CAPITOLO 25
...SARA’
TUTTO FINITO
Davis attraversò lo strada
tenendo gli occhi ben aperti, gli sembrava di non essere mai stato prima in
quella zona periferica di NY eppure, tra palazzi fatiscenti ed anonimi
chioschetti di hot-dog, si sentiva più a casa che a Times Square.
Passando raso ai muri, il
colletto della giacca di pelle ben tirato su e gli occhiali scuri piantati sul
naso, scorse i numeri ad uno ad uno. Il 1244 era un palazzo come tutti gli
altri, al pianoterra ospitava un negozio di ferramenta e più in là doveva
esserci un ristorante cinese. L’odore di fritto gli arrivava dritto nel naso,
nonostante fosse appena mattina.
Continuava ad essere nervoso
e a stringere la pistola nascosta sotto il giubbotto. Se si fosse trattato
dell’FBI avrebbe notato qualcosa, volanti, agenti in borghese, un tizio in
trench che lo pedinava maldestramente.. Invece niente, calma piatta da tutti i
lati.
Le ipotesi più probabili
erano due: o stavolta si erano fatti furbi ed un cecchino piazzato chissà su
quale tetto lo avrebbe freddato al volo sulla soglia del 1422, o Eden si era
fatta di nuovo prendere dai rimorsi. O magari peggio, si era fatta mettere
strane idee in testa da quel Dair.
Avevano già un conto in
sospeso, ma stavolta lo avrebbe ucciso sul serio.
Cercò di aguzzare la vista
al massimo per scorgere un puntino nero in alto da qualche parte. Decise infine
di entrare in fretta, qualsiasi cosa lo stesse attendendo al di là del grosso
portone di legno inciso. Via il dente, via il dolore.
Di fronte a lui si apriva un
lunga e scura rampa di scale. A
giudicare dalla polvere e dall’odore di muffa, quegli appartamenti dovevano
essere vuoti da tempo. Sentiva già i nervi a fior di pelle, ogni muscolo del
corpo disposto all’attacco e l’istinto di sopravvivenza pronto a scattare.
Affacciò il viso notando una luce qualche pianerottolo più su, tese l’orecchio
alla ricerca di segni di vita e gli parve di cogliere una voce di donna. Decise
di salire un gradino alla volta.
Arrivato al quarto
pianerottolo captò perfettamente la voce di Eden dietro la porta socchiusa. E
quella di Dair. Senza il vaglio del cervello afferrò la pistola e la tirò
fuori, completamente pronto ad usarla.
Ancora qualche passo e poté
aprire la vista sulla stanza. L’immagine di fronte gli ferì gli occhi come se
gli avessero tirato in faccia un vodka-lemon in fiamme. Quel bastardo stava
abbracciando sua moglie, il suo corpo le era spalmato addosso ed una di quelle
mani indegne accarezzava i suoi capelli.
No. Non sarebbe successo di
nuovo.
Allungò le braccia e strinse
forte intorno all’impugnatura fredda. La distanza era così minima che non
avrebbe mai sbagliato. Col pollice fece scattare la sicura e lasciò scivolare
l’indice sul grilletto, pronto a far fuoco.
“Giù le mani da mia moglie!”
Urlò cattivo. Cattivo ed
arrabbiato.
Li vide saltare sul posto e
separarsi immediatamente. Bene, così non avrebbe corso il rischio di prendere anche
lei.
Eden smise di piangere all’istante
e si paralizzò in mezzo alla stanza.
Dair inspirò profondamente
fissando il nemico negli occhi.
Era la fine. Solo uno di
loro sarebbe uscito vincente stavolta e benché Davis tenesse in mano una
pistola, le armi mortali le avrebbe sfoderate lui.
Davis deglutì spostando la
testa da un lato
“Stavolta ti ammazzo sul
serio bastardo.”
Fece per riprendere la mira,
ma Eden gli si parò davanti
“Davis no!”
Quel tono e quell’espressione
lo costrinsero a contrarre il viso in una smorfia di fastidio ed incredulità.
“Togliti di mezzo Eden, è
ora che questa storia finisca.”
“No, fermati!”
“Levati!”
“Metti giù la pistola!”
