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Autore: Dew_Drop    23/09/2012    2 recensioni
Quasi tutti ci siamo chiesti dove e soprattutto chi sia la madre di Yamamoto. La metà di noi, se scrivesse una storia in merito, aggiungerebbe Gokudera alla trama. Ben pochi però saprebbero dire con certezza cosa potrebbe accadere; si limiterebbero, come me, ad immaginarlo.
E allora immaginiamo che Yamamoto abbia veramente la possibilità di conoscere la madre; che decida di lasciare Namimori per incontrarla, e che un immancabile Hayato lo segua. Possiamo persino approfittarne per incorniciarli insieme in un bel motivetto di famiglia.
E adesso, partano le scommesse.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: G, Hayato Gokudera, Nuovo Personaggio, Takeshi Yamamoto
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo Quinto, farfalle





CAPITOLO SESTO
FARFALLE

Sì, era ora, direte voi. Dopo quasi un anno che non aggiorno!
Penultimo capitolo di questa storia che voi mi avete ricordato di non dimenticare.
Lasciamo le chiacchiere alla fine.


Nell’attimo di lucidità che lo colse quando sollevò la chiave inglese, Gokudera si chiese perché mai si stesse spingendo a tanto. Avrebbe potuto mettere in atto la terza alternativa, altresì definita da lui “ultima spiaggia”, senza armarsi di istinto omicida, e invece...
D’altronde si tratta di una cazzata, Hayato. Sicuro che le labbra di Takeshi valgano così tanto?
Non valevano forse una montagna di yen, né vivevano di benzina, né avevano un manubrio e specchietti tirati a lucido. Però valevano lo stesso.
E il suo sorriso. Quello era più prezioso di ogni due ruote in circolazione.
Mordicchiò nervosamente la sigaretta scombinandosi distrattamente i capelli con la mano libera. Cominciava a detestare l’influenza di Yamamoto. Era come se quel viaggio lo avesse sporcato di sentimenti che non gli appartenevano. Amicizia, famiglia, preoccupazione per l’altro. Se avesse avuto un medico a portata di mano, era sicuro che sarebbe corso da lui in preda al panico per domandare: “Dottore, è grave?”, “Esistono cure specifiche?”, “Morirò a breve, vero?”. Ma in quella spassosa prospettiva si trovava di fronte il gran sorriso storpio di Shamal che ribatteva: “Sicuro, Hayato, domani sarai in Paradiso!”.
Si costrinse a tornare alla realtà e la fumosa luce del garage gli annebbiò gli occhi. Davanti, le cromature della sua motocicletta. La sua testa si dedicò ad uno strambo conta alla rovescia in cui il dodici si trovava al posto dell’otto e in cui il sette era chissà come saltato dove doveva esserci il dieci. Imputò la colpa a quel bacio
quel bacio
che aveva volutamente chiuso in un angolo a parte. Poi sputò la sigaretta e la schiacciò con la punta del piede con la violenza con cui in quel momento avrebbe desiderato calpestare se stesso.
E in effetti, saldando la presa sulla chiave inglese, fu quello che fece; schiaffeggiò ogni dubbio, scalciò il proprio orgoglio, morse la realizzazione di star facendo tutto per quelle cinque lettere che il suo cervello aveva per così tanto tempo ignorato.
Lo avrebbe fatto.
 

