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Autore: _Ales    28/09/2012    2 recensioni
Fu in quel momento- né un millisecondo prima, né uno dopo- che avrebbe potuto giurare di aver sentito squarciarsi il velo della pace domenicale, perché sì, la sua domenica era inevitabilmente, inesorabilmente, nonché irrimediabilmente, andata in fumo – fosse pure perché la Primadonna lo aveva deciso (e non si riferiva al Karma o ai numi avversi, perché dubitava che qualcuno potesse essere tanto crudele da rifilare una simile nemesi).
Genere: Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Bill Kaulitz, Tom Kaulitz
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Piccola one shot, nata senza troppe pretese se non quella di divertire i lettori- sempre ammesso che ci saranno.

Ovviamente i Tokio Hotel non mi appartengono, questo mio scritto rappresenta fatti di pura fantasia e non intende riportare la realtà. Lo scopo non è il lucro, ma il divertimento del lettore.

Non avendo altro da dire, buona lettura! :-)
 

 
 

A Iole,
che mi sopporta e supporta continuamente.
Grazie.
 

 
 
Quando la domenica mattina avverti un peso sullo stomaco sai con certezza che non è il magone da rientro scolastico a gravare sulle tue innocenti viscere- fosse pure perché l’ultima volta che hai visto un Gymnasium, ci sei passato di fronte con le chiappette coperte da metri e metri di stoffa- ovviamente di marca- appoggiate sul sedile di una meravigliosa, costosissima macchina nuova di zecca, la tua, - che i tuoi (ex)compagni non potrebbero comprare neanche lavorando per quattro anni di fila- e quel pezzo di carta lo avevi già preso.
Da scartare anche l’ipotesi numero due (ovvero, depressione pre- lavoro): quale amante della musica, nonché affermato chitarrista, rinuncerebbe al suo lavoro?
Ergo, quando la domenica mattina sai che il succitato peso non può dipendere né dalla scuola, né dal lavoro, tanto meno da un’indigestione, arriva il momento di escludere anche l’opzione numero quattro: ovvero, magone da nottata in bianco- fosse pure perché un magone da assenza di scopate, non fa tutto quel rumore, né è così pesante.

Allorché si ritrovò a fare i conti con la realtà i due neuroni scapparono nell’angolo più remoto della nocciolina, mentre gli occhi del povero criceto si dilatarono sempre più, inondati dal terrore.
Fu in quel momento- né un millisecondo prima, né uno dopo- che avrebbe potuto giurare di aver sentito squarciarsi il velo della pace domenicale, perché sì, la sua domenica era inevitabilmente, inesorabilmente, nonché irrimediabilmente, andata in fumo – fosse pure perché la Primadonna lo aveva deciso (e non si riferiva al Karma o ai numi avversi, perché dubitava che qualcuno potesse essere tanto crudele da rifilare una simile nemesi).
Per forza di cose, quindi, la Primadonna- quella con la p maiuscola, che non va mai contraddetta e che si diverte nel profondo a giocare tiri così mancini- non poteva che corrispondere a quella piattola avente i suoi stessi geni.
Evidentemente era il feto eteradelfo.
In quel momento pregò come un lurido vermiciattolo tutti i Santi del Paradiso, invocando il loro potentissimo aiuto contro quella belva mefistofelica. Per contro, la sua abietta metà continuava a dimenarsi come un adorabile cucciolo di ippopotamo che, del tutto ignaro dei conflitti interiori causati al suo clone, ostentava addirittura il coraggio di tirargli i cornrows – e maledetto quel giorno in cui si era deciso a farli!- e non mostrava neppur la minima reticenza a dedicarsi così solertemente a quell’unico, meraviglioso e dolce risveglio.
Ammesso e non concesso che la pazienza fosse la virtù dei forti, era pur vero che uno così non potevi non mandarlo all’inferno- regno del quale, tra l’altro, sarebbe stato il sovrano incontrastato. Non poteva non spedirlo all’inferno soprattutto quando quell’improbo e indegno fratello aveva persino la faccia tosta di propinarsi come vittima delle malefatte di una masnada di nani e folletti che, di punto in bianco, avevano invaso la sua idilliaca dimensione onirica e sgozzato tutti i Gummibären,nei quali doveva aver sguazzato come un pascià fino a qualche secondo prima.
A maggior ragione, quando tentava di inoculargli nella  nocciolina quanto fosse infelice e sfortunato, perseguitato da una divinità ostile alle sue richieste, non poteva non provare quel minimo di rabbia che, ancora in fase embrionale, gli faceva vibrare le viscere, gliele faceva rivoltare.