Incontrò gli occhi di sua
moglie e li scoprì lucidi, arrossati, tremanti. Sollevò un sopracciglio senza
abbassare l’arma
“No Eden, stavolta no…”
Ripassò lo sguardo
sull’altro
“…Stavolta non lascerò che
ti metta in testa strane idee…”
Un passo avanti verso di lui
puntando dritto alla fronte
“Devi smetterla di toccarla
capito?! Lei è mia moglie… MIA, non tua… Tua non lo sarà mai.”
Nonostante il proiettile che
gli puntava contro Dair si mosse appena, nelle sue migliori intenzioni avrebbe
detto non più di due parole, lasciando che Eden parlasse da sola.
“Abbassa quella pistola
Davis! Abbassa quella cavolo di pistola, dobbiamo parlare!”
Urlò lei risvegliandolo
dallo stato di trance criminale. Il cuore era a pezzi, ma guardarlo in quella
maniera, ancora una volta sopraffatto dalla gelosia e dall’istinto omicida, aveva
contratto qualche nervo di troppo anche in lei.
“Parlare?”
Si concesse di abbassare la
mira di una manciata di centimetri
“Non dobbiamo parlare di
niente! Dobbiamo prendere un cazzo di aereo, ecco che dobbiamo fare!”
Allo stesso tempo sembrò
guardarsi intorno per la prima volta
“Dov’è mia figlia?”
Era contento che non fosse
lì a guardarlo, ma la sua essenza era di certo un cattivo segno. Di nuovo tese
l’arma tra gli occhi di Dair
“Dov’è mia figlia??”
L’altro non indietreggiò, ma
per la prima volta lasciò intravedere un certo timore, forse nemmeno troppo
dovuto all’idea di una pallottola nel cervello. Da una parte iniziava a temere
che Eden crollasse, ma dall’altra… Se solo lei avesse mostrato il minimo segno
di cedimento allora bhe.. non avrebbe atteso un secondo in più prima di
fiondarsi addosso a quel maledetto, coprirlo di cazzotti e trascinarlo in
galera, giusto dopo essersi accertato di avergli rotto la mascella e un paio di
costole.
“Non è qui.”
Rispose Eden.
“Dov’è?”
“Al sicuro…Dove non ci sono
pistole.”
Un accenno di sarcasmo,
fuori luogo ma efficace, convinse finalmente Davis ad abbassare l’arma
“Che stai facendo Eden?”
Dal repentino cambio di tono
si capì quanto iniziasse ad essere spaventato. Eden inspirò abbassando gli
occhi che non riusciva più a tenere dritti nei suoi. Non voleva vederlo
crollare un’altra volta.
“Devi ascoltarmi adesso. Te
ne prego.”
Lui si bagnò le labbra
lanciando una rapida occhiata al terzo ospite della stanza, chiedendosi perché
dovesse assistere a qualcosa tra lui e la donna che aveva sposato. Quello gli
dava le spalle e se ne stava a testa bassa, appoggiato al tavolo con i piedi
incrociati.
Con la trachea annodata allo
stomaco ed il respiro corto di un condannato a morte decise che avrebbe
ascoltato.
Lei contrasse i muscoli del
ventre in una specie di spasmo, quasi dovesse improvvisamente vomitare. Prese
fiato lentamente un paio di volte e cercò di sfoderare il più convincente degli
sguardi
“Devi andartene… Senza di
me.”
Lui aggrottò le sopracciglia
“Cosa?” Bisbigliò
“Devi andare via, ma senza
di me.”
Davis si morse il labbro
cercando di far quadrare quelle poche parole.
“Che succede Eden?”
Lei guardò il pavimento
cercando di ignorare l’insopportabile tremolio nella voce di Davis. Strinse i
pugni per farsi forza.
“Non posso venire con te.
Non posso scappare ancora.”
Lui scosse nervosamente la
testa
“Non stiamo scappando, noi
andre…”
“Scapperemmo Davis.. Lontano
dove nessuno ci conosce, sempre nascosti, sempre in allerta… Non posso più
farlo.”
“Ma che dici?” Bisbigliò
ancora, contraendo i muscoli delle braccia fino a farli tremare
“E’ stato lui vero? E’ lui
che ti ha messo in testa tutte queste stronzate…”
Dair sollevò gli occhi
“…E’ lui, è sempre stato
lui.”