* * *

 
Fare in modo che la motocicletta non partisse era solo un espediente per prendere altro tempo, per non ammettere di essersi arreso, ipotesi che il suo orgoglio made in Italy non digeriva neanche in astratto. Figuriamoci in concreto.
Yamamoto, educato e non-vorremmo-disturbare com’era, non avrebbe mai accettato l’invito a fermarsi ancora qualche giorno a causa della febbre, nonostante viaggiare nelle sue condizione fosse, se non impossibile, almeno sconsigliato. Così, quando Misako avanzò la proposta di posticipare il rientro a Namimori e quando Takeshi gentilmente rifiutò, Gokudera poté giocarsi il jolly.
“Anche se non vuoi fermarti, baka, la motocicletta non parte. A te le conclusioni.”
Il moro alzò gli occhi su di lui. Era buffo il modo in cui era seduto a metà contro lo schienale del letto, così com’era affettuosa la maniera in cui la padrona di casa gli aveva appoggiato una mano sulla spalla nel tentativo di costringerlo a letto. Sembravano proprio madre e figlio.
Fitta al petto.
“Inutile che mi guardi così” lo apostrofò inacidito Hayato, affondando le mani nelle tasche e appoggiandosi allo stipite della porta. “Senza la mia piccola non si va da nessuna parte.”
“Hai detto che non parte?”
“Problemi al motore. O al serbatoio. O qualcosa del genere, penso.”
Una risposta schiva e diretta, seguita da un borbottio che aveva tutta l’aria di un insulto e dallo sguardo che si alzò al soffitto in segno di palese seccatura.
La verità era che sapeva esattamente qual era l’imprevisto in questione. L’espressione sventrare il motore era forse quella che fra tutte riassumeva efficacemente quanto la notte precedente gli era saltato in testa: semplicemente, con una chiave inglese e la mostruosa conoscenza di cui un genio della scienza come lui poteva disporre, il suo delirio omicida si era sfogato sull’impianto di alimentazione. In fondo si sentiva ancora prudere le dita e la coscienza come se avesse sul serio portato a termine un assassinio.
Chissà quanto sarebbe costata la riparazione. Dio, quanto.
“Quindi, anche se tu non avessi avuto questo febbrone, Yamamoto, da qui non si partiva lo stesso” concluse masticando ancora un tacito senso di colpa.
Takeshi rimase a guardarlo per un istante, poi sul suo volto accaldato si stese un piccolo sorriso. Stanco, ma un sorriso rimaneva. “Accidenti.”
Era incredibile come da quella risposta trasparisse la palese intenzione di metterla sul ridere. Non si smentiva mai, lui; Gokudera ne era così certo da credere che sarebbe stato persino in grado di saltellare come una capretta arzilla giù per il versante dell’Everest. Ridendo.
“Quando mio marito tornerà da lavoro, potremo fargli dare un’occhiata alla tua moto, Gokudera-kun” s’intromise cordiale Misako, che aveva arricciato le labbra in un morbido sorriso. E poi, tornando a rivolgersi al moro: “Nel frattempo tu riposati pure. Non sarà un problema ospitarvi per tutto il tempo che sarà necessario, davvero.”
Seguì un istante di silenzio e lo sguardo di Yamamoto incrociò prima quello delle donna, poi scivolò in quello dell’italiano come a chiedere una conferma; conferma che Hayato si preoccupò di dargli sottoforma di un’occhiata più omicida che altro.
Alla fine accettò. Non erano avanzate parole con cui tentare un contrattacco, non davanti all’evidenza che sì, una maniera per ripartire non c’era, e a quella meno fondata ma affidabile che Gokudera stesse in qualche misura mentendo. Lo si capiva dal modo in cui alzava le pupille e sistemava un piede dietro l’altro, da come masticava insulti immaginari, da come ascoltava sforzandosi di apparire distratto quando invece il livello di attenzione e sensibilità delle sue orecchie faceva invidia all’istinto di un gatto scorbutico.