Lui, l’eroe disgraziato della vicenda, lo sciagurato che aveva perso tutti i suoi averi per un capriccio del fato!
Lui, l’eroe tragico, il re del melodramma!                        
Nessuno avrebbe retto il confronto: persino Enea e Ulisse sarebbero sembrati due sfigati con una storia senza senso, a sentirlo parlare.

«Vaffanculo, Bill!»

E quelle parole, pronunciate con la voce roca, ancora impastata dal sonno, ebbero l’ardire di essere più altisonanti del dovuto e di coprire gli strepiti e le convulsioni.

Tutto tacque.

Per un miserevole e schifosissimo secondo tutto tacque.

Tuttavia, quello sputo di tempo altro non era che il preludio di una rabbia che gli sarebbe stata vomitata addosso, condita da imprecazioni e parolacce.

Era in quei momenti che si chiedeva perché non l’avesse ucciso prima, quella piaga. Nell’utero, magari, così sarebbe pure potuto passare come un aborto; ma poi no, si ricordava che persino in quel cazzo di utero quella piattola l’aveva relegato in uno spazietto microscopico, tanto che, quando era nato, tutti – ginecologo e Simone compresi- si erano stupiti che la sua faccia non fosse schiacciata.
Allorché quel magico, nonché sinistro, silenzio fu interrotto da respiri irregolari che minacciavano di trasformarsi in qualcosa di diverso – probabilmente una crisi di pianto che avrebbe sbaragliato una concorrenza non indifferente di qualificatissime reginette del dramma- già immaginava l’espressione di suo fratello.
Se lo figurava appollaiato sul letto con le spalle curve ad occupare uno spazio insignificante con la stessa aria di un usignolo privato del suo canto, gli occhioni lucidi e il labbro tremulo; mentre ogni cellula del suo notevole metro e ottanta era impegnata nell’(im)possibile tentativo  di trattenere quelle lacrime. Il Nilo, ne era sicuro, avrebbe straripato alla grande, lasciandosi dietro non il fertile humus, ma chiazze umide e nere.

Immerso in pensieri tanto aulici Tom Kaulitz- sciagurato, sfortunato Tom Kaulitz- non si accorse che i suddetti respiri irregolari non si sarebbero trasformati in uno spettacolo degno di una drag queen, ma sarebbero esplosi in un sentimento ben diverso – che, tra l’altro, avrebbe dovuto tenere in considerazione da subito.
Di conseguenza, quando riprese contatti con la realtà e nel suo campo visivo rientrò un incrocio tanto conturbante quanto malriuscito tra un Hulk e un toro imbufalito al posto del pulcino bagnato che lo guardava con gli occhietti acquosi mentre stringeva una copertina, poco mancò che gli venisse un colpo.
Un’espressione terrorizzata prese il posto del sorriso ebete che avrebbe dovuto sfoderare per consolare il suo cucciolo offeso. Il cuore venne sparato con un solo colpo nella trachea e il suo sedere tornò ad avere contatti con il materasso solo dopo aver fluttuato nell’aria per un secondo, o giù di lì.
Dopo questa palese manifestazione di  terrore – l’equivalente dello sbandierare un pezzo di stoffa bianco con le poche forze che gli rimanevano- ebbe, però, l’accortezza di non inveire contro quello che sarebbe potuto passare come un autoritratto - seppur parecchio incazzato-, ma di ingoiare fiumi e fiumi di parole ed epiteti molto poco gentili da rivolgere al suo indirizzo – fosse pure per non rendere la situazione ancora più tesa.
 
“Calmo, Tom. Tu sei assolutamente calmo e non vuoi uccidere Bill.”
 
Cercava di dissuadersi da questi pensieri omicidi, mentre assumeva un piglio serio e si metteva a sedere assumendo una posizione yoga, pronto a fluttuare da un momento all’altro, non per lo spavento ma dalla concentrazione.
 
“Tu sei assolutamente calmo e non vuoi uccidere Bill.”
 