Riportando la voce al volume
della rabbia raggiunse Dair in tre passi e lo afferrò per il collo della giacca
“Vedi di sparire subito se
non vuoi che ti ammazzi.”
Lo minacciò, ma Dair
raccolse la provocazione
“Non vado da nessuna parte
io.”
Davis allentò la presa
trovando il tempo per un sorriso quasi isterico, scosse di nuovo la testa a
caricò un colpo micidiale in un solo secondo, fiondando il pugno chiuso dritto
sullo zigomo di Dair.
Il tenente barcollò
vistosamente portandosi la mano al viso. Tentò di muovere la mascella per
controllare che non fosse saltata in una decina di pezzi. Mentre fissava il
pavimento cercando di ignorare il dolore, arrivò alla rapida conclusione che
non si sarebbe lasciato sfuggire l’occasione. Riprendendo forza dopo un lamento,
rispose al pugno con un gancio altrettanto deciso.
Davis Miller era certo più
abituato ai cazzotti e riuscì a contenere il dolore senza barcollare di un
centimetro. La benzina sul fuoco che spinse Dair a colpire ancora.
Non poteva sopportare che la
vita avesse benedetto un tale bastardo con una donna come Eden.
Non riusciva ad accettare
che fosse toccata a Davis e non a lui.
Eden corse nel mezzo
cercando di separarli, tirando a destra e a sinistra con tutta la forza che
aveva.
“Fermatevi! Fermatevi!”
Alla fine urlò abbastanza
forte che la rissa si interruppe. Dair si avvicinò alla finestra mentre Davis
si mosse di appena due passi per restare a portata dei suoi occhi.
“Non vedi Davis? Non lo
vedi?!”
Prese a gesticolare
“E’ sempre così! Scappare,
nascondersi, fare a botte, uccidere qualcuno… Non è questo che voglio!”
Lui si pulì il viso col
palmo della mano
“Invece è lui che vuoi? E’
questo che stai cercando di dire?”
Eden sbatté i piedi a terra e
si mosse per colpirlo al petto
“Smetti di pensare a Dair,
lui non c’entra niente!!”
A quelle parole
l’interessato decise di intervenire
“Vi lascio soli, forse è
meglio.”
Concluse con quello che
sembrò uno sbuffo di nervi malcelato. Non appena ebbe lasciato la stanza
l’atmosfera sembrò cambiare di colpo, Davis le prese il viso tra le mani e la
guardò dritta negli occhi
“Non ascoltarlo ti prego.
Dobbiamo andarcene da qui. Ti prometto che andrà tutto bene.”
Gli angoli della bocca di
Eden si piegarono verso il basso mentre provava a contenere nuove lacrime.
Avrebbe voluto crederci, avrebbe tanto voluto crederci perché sicuramente lui
stava dicendo la verità, ma non poteva mollare. Avrebbe perso non solo suo
marito, ma anche sua figlia se avesse mollato le redini al suo cuore.
“Ti prego Davis…”
Riprese poggiando le mani
sulle sue e liberandosi piano
“…Devi ascoltarmi, io non
posso farlo.”
“Ma che significa? Vuoi dire
che per tutto questo tempo hai mentito? Che sei sempre stata d’accordo con
loro?”
Eden scosse il capo
“No. Non ti ho mentito.
Andarmene con te è quello che vorrei fare con tutto il cuore, ma non posso.
Perdonami ti prego.”
Eccole. Altre lacrime.
“Perdonarti? Io non ti
capisco Eden, credevo che mi amassi ancora.”
“Non c’entra niente l’amore
Davis. E’ quello che devo fare.”
Ancora una volta sottolineò
il verbo servile. Non era una passeggiata per lei, era una lenta tortura che
avrebbe finito per ucciderla, ma si sarebbe sacrificata per le due persone più
importanti.
“Devi andartene. Adesso.”
Lui insistette
“No, no.. Non me ne andrò
senza di voi.”
“Devi farlo.”
“No, non lo farò…”
Ogni sicurezza iniziava a
vacillare
“…Non lo farò Eden. Noi
siamo una famiglia e abbiamo fatto tutto quanto per poter stare insieme, non ho
intenzione di rinunciarci.”
Lei trattenne a malapena un
singhiozzo, era difficile, ma non voleva piangere. Davis doveva convincersi che
faceva sul serio o davvero non sarebbe mai andato via.