Lo vide allungare un sorriso di cortesia quando la padrona di casa uscì in corridoio dopo avergli dedicato un’espressione affezionata. Era quasi sicuro che Hayato la seguisse, e invece accostò la porta per poi sedersi sul proprio letto e avvicinare a sé il borsone da viaggio. Si sfilò la maglia, la lasciò sulle lenzuola ancora disfatte, si piegò in avanti per pescare un ricambio dalla sacca.
Erano gesti automatici, quasi stesse seguendo le istruzioni di un immaginario manuale il cui titolo avrebbe suonato più o meno così:“Guida pratica su come ignorare il proprio compagno di stanza”. E non dimentichiamo il sottotitolo: “Con illustrazioni, esempi e tecniche spiegate passo per passo. Facile e veloce!”. E tutto senza dire una parola.
“Gokudera?”
Il silenzio.
“...‘Dera?” ritentò
Stavolta in risposta ricevette un grugnito. Già tanto. Eppure il classico e tiepido sorriso di sempre rimase a rasserenargli un volto che di sereno aveva ben poco:
“Sicuro che non parte?”
“L’impianto di alimentazione, razza di deficiente” soffiò l’altro, senza preoccuparsi di voltarsi e continuando la sua furiosa ricerca sul fondo della borsa da viaggio. Sentiva che il meraviglioso idiota stava scivolando fuori dalle coperte, ma si ordinò di non farci caso e continuò: “Sai a cosa serve?”
“Non ne ho idea.”
“Ti illumino. Serve a fornire il comburente e il combustile.”
Qualcuno che sale alle sue spalle sul letto.
“...e senza quelli non c’è combustione...”
Qualcuno che per un breve tratto ci gattona sopra.
“....e senza combustione il motore non parte.”
Qualcuno che si accomoda dietro di lui e gli passa attorno al busto un paio di braccia dal profilo irresistibilmente atletico, chinandosi quanto bastava per accomodare il mento sulla sua spalla. Qualcuno dalle dita ghiacciate dalla febbre e dal sorriso silenzioso e paziente.
Qualcuno, per l’esattezza, che aveva nome Yamamoto Takeshi.
“Non parte, ecco tutto” ripeté Gokudera, e un fremito gli passò su per la schiena facendogli vibrare appena la voce. Gli pareva di avvertire – o meglio, percepiva un respiro altrui là dove mai ne aveva percepito uno: gli sfiorava l’orecchio, gli accarezzava la guancia, gli si srotolava lungo la linea del collo e infine sembrava fondersi lì con la sua pelle.
Ricordava, per quanto in quel momento la lucidità glielo consentisse, tutte le volte in cui aveva immaginato un suo abbraccio. Si era così scoperto in grado di sostituire le noiose ed inutili ore di lezione – d’altra parte non era un genio per nulla – con pensieri che di noioso, poteva giurarci, non avevano proprio nulla. Dire che lo eccitassero forse era troppo, eppure in qualche maniera si sentiva... chiamato in causa? Coinvolto, forse? Non di rado gli era capitato di sorprendere un indesiderato brivido zampettargli su per la gamba e torcergli poi le viscere in non sapeva quante farfalle immaginarie. Quando gli capitava i suoi occhi scappavano un momento indietro, a spiare quel pezzo di cretino intento o ad allungare un biglietto ad un compagno del club o a sonnecchiare senza riserve sul banco, braccia incrociate e viso beatamente affondato nell’abbraccio dei gomiti.
Preferiva sempre e comunque la seconda delle occupazioni, in quanto almeno non c’era il rischio di incrociare quel paio d’occhi castani che gli avrebbero altrimenti afferrato e poi annodato le budella come i clown fanno coi palloncini. E allora si trovava assurdamente e stupidamente ad immaginare in quali belle forme il suo intestino poteva ridursi: cavallini, fiori con tanto di gambo e foglioline, cagnolini paffuti e farfalle.