 Più se lo ripeteva, più si accorgeva di quanto urgesse una motivazione valida.
 
“Non vuoi uccidere Bill, perché è tuo fratello.”
 
Motivazione poco convincente. Strizzò appena gli occhi e riprovò.
 
“Non vuoi uccidere Bill, perché è tuo fratello e perché gli vuoi bene.”
 
Mentre la sua mente era finalmente colta da questa folgorante illuminazione, a quell’altro non tremava solo il labbro, ma anche il resto del corpo. Tremava tutto. Da capo a piedi era tutto un fascio di nervi e non era così tenero e adorabile come un pulcino bagnato. Per intenderci, neanche forse all’essere più buono e compassionevole del pianeta sarebbe frullata l’idea di avvicinarsi e coccolarlo – a meno che ad essere frullato avrebbe voluto essere lui e non l’idea.

Tom Kaulitz non sapeva che pesci pigliare, anche perché di pesci lui non ne  aveva mai presi, né andava di prenderli, ora o in un’altra vita.

Mentre il suo cervello si perdeva in tali fisime mentali e il criceto si avvicinava alla rotellina da mettere in funzione- faticosamente, tra l’altro, dato il poco esercizio della palletta di pelo in questione-, l’altro sfiatò come una pentola a pressione in procinto di esplodere, sibilando un «Spero di aver sentito male.» così velenoso che, Tom ne era sicuro, la mela di Biancaneve a confronto sembrava un delizioso bonbon , scevro di ogni qualsivoglia diavoleria nociva.
Con tutto il coraggio che il povero criceto aveva cercato di racimolare, dopo aver fatto girare la rotellina arrugginita, quello che un tempo doveva essere il feto eteradelfo annuì, cercando di risultare convincente – missione pressoché impossibile, dato che doveva convincere prima se stesso.

Dal proprio canto, il re indiscusso dell’inferno rincarò la dose, evidenziando la propria supremazia, sicuro di avere la vittoria in tasca. Guardò la sua metà con uno sguardo che oscillava in maniera impressionante tra il sadico e l’isterico, mentre le sue labbra si piegavano in un ghigno conturbante.
«Quindi ho sentito male?» chiese con tono forzatamente vellutato.
Al chitarrista sfigato non restò che annuire nuovamente, troppo spaventato anche solo per emettere una sillaba. Quell’altro sorrise compiaciuto e decise che fosse arrivato il momento di infliggergli il colpo di grazia.
«Sai, ieri prima di andare a dormire ho pensato ad una cosa…» e qui si fermò per una manciata di secondi, giusto il tempo di dare al suo gemello l’opportunità di assimilare la frase.
 
“Da quando in qua pensa?”
 
Ma il nostro prode chitarrista preferì tenere il fratello all’oscuro di questo pensiero – fosse pure per evitare di peggiorare la situazione che, a quanto poteva (pre)vedere, stava evolvendo e non di certo in meglio.
 
Era certo che la pausa che Bill gli aveva così benignamente concesso non fosse altro che una manna dal cielo, considerando la proposta malvagia che gli avrebbe fatto di lì a poco. L’idea di ringraziarlo mentalmente venne spazzata via non appena capì che quelli sarebbero stati gli ultimi secondi di pace.
I secondi che intercorrevano tra quell’overture di merda e l’opera vera e propria, che già si profilava un vero e proprio successo/ scacco, a seconda delle parti.
S’impegnò con tutte le forze che gli rimanevano ad ostentare un invidiabile faccia da poker,mentre suo fratello non mostrava la benché minima reticenza nell’esibirgli il suo sorrisetto soddisfatto.

Tom Kaulitz guadava Bill.
Bill Kaulitz guardava Tom, in attesa dell’unica domanda che avrebbe accettato e che non sarebbe tardata ad arrivare.