“Noi non siamo una famiglia,
non lo siamo mai stati.”
“Ma che dici, siamo sposati,
abbiamo una figlia..”
Lei chiuse i pugni tanto
forte da conficcarsi le unghie nella carne
“Non siamo più sposati. Sono
passati quasi sei anni da quando lo eravamo e Sophia… Lei non ti conosce
nemmeno.”
Riuscì a sentire netto il
cuore di Davis che mancava un paio di battiti.
“Cosa stai cercando di fare
Eden?”
Inutile, per quanto ferito
non riusciva a convincersi.
Lei ingoiò le lacrime e di
nuovo fece appello a tutta la forza di madre che aveva
“Voglio che tu te ne vada.”
“No, non è questo che vuoi.”
“Va’ via Davis, ti prego.”
“No.”
“Va’ via.”
“No. No. No.”
Insistette tornando a
toccarla, provando a stringerla e, se fosse servito, a scuoterla fintanto da
farla rinsavire. Lei tentò di uscirne prima che potesse baciarla, ma non ci
riuscì.
La bocca di Davis le tolse
ogni facoltà di parola, calandola in un vortice improvviso di ricordi ed
emozioni. Rivide la scuola, la Dwight High, Callie Robertson della classe di
educazione fisica… Quel giorno era così stufa delle sue prestazioni
pallavolistiche che aveva sentito l’immenso bisogno di uscire a fumare.. Davis
Miller, il misterioso ragazzo che tutte volevano.. I suoi cerchi col fumo.. Il
sangue della sua verginità sulle sue lenzuola.. Il disco di Springsteen rubato
per il compleanno.. I litigi con la madre.. Un diamante al suo anulare
sinistro.. Un vestito bianco da scegliere.. Fare l’amore nel retro di un
pick-up.. Quel paio di Manolo Blahnik che desiderava da una vita comprate con i
suoi soldi.. La musica in chiesa.. La sua voce.. La sua voce meravigliosa..
Si abbandonò al bacio
valutando l’idea di restare per sempre in quel momento, senza alcun bisogno di
scegliere.
La puzza di fumo al Café Des
Artistes.. I tarocchi di Grace.. Il piano da rivedere.. Birra analcolica per
festeggiare.. La nausea mattutina.. La nausea pomeridiana.. Suo marito che le
teneva i capelli..
Il test di gravidanza che
aveva cambiato tutte le sue prospettive.. Le dita incrociate perché andasse
tutto bene.. La pistola puntata verso di loro.. La sensazione che tutto sarebbe
finito.. Il freddo.. La paura.. Il buio..
Si staccò dal bacio cercando
respiro.
“Ti prego va’ via adesso.”
“Perché dovrei? Tu mi ami,
io lo so.”
Eden chiuse gli occhi. E’
vero, lo amava... Da morire. Così tanto che proprio in quella stanza avrebbe
rinunciato a lui.
Inspirò
“Ascolta per favore perché
non te lo dirò ancora…”
Prese a piangere senza
nemmeno rendersene conto, il viso era serio, ma calde gocce scendevano di loro
volontà
“…Non verrò con te. Né io né
Sophia verremo con te…”
Lo vide tentennare
“Non possiamo più andare
avanti così… Io non voglio più andare avanti così.”
Le sue labbra si schiusero
in una smorfia incomprensibile mentre Eden concludeva quel breve monologo.
Raccolse le lacrime con la punta della lingua e racimolò le forze per guardarlo
negli occhi
“E’ finita Davis. Devi
andartene.”
Si stupì di essere riuscita
a dirlo davvero, come se per un attimo le sue corde vocali avessero vissuto di
vita propria, senza tener conto del suo cuore a pezzi e della sua mente
affollata.
Lui sollevò le sopracciglia
visibilmente colpito
“Non ti credo.”
“Devi credermi…”
Ribatté avvicinandosi al
tavolo e porgendogli con mano tremante la cartellina verde che attendeva lì da
un po’. Davis la afferrò con cautela e si passò la lingua sulle labbra prima di
sfogliare la sottile copertina semitrasparente.
ISTANZA
DI ANNULLAMENTO
Sbarrò gli occhi senza
leggere una parola in più. Sbatté la cartella sul legno
“Non esiste!”
Il tono ripiombato nella
durezza e gli occhi di colpo scuri come la pece
“Non mi farai questo.”