Farfalle. Come quelle che prendevano a solleticargli lo stomaco. E così rieccolo al punto di partenza, a quella sensazione di annullamento della gravità tanto insistente da fargli temere che Newton la mela l’avesse vista cadere solo per errore e non per scienza.
Erano simpatici Lepidotteri anche quelli che gli frullavano in testa in quel momento, mentre se ne stava seduto sulla sponda di un letto non suo, in una casa non sua e con un respiro non suo all’orecchio. Soprattutto, era l’ultimo mentre ad avergli sottratto per cinque secondi netti la capacità di articolare anche solo una singola parola. Poi, al sesto secondo:
“Toglimi. Le. Mani. Di. Dosso.”
“Ti sto solo abbracciando.”
“...Attaccandomi la febbre, certo.”
“Sai di olio e di benzina, sai?”
Il capriccio di tremore che a quelle parole gli elettrizzò la colonna vertebrale finì con l’accendergli le guance di una squisita e brillante tinta color ciliegia. Non si voltò a sfidare il sorriso che, sentiva, aveva disegnato le labbra di Yamamoto nella mite espressione del saggio che tutto sa e tutto vede. Un disperato tentativo di speranza maturò in lui la certezza che no, non sarebbe comunque riuscito a notare quanto accidenti era arrossito.
Però l’idiota lo annusava. Lo annusava com’è vero che la terra sta in cielo sottoforma di pulviscolo e com’è vero che il cielo sta in terra sottoforma di pozzanghere; com’era vero che sentiva il cuore bussargli appena sotto la pelle tanto il battito era concitato e com’era vero che aveva artigliato le lenzuola sulla sponda con la prepotenza di chi annaspa per aggrapparsi ad un’ancora di salvataggio.
Merda.
“Normale. Ho smontato qualche pezzo per cercare di riparare il danno.”
Non voleva ammettere a se stesso il sospetto che Yamamoto stesse invece insinuando qualcos’altro. Già se lo immaginava, ad allungare appena il collo oltre la sua spalla per poi scoccargli un sorrisetto benevolo prima di dirgli: “Ti costa così tanto dirmi quello che è realmente successo?”
Il pensiero gli riuscì così concreto che per poco non aprì la bocca con l’intenzione di correggersi. “Vuoi proprio sentirti dire che ho distrutto l’impianto di alimentazione per colpa di quel tuo bacio? Per colpa di quel tuo fottutissimo bacio?”, avrebbe risposto.
E invece no. L’orgoglio o forse l’istinto di sopravvivenza lo convinse ad aggiungere solo, dopo una pausa in cui ingoiò un tappo di saliva: “...e adesso torna a letto. Prenderai freddo.”
Takeshi non se lo fece ripetere due volte. Non c’erano dubbi che i fremiti che gli si arrampicavano fino alle spalle fossero dettati dalle febbre e dalla realizzazione che Gokudera aveva difatti ragione: il marito di Misako sarebbe rientrato in serata, avrebbe dato un’occhiata alla due ruote e con molta probabilità avrebbe risolto tutto con qualche giro di chiave inglese permettendo loro di partire il mattino seguente. Un uomo come quello ispirava meccanica da ogni poro della pelle.
Quando così lui ritrasse le braccia e si scostò dalla sua schiena scendendo dal letto e portandosi dietro quel suo sorriso tiepido, Hayato non impiegò molto a capire che la sensazione di sentirsi per certi versi un bugiardo era giustificata; Yamamoto aveva intuito un’ombra di menzogna, sapeva che aveva passato due ore e mezze a incasinare quel che si era promesso di incasinare e soprattutto si ricordava del bacio.
Lo sentì infilarsi di nuovo sotto le coperte. Solo allora si decise a sbirciarlo di striscio, pescando una maglietta dal fondo della borsa da viaggio e indossandola quando già stava varcando la soglia.
Vide che sorrideva con quell’intramontabile voglia di fare il cretino. Poi si impose di non vedere altro e chiuse la porta.
 