«A cosa pensavi, Bill?» chiese con tono amabile, fingendosi ignaro ed interessato alle intenzioni del fratello.
Gli occhi dell’usignolo assassino sembravano un’insegna luminosa che riportava a caratteri cubitali la scritta «BINGO».
«E’ da tanto che non mi accompagni a fare shopping…»
Bill si concesse il lusso di prendersi un’altra piccola pausa prima di continuare, solo per il gusto di osservare la faccia di culo per le grandi occasioni della sua metà e consapevole che il suo Tomi coraggioso lo avrebbe portato in spalla anche fino all’altro capo del mondo, pur di evitare lo scontro diretto.
«E poi oggi è una giornata meravigliosa, non trovi?» continuò per quella via impervia che lo divertiva almeno quanto spaventava suo fratello.
Per contro, Tom non smetteva di annuire, stupidamente contento.
«Bene! Allora oggi andremo a fare compere!» trillò eccitato mentre batteva le mani soddisfatto.
Il sorriso dell’altro s’increspò, mostrando una crepa di rimostranza. Decise di affondare il coltello nella carne.
«Non sei contento, Tomi?» chiese con fare innocente, gettandogli le braccia al collo e schioccandoli un bacetto sulla guancia.

Tom Kaulitz chiuse gli occhi per la disperazione e con tutta l’eccitazione che era capace di fingere in quel momento pronunciò quello schifosissimo sì, che equivaleva a firmare un patto con il diavolo –con il suo diavolo personale.
Dopo essere arrivato a questa conclusione, esasperando l’abbraccio con Mefistofele –fosse pure per ritardare l’uscita-, sentì la stretta del suddetto diventare sempre più debole,mentre la testa vorticava in meandri a lui sconosciuti e il corpo cadeva a peso morto sul letto.
 
 

*


 
 
Quando riaprì gli occhi, si ritrovò ansante e sudaticcio al centro del suo letto.

Non sapeva che fine avesse fatto il suo cuore, ma a giudicare dal sangue che fluiva attraverso le sue vene, doveva essergli esploso nel petto.
Cercò di ricordare cosa avesse potuto spaventarlo a tal punto e, dopo essersi lambiccato il cervello, capì che la soluzione non era nel cosa, ma nel chi.
Ricordò tutto.
Mentre il lampo del ricordo attraversava il cielo della beata ignoranza , iniziò a guardarsi attorno. Faceva saettare lo sguardo a destra, a sinistra, su, giù, ovunque –perché quel coso poteva anche essere appiccicato al soffitto come Spiderman- e, quando dopo un’accorta perlustrazione si accorse che di Mefistofele non c’era traccia, emise un sospiro di sollievo.

Frattanto un Bill assonnato sgattaiolava dalla sua camera e iniziava a percorrere il corridoio che lo avrebbe portato in camera del fratello goffamente, con l’unico intento di rifilare al suo Tomi un dolce risveglio per quel giorno così speciale.
Dopo aver seriamente rischiato la vita inciampando prima nei suoi stessi piedi e sbattendo subito dopo la testa contro la parete –maledetti muri di mattoni! Avrebbe voluto una casa fatta di orsetti gommosi- arrivò a destinazione un po’ ammaccato e dolorante.
Serrò le dita attorno alla maniglia e l’abbassò, intrufolandosi segretamente – almeno per quel che ne sapeva lui- nella camera del gemello.

Quando Tom Kaulitz vide materializzarsi nel suo angolo di Paradiso il suo incubo peggiore,gli si mozzò il fiato e un urlo disperato gli morì in gola. I suoi occhi vennero catapultati fuori dalle orbite e suo malgrado –nonché sfortunatamente- si accorse di essere ancora vivo, perché il cuore aveva perso un battito.
Per contro, l’ignaro Bill Kaulitz perse tutta la sua euforia nel constatare che non avrebbe avuto l’opportunità di strappare il fratello alle braccia di Morfeo perché il suddetto ci si era strappato da solo, salvo riacquistarla un pugno di secondi dopo, ricordando il grande evento da celebrare.
«Buon compleanno, Tomi!» gli scampanellò in faccia, appiccicandosi letteralmente addosso al fratello.
Sulle prime il prode chitarrista sfigato rimase interdetto e sì, un po’ schiacciato ma quando metabolizzò quelle parole rimpianse di non essersi chiuso a chiave il giorno prima. Aveva dimenticato il loro compleanno, ricorrenza sacrosanta per Bill che riteneva doveroso festeggiare l’avvento della sua provvidenziale nascita. Di conseguenza, una tale dimenticanza era l’equivalente di una condanna a morte.

E Tom Kaulitz sapeva già come avrebbe pagato lo scotto per quella pena e, chissà perché, non gli piaceva affatto.
   
 
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