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Autore: McHardcore    27/09/2012    2 recensioni
- Dicono che Plutarch e Haymitch abbiano avuto grosse difficoltà a tenerla in vita - commenta Venia sottovoce. - È stata incarcerata dopo la tua fuga e ora questo incarico la fa stare un po’ meglio.
E' davvero difficile da credere. Effie Trinket, una ribelle.
(da Il canto della rivolta, Suzanne Collins)
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Effie Trinket
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Sono stata arrestata e imprigionata nel carcere di massima sicurezza di Capitol City. Fino a due ore fa non ne sapevo nemmeno il motivo. O meglio… Lo immaginavo, ma non credevo che nessuno mi avrebbe mai scoperta. Insomma, Effie Trinket, una ribelle? Suona tanto strano persino alle mie orecchie che ancora non riesco a pensare a un motivo plausibile che abbia spinto il Presidente Snow, o chi per lui, a crederci… In alternativa posso cominciare a prendere in considerazione il fatto che io sia stata incarcerata solo perché ero nello staff di Katniss Everdeen, la ragazza di fuoco. E’ lei che vogliono davvero. E’ lei che sperano di ottenere, incarcerando le persone che le sono state accanto durante tutto questo tempo.
Ho paura. Sapevo quali sarebbero stati i rischi che avrei corso nell’unirmi a questa folle ribellione contro Capitol City, ma non immaginavo che essi fossero davvero reali e non solo semplici parole, anche se terribili. Continuo a camminare lungo il perimetro della cella, dove sono stata rinchiusa - è così piccola che mi bastano cinque passi per completare un lato e passare quindi al successivo -, desiderando che il prurito, che ho lungo il corpo, passi in fretta. Tutta colpa di quest’orribile divisa, questo insulto alla moda… Sono certa che se non dovessi morire per la fame, morirei sicuramente per colpa del pizzicore! Per questo continuo a camminare: tento di non pensare a quest’ultimo. Tento di non rimuginare nemmeno sul fatto che degli sconosciuti mi hanno portato via gli abiti e mi hanno costretta in una divisa da carcerata. E’ tutto così assurdo e incredibile…
All’improvviso sento un rumore meccanico che mi fa sussultare e la porta della cella si apre di colpo, permettendo così a due pacificatori di entrarvi all’interno; stare lì dentro in tre è decisamente invivibile e subito comincio a sentire la mancanza d’aria. Per altro, uno dei due uomini è così grosso che quando mi si avvicina devo alzare assurdamente la testa per poterlo guardare in faccia e dire - non so quante volte io l’abbia già fatto - che sono innocente. Continuo a giocare il ruolo della persona incarcerata per sbaglio con la speranza di ottenere un riscontro positivo, tuttavia credo che non servirà a molto. In risposta, l’altro pacificatore mi fa voltare bruscamente, cosa che per poco non mi fa perdere l’equilibrio, e mi ammanetta come se fossi una terribile criminale. Questo non riesco proprio a sopportarlo, così come il fatto di essere spinta fuori in corridoio e strattonata dai due pacificatori fino alla fine di questo, eppure non oppongo resistenza, anche se continuo a ripetere che potrebbero essere più gentili con una donna innocente. Loro non mi degnano di uno sguardo e nemmeno si sprecano di cambiare atteggiamento, tanto che quando giungiamo a destinazione - ovvero davanti a quella che credo sia la sala degli interrogatori - mi spingono all’interno della stanza e richiudono la porta metallica senza accertarsi che io sia ancora tutta intera. Che modi… Se non altro, almeno mi hanno tolto le manette e ora non ho più i polsi costretti in quel terribile arnese.
Mi guardo attorno, spaventata e stranita, e noto così che la stanza in cui mi trovo al momento è talmente buia che devo strizzare gli occhi per individuare una sedia al centro di essa e quelli che mi sembrano dei grossi tavoli sul lato sinistro. Vorrei sedermi, ma evito di farlo. Non so perché. Forse quello che ho, è un brutto presentimento… Voglio uscire da lì. “Sono innocente!” Esclamo più e più volte, finché le lampade al neon appese al soffitto, non si accendono, ed entrano nella stanza cinque uomini. Allora mi zittisco, per poterli passare in rassegna con lo sguardo. Ce n’è uno in particolare che attira subito la mia attenzione, forse per il colore degli abiti - i suoi sono di un rosso scuro, mentre quelli degli altri sono neri - o per il suo aspetto capitolino - capelli colorati d’argento, trucco pesante sul viso, labbra ingrossate artificialmente e tinte di rosso acceso -. Ad ogni modo questo tipo non mi piace per niente. E’ l’unico dei presenti che abbozza un sorriso in mia direzione, però io non ricambio: sono troppo arrabbiata per il trattamento che ho subito e i suoi modi non mi convincono per niente.
“Mi dispiace per quello che è successo.” Dice, come se mi avesse letto nel pensiero, spostando poi le iridi rosse, in perfetto abbinamento con il rossetto e gli abiti, verso la sedia sulla quale, poco prima, avrei voluto prendere posto. Solo allora mi accorgo dei bizzarri congegni meccanici sulle gambe e sui suoi braccioli. Qualcosa, dentro di me, urla che non è un pezzo di antiquariato o una semplice e buffa sedia, anche perché a pensarci bene non è poi così ridicola. E’ inquietante. Arretro di un passo.