* * *

 
Era già tardo pomeriggio quando le mani di Hayato Gokudera si infilarono febbrili in uno dei cassetti della cucina. Operavano meticolose passando in rassegna vecchie cartoline, sfogliando buste da lettera, frugando finché non incontravano il fondo di legno. Non, non stava cercando un tagliacarte; per quanto surreale e fastidiosa gli riuscì questa realizzazione, tagliare le vene del meraviglioso idiota non rientrava nelle sue intenzioni. Magari avrebbe rinviato.
No, stava cercando una penna. Quella mattina aveva intravisto la pulce alzarsi in punta di piedi e prendere da quel cassetto una penna rossa prima di filare in fretta via, correndo trionfante su per le scale neanche stesse giocando a rubabandiera e avesse agguantato il fazzoletto per prima.
Avrebbe tranquillamente potuto presentarsi di fronte a Misako e sfilare una delle sue rare ma invincibili espressioni da bravo ragazzo per chiedere una biro in prestito, ma... con quale scusante? Inviare una cartolina a Namimori? Diavolo, no.
E non sarebbe nemmeno da te, Hayato. Sarebbe da Takeshi, e tu non sei lui.
La sua espressione corrugata in un ghigno di fretta si ammorbidì appena quando infine serrò pollice ed indice sull’indiscutibile forma di una penna; ma ancor prima che potesse ritirare la mano e pescare dal nulla ciò che aveva così febbrilmente cercato, la riconoscibilissima voce di Daisuke
(“Tadaima!”)
seguita dall’ingresso che si chiudeva gli costò l’istinto di voltarsi e di richiudere il cassetto così bruscamente da scordarsi di togliere prima la mano. Saette di dolore gli spillarono dalle falangi percorrendogli il braccio per intero, motivo per cui si azzannò il labbro e serrò gli occhi per impartirsi di non urlare.
Dio, che male. Quanto diavolo faceva male.
Lì appoggiato con apparente nonchalance contro al bancone con una mano inchiodata fra ripiano e cassetto, sforzò un sorriso quando Daisuke si affacciò oltre la porta della cucina spedendogli in risposta un’occhiata cordiale.
“Gokudera-kun.”
“Da... Daisuke-san.”
“Misako mi ha detto della tua moto. Vogliamo andare fuori a dare un’occhiata?”
“Prendo una giacca e la raggiungo subito.” E dopo un momento: “Grazie.”
L’uomo si ritirò in corridoio dopo avergli indirizzato un gesto paziente della mano. Solo in quel momento Gokudera fu libero di sfilare la propria, di mano, dal cassetto, sollevandosela di fronte e storcendo il naso in una smorfia di dolore al vedere la linea rossa che gli tagliava orizzontalmente le dita. Ma almeno la penna, sì, quella l’aveva. Anzi, si prese anche una busta e se la infilò nella cintura con la biro, ben nascoste sotto il risvolto disordinato della maglietta.
Prima di uscire passò in bagno. Piantare la mano sotto al getto gelido dell’acqua gli ispirò una sensazione di benessere tanto immediata da fargli credere di sentire il bruciore evaporare come ferro immerso in una tinozza ghiacciata.
Le farfalle ripresero a fare i capricci nello stomaco quando in garage trovò Daisuke in compagnia dell’idiota. La mattina e l’intero pomeriggio spesi a sonnecchiare gli avevano ridato colore in volto e in quei suoi occhi color nocciola era tornato quell’immancabile e irresistibile lume di demenza, come se i suoi istinti fanciulleschi avessero ripreso a crepitargli a fior di pelle a mo’ di popcorn bruciacchiati. Tanto in fretta si era ammalato, tanto in fretta si era ripreso. Vedendolo in quelle condizioni, Hayato non sapeva se il peggio fosse passato o se dovesse invece ancora venire. Probabilmente era passato per l’idiota e doveva ancora venire per lui. Tombola.
Daisuke, ginocchio a terra e chiave inglese in mano, era già al lavoro. Ai suoi piedi, sparpagliati come bossoli di proiettile, qualche bullone e qualche vite.
Gokudera avvertì la scomoda sensazione di essere in qualche maniera violato. Era la sua moto, diavolo, e le mani che la stavano esaminando non erano le sue. Quella visione gli riusciva come una violenza fisica e psicologica. Pensiero egoistico? E che gliene importava.
“Ce ne hai messo di tempo, Gokudera-kun” lo accolse Daisuke volgendo il capo e stirando un sorriso di benvenuto. “Ancora qualche istante e sarà tutto a posto. Potrete partire domattina. L’impianto di alimentazione si è come danneggiato da solo. Nulla di irreparabile, in ogni caso.”
“Ah. Sì. Va bene” rispose Hayato annuendo due o tre volte, la mano destra, quella che aveva lasciato nel cassetto, infilata in tasca per non mostrare la linea rossa. Poi scoccò un’occhiata a Takeshi e solo allora si rese conto di star tenendo da lui una distanza di sicurezza di circa dieci metri. Naturale, si era fermato all’ingresso del garage mentre l’idiota se ne stava comodamente appollaiato in un angolo su un vecchio tavolo di ferro, con sorrisetto ad arricciargli le labbra.
Non si parlarono. Yamamoto sembrava più intenzionato ad aspettare che fosse Gokudera a dire qualcosa e Gokudera pareva in attesa che fosse invece Yamamoto a fare altrettanto. Forse perché entrambi sapevano che l’unica cosa di cui avevano bisogno era sì parlare, ma in privato. E lo fecero, o almeno si intesero, dopo che Daisuke si fu alzato e pulito le mani macchiate d’olio in uno strofinaccio.
“È tutto a posto, Gokudera-kun” annunciò con un piccolo sorriso. “Tra poco sarà pronta la cena.”
“Ricevuto, Daisuke-san” gli rispose Takeshi con un’allegra alzata di sopracciglia. Poi Daisuke uscì e fu allora che Hayato capì di trovarsi in un qualcosa come la merda.
“Gokudera. Mi ricordo quello che...”
“Non una parola, baka.”
“...è successo ieri.”
“Cuciti la bocca o te la ritroverai incollata sulle chiappe, tante sono le stronzate che dici.”
Ma Yamamoto continuò a rivolgergli quel suo tiepido, paziente sorriso. Si strinse nelle spalle, alzò gli occhi. “È successo.”
“Per l’appunto. E togliti dalle testa che accadrà una seconda volta.”
Sarebbe stato pericoloso ammettere che invece erano le sue labbra l’unica cosa che desiderava in quel momento. Perché voleva ancora assaggiare quel sapore non suo, quel respiro non suo, quella saliva non sua e quel calore non su, perché aveva capito quanto disperatamente avesse bisogno di ciò che non gli apparteneva; quanto avesse bisogno di lui.
Ma sarebbe stato stupido ed ingenuo ammettere tutte queste cose. Avrebbe aspettato, ben conscio che l’attesa lo avrebbe portato all’autodistruzione e che l’autodistruzione lo avrebbe portato ad aver paura. Paura di rimanere solo, senza un abbraccio a scaldarlo durante le notti d’inverno e senza una voce, la sua, a mordergli l’orecchio.
E fu per paura che si voltò e rientrò senza aggiungere null’altro, solo certo d’essersi lasciato alle spalle quel sorriso e quegli occhi che, silenziosi ma presenti, lo seguivano da lontano.  
 