Eden indietreggiò cercando
respiro
“Devi farlo.”
“No Eden. Non mi farai questo.”
Ribadì di nuovo vicino,
stavolta incombente. Le strinse le spalle in una presa ferrea a la guardò
dritta negli occhi. Avrebbe tanto voluto trovarci qualcosa in più di quella
confusione terribile.
“Vuoi davvero che firmi
quelle carte?”
Le sue dita tremavano,
fremevano, mosse da qualcosa che prima non aveva mai sentito.
Avrebbe dovuto andarsene?
Mettere il suo nome su quel documento e sparire come se il loro matrimonio non
fosse mai stato celebrato? Come se non si fossero mai incontrati?
Come se non avesse mai
scoperto di essere padre?
Aveva già perso Eden, ma con
la magra consolazione della morte ed il grande supporto dell’alcool, aveva
facilmente trovato rifugio nella colpa e nella certezza che le cose non
sarebbero mai potute andare diversamente.
Poi l’aveva ritrovata ed
aveva concesso al suo cuore di aprirsi di nuovo, per la seconda volta nella
vita, sempre con lei… Non l’avrebbe mai ammesso, ma si era convinto che il
destino l’avesse premiato con una seconda possibilità, nonostante tutte le
brutte cose che aveva fatto.
Davis Miller si era lasciato
tentare dal pensiero della normalità. Un’aberrazione vera propria. Arrosto e
patate per cena, un paio di marmocchi dai capelli scuri attaccati alle sue
gambe e una moglie da abbracciare la sera.
Si sentì un completo idiota.
Forse la Eden che aveva
ritrovato non era più la sua Eden..
Forse quei mesi erano stati una mera illusione…
Ci pensò ancora ed ancora,
scorrendo le immagini alla velocità della luce.. Ogni attimo dal momento in cui
l’aveva rivista, voltando lentamente la sedia di uno studio negli Hamptons.. I
capelli più scuri, i boccoli più morbidi, la pelle più chiara ed un’insopportabile,
incolmabile distanza tra loro.. Ne aveva riassaporato ogni più minuscolo tratto
senza trovare la forza di toccarla, come se di fronte avesse avuto un’estranea.
Ritrovarla gli aveva fatto
più male che perderla.
Sentì in gola il sapore
bruciante ed aromatico dello scotch che aveva sorseggiato durante quelle notti
insonni, perso nel tentativo di comprendere perché soffrisse tanto.. perché
dentro di lui serpeggiasse il pensiero più meschino.. l’idea che forse sarebbe
stato meglio continuando a saperla morta.
Eppure l’aveva rincorsa,
giorno dopo giorno, cercando di ritrovare in lei quello che aveva lasciato,
provando tutto il tempo a riconquistare una fiducia sua di diritto, punito per
un crimine che non aveva commesso, tenuto all’oscuro della verità più
importante.
Se Eden lo avesse davvero
amato ancora non avrebbe fatto tanta fatica, sarebbe corsa da lui
raccontandogli di sua figlia e chiedendo che le portasse via il più lontano
possibile.
Nessuna scusa avrebbe
retto.. Né l’FBI.. Né Dair.
Se quella fosse stata ancora
la sua Eden sarebbe tornata da lui, come aveva sempre fatto dopo ogni lite o
incomprensione.
La donna che aveva di fronte
invece continuava a sfuggirgli tra le dita, con gli stessi occhi profondi e lo
stesso sapore, ma con una luce diversa negli occhi, un caos che lui non
riusciva più a decifrare.. non come una volta, quando gli era bastato
osservarla col naso ficcato tra le pagine della Brontë per essere certo che proprio
lei sarebbe stata la sua Catherine, il suo amore anche oltre la morte.
Inspirò un’ultima boccata di
incertezza
“Vuoi davvero che stavolta sia
io a sparire ragazza invisibile?”
Eden rimase a fissarlo senza
dire una parola, consapevole di dover far tesoro dei brandelli di dolcezza che
lui le stava regalando.
Lasciò scivolare piano la
testa da un lato, provando a guardarlo da un’altra prospettiva, cercando
qualcosa di lui che non avrebbe rimpianto… Cercando un solo attimo del loro
passato che avrebbe potuto facilmente dimenticare…
Tutto quello che poteva ancora fare era
respirare, continuare a respirare.