“Non si spaventi signorina Trinket. Se ci dirà quello che vogliamo sapere non ci sarà nulla da temere.” La voce del tizio con i capelli argentati si è fatta piuttosto bassa e con un tocco suadente che dovrebbe indurmi a raccontargli tutto quello che so. Ma io non so niente: è la verità. Haymitch e Plutarch si sono riservati di non dirmi pressoché nulla sul piano di ribellione alla quale avevamo preso parte, quasi sapessero che sarei stata la prima - e forse anche l’unica - a essere catturata e interrogata.
Raccolgo il poco coraggio che mi è rimasto e parlo: “Non saprei cosa dovrei dirle, signor…” Non conosco il nome di quel tipo, poiché non si è preso la briga di presentarsi, e così provo a farlo notare. Non ottengo però il risultato desiderato.
“Il mio nome non importa.” Replica, mentre un sorriso famelico si dipinge sulle sue labbra.
Vorrei dirgli che forse a lui non importa dei nomi, ma a me sì, ciò nonostante rimango zitta e lo osservo accarezzare lo schienale della sedia metallica.
“Suvvia, non si sarà forse offesa perché non le ho detto come mi chiamo. Insomma, anche se glielo dicessi, lei parlerebbe con me?” Lui sa bene che la risposta è ‘no’, infatti, non ci impiega molto tempo per accorgersi che non acconsentirò a dirgli nulla. “Ecco, vede? Ho ragione. Ho ragione su tutto.”
Credo che quel ‘tutto’ non sia solo in riferimento al fatto che non parlerò, ma anche al fatto che io non sia propriamente l’innocente che dico di essere. Rimane ancora qualche istante a guardarmi, infine si rivolge ai suoi compari in nero schioccando le dita. Accade poi tutto in fretta. Due di loro mi prendono per le braccia e mi fanno sedere a forza, mentre gli altri due assicurano le manette e i gambali metallici della sedia ai miei polsi e alle mie caviglie. Mi dibatto a lungo, emettendo stridule grida di aiuto, minacciandoli che si sarebbero pentiti di aver riservato un simile trattamento a una cittadina innocente, ma loro non sembrano accorgersi di nulla: sono impassibili. Quando si sono assicurati che non posso muovermi, si spostano dietro alla sedia svanendo alla mia vista.
“Non potete farmi del male. Sono innocente.” Dico, mentre l’agitazione prende il sopravvento sulla razionalità e sento il cuore galoppare nel mio petto come un cavallo impazzito.
L’uomo dai capelli argentei si avvicina allora alla mia posizione di un paio di passi e, chinatosi in avanti così da potermi guardare negli occhi, dice: “Sappiamo che è una ribelle, signorina Trinket, sappiamo che collaborava strettamente con Haymitch Abernathy e Katniss Everdeen… Perciò la smetta di fingersi innocente. La smetta con questa commedia e ci dica dove si nascondono.”
“Non lo so. Non so niente.” Replico, mentre sento le lacrime pizzicarmi gli occhi e un groppo alla gola che sembra occludermela di colpo. Non voglio piangere. Voglio soltanto tornare a casa. Sono così impegnata a trattenermi dal fare una scenata al pari di una bambina capricciosa, che non mi sono accorta che con quelle mie ultime parole ho indirettamente confermato di essere una ribelle, di stare dalla parte di Katniss. Me ne rendo conto solo quando l’uomo dalla capigliatura argentata sorride ancora e si raddrizza.
“Davvero non ci vuole dire niente? Sicura? Non vorrei dovermi trasformare in una persona che non voglio essere…”
Non sono certa di aver compreso bene quello che ha detto, ma allo stesso tempo credo che non prometta niente di buono. Cos’è che non vuole essere? Sta già dimostrando di prendersela con una donna indifesa. Una donna innocente.
“Sono innocente…” L’ho ripetuto così tante volte che ormai sto cominciando seriamente a crederci anch’io. “Ve la state prendendo con la persona sbagliata…”
Lui non si lascia turbare dal luccichio delle lacrime nei miei occhi o dal mio tono supplichevole, nemmeno dai tremiti che ormai sconvolgono il mio corpo a causa della paura crescente, bensì rimane a guardarmi con il solito ghigno terribile dipinto sulle labbra, senza muoversi di un centimetro da dove si è spostato poco prima.
“Sa cosa penso?” Alza gli occhi verso il soffitto per un attimo, poi torna a guardare me. “Credo che ognuno di noi scriva il proprio destino. E lei, mia cara signorina Trinket, ha appena scritto il suo.”
Ho sempre sentito dire che quando un avvenimento tremendo sconvolge la nostra vita tentiamo di rimuoverlo al meglio dalle nostre menti, lo accantoniamo in una parte remota del nostro essere e lo oscuriamo. Credo di averlo fatto anch’io, perché dopo aver sentito quelle parole uscire dalle labbra rosse dell’uomo dai capelli d’argento ho solo una visione frammentaria di ciò che è successo in seguito.
Sento un altro schiocco di dita. Vedo i quattro uomini in nero tornare nel mio campo visivo. Un altro schiocco e improvvisamente il dolore invade il mio corpo.
“Dove sono i ribelli? Dov’è Katniss Everdeen?”
“Non lo so.”
Ancora dolore. Dolore. E dolore.
“Non ci guadagnerà niente a non parlare.”
Sento le lacrime rigarmi le guancie.
“Non guadagnerà altro che dolore… Parli!”
“Non so niente.” Scuoto poi la testa e altro dolore attraversa il mio corpo, infine il buio mi avvolge.
A quel punto, immaginando che nei giorni a venire mi avrebbero trattato anche peggio, spero che la Morte mi prenda alla svelta. Magari anche subito. E invece poco dopo apro gli occhi e il dolore è di nuovo il mio unico compagno.

   
 
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