* * *

 
La penna, anche se a fatica, scriveva. Combattuto fra la fretta di allontanarsi dal luogo del furto e il dolore alle dita, Gokudera non si era accorto che l’inchiostro blu rimasto era poco. Aveva realizzato quel deficit la sera dopo cena, pronto a rimettere la biro nel cassetto non appena l’acqua della doccia avesse smesso di scorrere. Takeshi era svelto, col bagno; tempo dieci minuti e la cabina sarebbe stata sua. L’importante, aveva pensato rigirandosi la penna fra le dita, era che ci fosse inchiostro a sufficienza per scrivere sette parole.
Così, un’ora più tardi, quando nel buio riconobbe il respiro dell’idiota farsi più regolare, indizio di via libera, allungò il braccio al comodino tastando l’aria alla ricerca della lampada. L’improvviso bagliore lo costrinse ad affilare gli occhi e ad accartocciare il volto in un’espressione infastidita. Poi si gettò un’occhiata alle spalle, inquadrando quel che riusciva a scorgere di Yamamoto: se ne stava girato sul fianco, immerso in un sonno certo troppo profondo per poter essere disturbato da quella poca luce. Sul suo volto e sulla linea del collo non correvano più i brividi della febbre. Semplicemente dormiva, le labbra appena schiuse e le palpebre rilassate.
Sì, avrebbe volentieri trascorso la notte in bianco solo per vederlo dormire, ma no, non ne aveva il tempo. L’indomani doveva essere nel pieno delle forze per guidare, destinazione Namimori, destinazione la vita di sempre. E magari, pensava, magari il bacio se ne sarebbe rimasto lì tra quelle quattro pareti, incatenato da una volontà che aveva nome Autodistruzione.
Aprì il cassetto senza far rumore e ne trasse la penna. Pescò invece la busta da sotto il cuscino, per poi adagiarla sul comodino, ben esposta alla luce della lampada. La lingua che passa rapida sulle labbra, i denti che pizzicano nervosi l’interno della guancia, le sopracciglia chiare che si abbassano in un gesto di concentrazione, ansia, forse paura.
Poi, svelto come per strapparsi un cerotto da una ferita, scrisse.
 

