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Autore: ilGhiro    23/09/2012    2 recensioni
"Poi, una volta la guardai addormentarsi sul sedile dell’autobus, ammirai i suoi occhi scuri chiudersi dolcemente, come un sipario che cala in silenzio, sotto la frangia bionda, e mi innamorai di lei."
Volevo scrivere qualcosa che potesse ridare speranza a chi pensa di averla persa.
Spero di esserci riuscita.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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La prima volta che la vidi, era paffuta e sorridente, con le guance rosse e un’espressione serena in volto: mi sembrò una dea bambina che osservava gli altri passeggeri sull’autobus con un’aria di placida compiacenza, curiosa appena.
La osservai ridere con le amiche, soffermandomi sulle sue labbra rosse che si alzavano timidamente quando una persona anziana entrava nell’autobus, e lei le lasciava il posto; imparai a conoscere la sequenza infinita delle sue magliette rosse e gialle, e il ciondolo a forma di sole che spiccava sul collo pallido, descrivendone la dolcezza.
Poi, una volta la guardai addormentarsi sul sedile dell’autobus, ammirai i suoi occhi scuri chiudersi dolcemente, come un sipario che cala in silenzio, sotto la frangia bionda, e mi innamorai di lei.
Era ancora settembre e lei era ancora felice, gioiosa come la bella stagione: i suoi sentimenti erano coraggiosi e limpidi, e mi contagiarono nel profondo.
 
Ma il bel tempo non durò a lungo.
Passando nei viali alberati, dalle finestre dell’autobus ci aggredì la melodia delle foglie cadute che frusciavano a terra, e le nuvole in cielo si incupirono come i suoi occhi, impedendo al sole di accarezzarci ancora.
Aveva preso l’abitudine di avvolgersi una sciarpa scura intorno a collo, coprendo il mento morbido e le sue labbra sorridenti: il ciondolo era scomparso al di là di quel nascondiglio, insieme al suo sorriso solare.
Stava dimagrendo, e le sue mani erano diventate febbrili, mentre stringeva il cellulare o un libro di scuola e guardava fuori dal finestrino; ciononostante era ancora bellissima, lontana anni luce dalla tristezza dei mortali, racchiusa in un mondo suo che profumava di fiori freschi e sole.
Quando arrivò l’inverno, e scesero le prime nevi, gli zigomi ossuti sembravano in procinto di bucarle la pelle. La malattia l’aveva invasa con un’avidità straziante, affamata, innamorata di lei al punto di volerla ammazzare: avrei voluto parlarle, farle coraggio, ma ogni volta la osservavo salire e scendere in silenzio, senza avere il coraggio di provare a salvarla dall’abisso.
Una volta entrò nell’autobus completamente fradicia, per colpa di un improvviso acquazzone.
La pioggia, sul suo viso, adesso era un pianto solenne.
Mi passò vicino per timbrare il biglietto e ci scontrammo; era gelida, il morbo di cui non volevo pronunciare il nome le aveva portato via il fuoco che fino a quel momento mi aveva riscaldato anche quando non ero più accanto a lei, su quei vecchi sedili sporchi.
Eppure ancora i suoi occhi erano la solida corteccia scura di una quercia, anche l’ultimo giorno che la vidi: non si sarebbe arresa alla sua malattia così facilmente.
Trascorsero le vacanze di Natale, e trascorse il freddo, gelandomi nell’angoscia della sua battaglia, che avveniva a chissà quale distanza da me, in mezzo al pallore della neve.
Mi erano arrivate delle voci indistinte, che parlavano del suo ricovero: e un giorno, perso tra i miei pensieri, mi recai all’ospedale del quartiere ed entrai, dicendo che volevo vederla.
Mi avevano lasciato passare, e avevo attraversato il corridoio che portava alla sua stanza come un cieco al buio, fidandomi solo del mio istinto concentrato nello sforzo di ritrovare il suo calore e la sua forza, anche da lontano. Da qualche parte sentii un lamento, e mi strinsi il cappotto addosso. In una mano avevo un fiore di carta gialla: non volevo che niente le appassisse accanto, mentre lei stessa stava lottando per non morire.
Avevo sbirciato dalle tende tirate, scorgendo il suo petto muoversi debole sotto al lenzuolo, il viso tirato nello sforzo di non piangere.
Bussai, e non ebbi nessuna risposta.
Allora aprii la porta e mossi qualche passo: tutto sembrò rallentare infinitamente, come se l’inverno fosse finalmente riuscito a fermare il ciclo della vita, lasciandoci per sempre prigionieri del suo gelo.
I suoi occhi si aprirono sul mio volto addolorato, dandomi il privilegio di spalancarsi per qualche istante prima di tornare a socchiudersi stancamente.
Avrei voluto toccarla, perchè mi sembrava già in un altro mondo, e questa volta non si trattava del suo: l’inverno la ghermiva nei suoi artigli affilati, e sapevo che se in quel momento avessimo pianto, le nostre lacrime avrebbero raggiunto il suolo in forma di ghiaccio, spezzandosi come il mio cuore.
Per un lungo attimo ricambiò il mio sguardo, e alla fine le palpebre scesero a celarle gli occhi, lasciandomi solo.
Posai il fiore di carta sul suo petto, e me ne andai con un nuovo fardello sulla schiena: poiché il suo nome, per me, era sempre stato Sole, e lei lo stava abbandonando insieme alla sua essenza luminosa, affidandolo a me come una confessione intima e segreta.
Chiudendo gli occhi, aveva annunciato di voler lottare in solitudine, e non tornai più nella sua stanza per tutto il tempo in cui non la vidi, chiedendomi persino in sogno se sarebbe guarita.
Ogni mattina leggevo i necrologi, e ascoltavo le voci del quartiere solo quando si parlava di lei, ma mai una buona notizia giunse al mio orecchio.
In quei giorni pallidi, detestai le nuvole plumbee che mi sovrastavano; nessun raggio di Sole avrebbe illuminato sua sorella mentre combatteva il morbo che voleva portarla via.
 
