God showed me your true colours
Il
volto dell’uomo che aveva di fronte era una maschera di
gravità
dalla voce controllata, quella di chi ha qualcosa da dire ma cerca di
farlo nel
modo più indolore possibile.
“Hai
dormito per un bel po’, Cap. Per quasi
settant’anni”.
Quasi
settant’anni di sonno, e il mondo intorno a lui era
totalmente cambiato. Non erano tanto i grattacieli e le automobili
(molto più
numerose e veloci) a spaventarlo, quanto la violenza dei colori che lo
circondavano: un’esplosione di rosso, blu, bianco, giallo,
arancio, verde, che
lo avevano aggredito, mordendogli gli occhi, confondendolo e facendolo
sentire ancora
più indifeso di quando si era svegliato nella piccola stanza
che qualcuno aveva
crudelmente arredato in stile anni ’50, come a volergli
garantire un angolo in
cui il tempo si era fermato…
Aveva un appuntamento. Ma il tempo, fuori da quella camera e dalla
sua tristezza monocroma, continuava a scorrere, implacabile.
L’aveva rivista poco
dopo, fuori dalla base dove si erano lasciati: la scintilla che le
aveva
illuminato gli occhi era stato il suo benvenuto, il ringraziamento per
essere
tornato a casa. L’aveva abbracciata, si era lasciato
avvolgere dal suo profumo
e da quel momento i colori, tutti i colori, avevano assunto un senso.
Verde,
come il vestito che indossava la sera della loro prima
uscita insieme, in una New York finalmente piena di luci che
rallegravano
l’animo invece di spaventare. L’aveva sempre vista
in divisa, ma doveva
ammettere che anche il verde chiaro le stava benissimo, sulla seta
morbida che
le modellava il corpo, morbida quasi quanto l’onda dei
capelli neri. Quando l’
aveva fatto scivolare oltre le sue spalle, per ricoprirle il collo di
baci, e
sussurrarle all’orecchio quanto fosse bella, aveva constatato
che anche la
pelle era morbida e liscia, quanto e più della seta che era
appena caduta ai
suoi piedi.
Rosso,
il rossetto che gliel’avrebbe fatta distinguere tra
mille, un rosso che sulle altre donne sarebbe sembrato dozzinale, ma
che su di
lei era splendido, come se fosse il colore naturale delle sue labbra.
Rosso che
si sostituiva all’azzurro
di una gonna che aveva indossato solo una volta, alle
lenzuola del letto che avevano comprato per la loro nuova stanza, su
cui si
erano rotolati per gioco la prima volta e dove avevano dormito ogni
notte a
partire da quel momento.
I due colori
sfumavano, la scena si tingeva di un bianco abbagliante: Peggy vestita
da sposa
gli sorrideva dall’altare, luminosa come una stella tra gli
abiti sobri degli
invitati, i gigli che sembravano fare a gara con lo splendore semplice
del
vestito – bianchi anche loro – stretti tra le mani
guantate. Per quanto avesse
potuto pensare e ripensare al modo giusto di avanzare la sua proposta,
le
parole erano venute spontanee, come se, in qualche modo, le avesse
sempre avute
pronte dentro di sé.
Il
gomitolo dei pensieri si dipanava, la mente viaggiava spinta
dal bisogno di raccoglierli.
La
luce del bianco
sfumava in un giallo
dorato, il pomeriggio in cui lei gli aveva detto di
essere incinta, e la luce d’oro aveva contagiato anche gli
occhi, riempiendoli
di una gioia che non le aveva mai visto prima. I mesi erano trascorsi,
i colori
avevano accompagnato le stagioni e le sue paure e preoccupazioni per
quanto lo
attendeva, fino a che, in un altro pomeriggio luminoso, la luce da
dorata era
diventata un tramonto caldo, come un incendio: la copertina rossa nella
quale
l’infermiera aveva avvolto la loro primogenita, un esserino
piccolo come un
cucciolo e altrettanto indifeso. Ancora una volta era stato il sorriso
della
donna che ora era sua moglie a rassicurarlo, attenuando le sue paure
con la
sicurezza di un solo abbraccio. Siamo insieme, sembrava volergli
comunicare. Se
restiamo così, cosa potrebbe farci del male?
Alla piccola Victoria
era seguita un’altra bambina qualche anno dopo, che aveva
portato con sé gioia
e un’ondata di rosa nelle loro esistenze, il rosa
dei vestitini che Steve sceglieva, e che Peggy criticava scherzosamente
per i troppi nastri e fiocchi “assolutamente
frivoli”...