* * *
 

La prima cosa che Yamamoto Takeshi vide il mattino seguente fu il letto di fronte al suo. Vuoto. Gokudera si era già alzato. C’era la luce del sole a disegnare strisce d’oro sulle lenzuola e sulle coperte disfatte.
I suoi occhi castani, ancora intorpiditi dal sonno, scivolarono al comodino sino ad incrociare il display della sveglia. I numeri in verde lo informavano che erano le otto e mezza del mattino. C’era il tempo per fare colazione, rimettere nei borsoni quelle due o tre magliette che aveva indossato e infilarsi nel traffico per tornare a casa.
Dal suo vecchio. Senza aver trovato sua madre.
Non pensarci, Takeshi. Non pensarci.
Si passò la mano sul volto e si mise a sedere, stropicciandosi gli occhi con le dita. Non ci sarebbe stata alcuna difficoltà a fingere che in fondo stava ancora bene. Vero, non aveva trovato quel che cercava, ma stava bene così. Avrebbe imparato a star meglio una volta lontano dall’illusione di conoscere colei a cui doveva la vita. Avrebbe continuato a nascondersi dietro ai sorrisi, come sempre aveva fatto, esibendo quella gioia di vivere che tutti gli invidiavano ma che nessuno riusciva veramente a giustificare.
Avrebbe continuato a fingere, sì, se solo non si fosse accorto che a terra c’era una busta. Bianca. Era scivolata dalle coperte quando lui si era alzato a sedere. Rimase un momento a guardarla dall’alto, chiedendosi come mai fosse finita sopra di lui mentre dormiva. Solo dopo qualche istante si chinò e la raccolse, alzandola di fronte a sé di modo da illuminarla con la luce del giorno. Sembrava contenere qualcosa. La voltò. C’erano alcune parole, scritte sul retro. La grafia, così incurante e sbrigativa, era quella di Gokudera.
 
Aprila
Poi fa’ quel che vuoi fare
 
Così la aprì.
Così vide la foto.
Così capì.
E così decise cosa voleva fare.
 

* * *




....Ed eccoci a chiacchierare. Come quasi un anno fa.
Spero d'essere riuscita a farmi perdonare, con questo capitolo, per la mia lunga assenza. Impegni, mancanza di ispirazione. Avevo in ballo questo capitolo da mesi e solo oggi, dopo tre febbrili ore, ho concluso gli ultimi tre paragrafi. Ispirazione divina, credo xD
In ogni caso... questo è il penultimo capitolo della storia. Nel prossimo weekend pubblicherò l'ultimo, sicuramente molto più breve degli altri, tanto che volevo inserirlo qui di seguito ma ho evitato per non rischiare di stringere troppo.
Olè, ora partano le scommesse. Come reagirà Takeshi alla foto che Gokudera gli ha tenuto nascosta fino ad ora? E soprattutto, come andrà a finire la loro, di questione? Non illudetevi di influenzarmi con i vostri pareri, dato che ho già in mente come andrà a finire, quindi sbizzarritevi xD
Come sempre, giudizi positivi o critici sono ben accetti. E come sempre, scusatemi per eventuali errori di battitura. Nel caso ne trovaste, informatemi, provvederò alla correzione °°
Picchiatemi (?) pure per la mia assenza, non mi difenderò LOL.
Alla prossima!,

_Dew






   
 
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