Poi, impercettibilmente, la neve iniziò a sciogliersi.
Dai rami secchi degli alberi caddero le gocce di un ghiaccio appena sciolto, e a terra il fango sembrò voler inghiottire il cemento, restituendo alla strada un disordine antico.
L’inverno si era stancato di noi, e ci avrebbe risparmiato soltanto per noia.
Il sole era tornato sopra il mondo, pregno di un nitore livido che ancora non riusciva a vincere sul freddo: e ancora una volta fu merito della terra sotto ai nostri piedi se i primi germogli iniziarono a spuntare, saccheggiando il fango quasi fosse stato un dono di vitale importanza.
E finalmente un giorno le rondini volarono sui tetti, tornando dal loro lungo viaggio.
Le loro code scure sibilarono nell’aria insieme al richiamo festoso del vento tra i capelli: e il sole tornò, questa volta più luminoso che mai, asciugando il pianto della terra e del cielo come una madre premurosa, ridando vita agli uomini come alle chiome degli alberi, finalmente in fiore.
Attesi il suo ritorno cercando per mesi il suo volto in mezzo a quello degli altri, rabbrividendo ogni volta in cui non riuscivo a scorgerla, temendo che fosse ormai perduta.
E infine scoprii che aveva vinto.
Attraversavo un viale di ciliegi opulenti, guardandomi intorno: durante la notte aveva piovuto, ma quelle gocce erano calde e sarebbero servite a dare vita all’erba che ancora si attardava a nascere, spaccando il cemento con i suoi sorrisi teneri e sottili.
Poi la vidi: stava camminando insieme a una donna più anziana, e brillava: di pioggia, di sole, di lei.
Ignorava i richiami preoccupati di sua madre, e continuava a correre, volteggiando nel rosa pallido dei fiori di ciliegio.
Mi fermai a guardarla, ipnotizzato: poiché per me il vero Sole, ormai, era soltanto lei, e la primavera non sarebbe mai più giunta se non avessi visto nuovamente il suo sorriso, e i suoi occhi ridenti.
Mi vide immobile in mezzo al viale, e rallentò con un pallido rossore sulle guance, finalmente calde di vita, ma ancora smunte.
Aveva una piccola borsa a tracolla, e con le mani, senza smettere di guardarmi, da essa estrasse qualcosa di giallo e sgualcito: il fiore di carta.
Ormai era di fronte a me, e mi guardava ancora sorridendo, con gli occhi luccicanti, colmi di una limpida speranza che era tornata ad abitare il suolo come l’erba, come l’abbraccio placido di una notte primaverile.
Poi premette il sole di carta su mio petto finché non lo fermai con una mano: e con l’altra io le accarezzai il volto, iniziando a sorridere a mia volta.
- Sei davvero guarita? - le chiesi, in un sussurro.
Lei mi ammirò trasognata, guardandomi brillare a mia volta grazie al riflesso della sua luce.
Poi guardò in alto, nel cielo limpido, e rispose:
- Il sole è tornato a splendere.
 
 





   
 
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