“Ti amerò per sempre...”
Rispose infine
“…Amerò per sempre ogni
secondo di ogni giorno che abbiamo passato insieme… E penserò a te ogni singola
volta che vedrò nostra figlia sorridere…”
Indietreggiò di un passo
“...Devo a te ciò che di più
bello ho avuto nella mia vita… Non passerà giorno senza che pensi a te, ma non
posso vivere con te Davis… Potrò vivere solo sapendoti lontano, libero e al
sicuro.”
Davis sorrise, dopo averla
riconosciuta per un attimo, piccola e nascosta dietro l’oscurità del rimmel
colato… La maniera più candida ed incerta con cui cercava sempre di fare la
cosa giusta… Di convincerlo a smettere con le rapine alle stazioni di servizio…
Di spingerlo a mettere da parte il rancore per la sua famiglia… Di finirla con
quella vita dopo l’ultimo grande colpo…
Sorrise a metà come piaceva
a lei
“Parli come se fossi
convinta che me ne andrò davvero senza di te.”
Eden sbuffò fuori il respiro,
di colpo in preda allo sconforto.. Indietreggiò ancora fino alla finestra.. Si
affacciò tenendo gli occhi chiusi e finalmente poté sentirli arrivare.
Appena udibile il suono
acuto e tagliente delle sirene della polizia.
Davis ci mise un po’ a
capire, si guardò intorno e di colpo parve irrigidirsi
“Maledetto.”
La cantilena pungente delle
voltanti iniziò a farsi vicina.
Dair piombò nella stanza
visibilmente spaesato, ma Davis gli fu addosso prima ancora che potesse parlare
“Sei stato tu vero?! Sei
solo un bastardo!”
Prese a strattonarlo, mentre
Eden se ne stava ancora col viso rivolto al grigiume della via semideserta
“Sono stata io a chiamarli.”
Davis mollò lentamente la
presa ed entrambi si voltarono verso di lei, Eden rimase di spalle
“Sapevo che non te ne
saresti mai andato altrimenti.”
Lui aggrottò le
sopracciglia, quella era una svolta del tutto inattesa.. Una mossa del tutto
inaspettata da parte della sua Eden.
“Se non te ne vai subito
avrai il carcere a vita.”
“E..Eden…”
Balbettò lui, schiacciato
tra l’ansia e la delusione.
Finalmente sua moglie si
voltò, gli occhi pieni di lacrime in contrasto con l’espressione seria
“Va’ via.”
Il loro ultimo breve
incontro di occhi sembrò durare un’eternità.. Davis non aveva scelta.. Se fosse
rimasto in quella stanza non avrebbe mai più passato un’ora da uomo libero.. Non
sarebbe più passato a far visita alla tomba di sua madre.. Non avrebbe più
rivisto le persone che amava.. Sua sorella.. André… Sua figlia.. Voleva
rivedere sua figlia.
Strinse i pugni contraendo
la mandibola, staccò gli occhi da Eden senza più indugiare e si precipitò al
tavolo afferrando la penna con stizza.
Un’ultima volta le rivolse
gli occhi poi spinse la punta sui fogli lasciandovi sopra un segno indelebile.
Quest’ultima volta decise di
non voltarsi, troppo spaventato dal trovare un’anche minima espressione di
sollievo sul viso di Eden.
Prese fiato, strinse la
pistola nella mano e fuggì via al suono incombente delle sirene ormai vicine.
Eden scoppiò a piangere all’istante,
mollando il peso delle gambe e cadendo in ginocchio sul pavimento polveroso. I
singhiozzi si alternavano senza che potesse prender fiato tra l’uno e l’altro,
le mani le formicolavano e la testa iniziò a girare.
Dair si precipitò da lei
prendendole il viso tra le mani
“Respira!”
Le ordinò
“Respira Eden, respira.”
Il suo pianto divenne meno
affannoso, ma più intenso.. Grosse lacrime cadevano a pioggia ed i suoi lamenti
riempirono la stanza
“Starai bene..”
Aggiunse lui accarezzandole
le spalle
“Starai bene, te lo
prometto.”
Stringendola delicatamente
attese l’arrivo dei poliziotti in cima alle scale, vedendo la stanza riempirsi
lentamente di tute blu, giubbotti antiproiettile e mitragliatrici
“Dov’è Miller signore?”