I colori ormai neppure
si distinguevano, nella tavolozza che dipingeva la sua esistenza poco a
poco e
delineava i contorni di quella che, lo sentiva, era la miglior vita che
potesse
desiderare. Nei pomeriggi che gli regalavano la tranquillità
di un riposino
sotto ad un albero, fissava nei suoi occhi il riverbero del sole tra le
foglie,
seguendolo con una carezza tra i capelli di Peggy, appoggiata al suo
fianco. La
luce li fondeva tutti, eppure erano lì, intorno a lui. I
colori del suo album
da disegno, traccia di una vita in cui l’Hydra, Capitan
America, i nazisti e la
guerra erano solo brutti ricordi, in cui il saluto triste e pieno di
frasi non
dette tra un giovane militare e quella che sarebbe potuta diventare la
sua
compagna sembravano solo un’altra scena da film…
…
Arrivato
all’ultimo
capo del filo, tutti quei colori sparivano, come se un solvente
invisibile li
avesse cancellati. Niente rosso, né verde, né
blu, né rosa: il beige desolante
delle quattro mura, dell’assenza di Margaret Carter, era
tutto ciò che poteva
ottenere da quanto lo circondava, nonostante tentasse di convincere la
sua
mente a collaborare e a riportargli indietro almeno uno dei colori che
aveva
sottratto. E quando non ce la faceva più a sopportare la
finzione
spazio-temporale di quella stanza, ascoltava le sue gambe e usciva in
strada,
per abituarsi suo malgrado alla forza luminosa della città
che lo inglobava.
Oppure si chiudeva in palestra, aspettando che non ci fosse nessuno, e
sfogava
il dolore che lo riempiva fino al collo in pugni ed esercizi che gli
prosciugavano le forze ma che, allo stesso tempo, svuotavano la mente.
Ciò che non uccide, dovrebbe fortificare?
Portava
con sé solo un blocco da disegno stropicciato, una matita
e la gomma da cancellare: erano sufficienti. Immerso nel frastuono di
una New
York che non si fermava mai, provava a fissare su carta qualche
frammento delle
illusioni che affollavano i suoi pensieri, riuscendo solo a ricavare
degli
occhi, un sorriso, la piega di un abito. Bastava così.
Aveva capito che l’unico modo per dare una direzione ai suoi
sentimenti era quello di trascriverli su carta, trasformandoli in
tratti e
schizzi a matita. E disegnare, rendere grafite tratto figura la donna
che
faceva capolino fra i suoi ricordi, era tutto ciò che faceva.
Tra i sorrisi della gente, le loro corse frenetiche, ritagliava il
suo angolo di calma al tavolino di un caffè e disegnava,
senza curarsi del
resto.
La matita scorreva, la mente provava a starle dietro, spesso senza
riuscirci. Agli occhi si accompagnava la forma delicata di due labbra,
che poi
diventavano rosse, unica macchia di colore tra gli schizzi in bianco e
nero.
Gli altri, forse, sarebbero arrivati in seguito.
Angolo dell'autrice
Senza
l'ispirazione di questo video, la mia fanfiction probabilmente non
sarebbe mai nata: http://www.youtube.com/watch?v=6Z4LBZWJjzM
E' un tribute a Steve e Peggy così bello che, guardandolo,
non ho potuto fare a meno di rifletterci su e, di conseguenza, di
scriverci. Perché sono una coppia "mancata" splendida, piena
di angst (<3) e molto ben basata, c su di loro c'è
davvero troppo poco. Ho provato a tradurre in parole le emozioni che il
video ha suscitato in me (rielaborandolo a modo mio col filo conduttore
dei colori), come al solito spero di non essere andata OOC e che questo
mio tribute personale sia almeno piacevole da leggere!
Ovviamente, le loro figlie sono miei OC. Il titolo non ha
un particolare senso, mi è venuto spontaneo tra una
riflessione (soprattutto sul Cap di The Avengers e il suo "esiste un
solo dio, e di sicuro non è vestito in quel modo") e
l'altra, e dato che suonava bene, l'ho scelto.
Diffondiamo la Steggy, il fandom ha bisogno anche di loro
<3
Detto questo... il mio ringraziamento va come al solito a TsunadeShirahime, per i consigli e il paziente betaggio che mi offre sempre, e agli amici che mi sostengono col loro affetto e la volontà di leggere ogni mio piccolo "obbrobrio letterario". E a voi lettori, che se mi lascerete una piccola recensione o critica mi renderete ancor più felice :)
Besos!
Nat