi bloccai, col piede alzato da terra. Dovevo avere un’espressione da deficiente, lo ammetto, ma lui era così…ipnotizzante. Era bellissimo. Stupendo. Maledettamente colmo di fascino, anche se sporco da far schifo. Era più macchiata la sua maglietta che il pavimento sotto la panchina. Anche lui rimase fisso, immobile. «Che figura di merda» Pensai. Poi, contemporaneamente ad un’alitata forte di vento che mi scompigliò i capelli, udii un «Ciao» quasi sussurrato.
 
Quel misterioso e bellissimo ragazzo mi aveva salutato.

  
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