Dair scosse la testa
“Andate via.”
“Ma signore, siamo stati
chiamati perché Davis Miller era nell’edificio e…”
“ANDATE VIA HO DETTO!”
Dair li scacciò fino all’ultimo
attendendo che sparissero dalla sua visuale, poi tornò a fissare il corpo
tremante di Eden accovacciato nell’angolo.
Era quello che voleva, ma
non poteva esserne felice.. Non se la donna che amava se ne stava in un cantone,
priva di forze e di lacrime che non avesse già pianto per un altro uomo.
Sospirò avvicinandosi al
tavolo, la cartellina se ne stava abbandonata lì sopra, maltrattata dall’ultimo
gesto di rabbia di Davis. Allungò le dita per portarsela vicino e prese a
sfogliarla in silenzio, cercando la firma che avrebbe reso ufficialmente fine a
quell’avventura.
Scosse la testa incredulo e
stupito, sbuffò e rivolse gli occhi al cielo
“Bastardo.”
Sulla carta campeggiava una
scritta calcata a forza, ma quello scarabocchio lasciato di fretta non era il
nome di Davis Miller, bensì un messaggio per lui, un chiaro e diretto monito
per il “soddisfatto” tenente Daniel Dair
LEI E’ MIA
Così dicevano quelle tre
piccole enormi parole,
“lei è mia”.
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Al suono delle chitarre
spagnole Blake continuava a sventolare freneticamente una brochure che aveva
trovato sul bancone della taverna, improvvisando un ventaglio che scacciasse l’ansia
e la calura. Erano ormai in territorio
neutrale, lontano dalla giurisdizione americana, ma fintanto che non avesse
visto Davis non avrebbe respirato.
Payne ondeggiava col corpo
al ritmo della canzone suonata dal piccolo gruppo di miriachi, cercando di
dimenticare le incertezze che si erano lasciati dietro. Aveva fiducia in Eden e
sapeva che qualunque decisione presa sarebbe stata la migliore per tutti, soprattutto
per la bambina.
Si scoprì a fissare Tyler,
lui rispose allo sguardo e Payne si chiese come potesse essere avere un figlio,
soprattutto con l’uomo che si ama e con cui si vorrebbe passare la vita.
Tyler abbandonò il piccolo
volume scritto in spagnolo e la raggiunse nel mezzo di quella pista
improvvisata, proprio al centro del piccolo locale scuro, colmo di facce
sconosciute ed odore di tequila.
Sorrise trovandola immobile,
spostando i lunghi capelli biondi dal lato del suo viso.
Lei sospirò e prese timidamente
la mano di Tyler nella sua.
Lui le si avvicinò ancora,
poggiando quella stessa mano sul suo fianco, cingendole la vita e portando la
bocca accanto al suo orecchio.
Payne chiuse gli occhi
riprendendo a muoversi lentamente, erano in un nuovo mondo ed in quel nuovo
mondo il passato non aveva più alcuna importanza.
Sentì il respiro di Tyler
sfiorarle la pelle e gli si strinse ancor più addosso. Lui la sfiorò con le
labbra e si fece spazio tra i capelli di miele e vaniglia perché lei sentisse
bene
“Te amo... Nunca dejé de
amarte.”
Sussurrò e la vide subito
dopo esplodere nel più sincero dei sorrisi.
Poco più là André buttava
giù l’ennesimo bicchierino di tequila seguendo con gli occhi il movimento
veloce delle carte tra le dita del messicano.
“¿Dónde está la reina de
corazones ahora?”
Sbuffò indicando
distrattamente la carta nel mezzo, l’altro scoprì la regina per l’ennesima
volta
“El señor vuelve a ganar!”
Voci di ammirazione e
sospetto si sollevarono di nuovo, André non capiva che quattro parole di
spagnolo, ma quel gioco era uguale dovunque ed il suo QI era sempre più veloce
di qualsiasi mano muovesse le carte. Questione di probabilità matematiche e
prevedibilità umana.
Accese una sigaretta
iniziando a contemplare tutti i possibili piani per tirar Davis fuori di galera.
Scusatemi!! Ci ho messo
tantissimo lo so… Ma ci vediamo presto per l’epilogo! Qualsiasi feedback sarà
apprezzato! Grazie a tutti!!