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Autore: ChiiCat92    02/10/2012    2 recensioni
Ecco qui, la vera fine di Love&Death per chi ha seguito tutta la storia. I protagonisti avevano ancora qualcosa da dire, e spero che adesso siano soddisfatti e contenti.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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28/09/2012

Extra:

Sogno d'una Notte di mezz'estate

 

[…] E allora non è notte se ti guardo in volto,
e perciò non mi par di andar nel buio,
e nel bosco non manco compagnia.
Perché per me tu sei l’intero mondo.
E come posso dire di esser sola se tutto il mondo è qui che mi contempla? [...]

 

[…] Ho avuto una visione straordinaria. Ho fatto un sogno che nessun cervello
 umano riuscirebbe a spiegare. E c'è da far la figura del somaro soltanto
 a provarcisi. Mi pareva d'esser... nessuno può dire che cosa.
 Mi pareva d'essere... e mi pareva d'avere... ma soltanto un pazzo potrebbe
 tentar di dire quel che mi pareva d'avere. Occhio umano non poté mai udire,
 orecchio umano non poté mai vedere, mano umana non poté mai gustare, lingua
 umana mai concepire, e cuore umano mai narrare, un sogno come il mio. [...]

[…] Quale angelo mi sveglia dal mio letto di fiori?
Ti prego, grazioso mortale, canta ancora.
Il mio orecchio si è innamorato delle tue note
come il mio occhio è rapito dal tuo aspetto.
Il potere irresistibile della tua virtù mi spinge
fin dal primo sguardo a dirti, anzi a giurarti che t’amo. […]

 

William Shakespeare

“Sogno d'Una notte di mezz'estate”

 

Mir träumte von einem Königskind,

Mit nassen, blassen Wangen;

Wir saßen unter der grünen Lind,

Und hielten uns liebumfangen.

 

Sognavo una Principessa,

con guance pallide e umide;

eravamo seduti sotto il tiglio verde,

ci tenevamo amorosamente abbracciati,

 

- Ich will nicht deines Vaters Thron,

Und nicht sein Zepter von Golde,

Ich will nicht seine demantene Kron,

Ich will dich selber, du Holde! -

 

- Io non voglio il trono di tuo padre,

non voglio il suo scettro d'oro,

non voglio la sua corona di diamante,

io voglio te stessa, mia cara! -

 

Das kann nicht sein, sprach sie zu mir,

Ich liege ja im Grabe,

Und nur des Nachts komm ich zu dir,

Weil ich so lieb dich habe.

 

Non può essere, disse a me,

Io giaccio nella tomba,

e solo di notte vengo a te,

perché ti amo tanto.

 

Heinrich Heine

Buch der Lieder, Lyrisches Intermezzo, XLI

 

*

 

Mi sveglio, lentamente.

Il freddo mi accappona la pelle. Tremo.

Sbatto piano gli occhi per abituarli al bianco assoluto che mi circonda. Bianco è l'abito che indosso, bianche sono le pareti della stanza dove mi trovo, bianche sono le lenzuola che mi avvolgono.

C'è musica, nell'aria. Una voce accompagnata da corde pizzicate con delicatezza.

Sembra una voce maschile. È morbida, carezzevole, tiepida.

Dove l'ho già sentita prima?

Forse un'eternità fa, in un posto lontano, dove c'erano tanti altri colori, tanti altri suoni.

Ma quella voce ha sempre spiccato sopra tutto, sopra tutti i colori e sopra tutti i suoni.

Adesso che non c'è altro, posso sentirla davvero; posso cogliere ogni sua vibrazione, ogni sua sfumatura, ogni suo accento.

Percorre le mie vene come linfa vitale.

Vorrei sapere di chi è questa meravigliosa voce, quale note sta suonando quell'essere a cui appartiene.

Ma non ho ancora la forza di tenere gli occhi aperti.

All'improvviso tutto ciò che conta è quella voce.

Cosa canta? Sono parole? Cosa sta dicendo? Perché? Canta per me?

Chi sono io?

Cosa sono?

Sono...sono io. Io sono io.

E sono viva.

Sono viva?

Non ho un cuore; se lo avessi, batterebbe. E non si può vivere senza un cuore.

Quindi non sono viva?

Però sento il suo cuore. Lo sento, lo sento sulla pelle; un leggero e veloce battito, profondo, che potrebbe farmi andare in mille pezzi. Lo sento perché non è dentro di me, lo sento come sento la sua voce.

Vorrei poter avere due mani per poter toccare quel cuore, per poterlo tenere stretto e proteggerlo, metterlo nel vuoto che ho nel petto così che io possa tornare a vivere.

Ma io voglio tornare a vivere? E perché?

Che vuol dire vivere?

Vivere vuol dire avere qualcuno per cui farlo.

Io non ho più nessuno.

Non sono più niente.

Niente e nessuno, nessuno e niente.

La voce continua a cantare, la musica continua a suonare.

Devo aprire gli occhi, devo vedere, devo vedere la creatura che sta cantando.

Di fronte a me un soffitto bianco, abbacinante. Solo bianco, sempre bianco.

Dove sono i colori?

La musica si ferma, l'ultimo accordo galleggia ancora nell'aria un secondo prima di esaurirsi.

- Ciao. -

I miei occhi corrono verso quella voce, avidi.

E incrociano i suoi.

Occhi grandi, brillanti, scuri. Occhi che sono due pozzi di luce e tenebre.

Io conosco quegli occhi. Ho amato quegli occhi.

Io li amo ancora.

Sorride, le sue labbra incredibilmente rosse contro il bianco di quella stanza. I suoi capelli una cascata di mogano scuro e spesso, denso come una macchia d'inchiostro.

- Ciao. - la mia voce sembra sgraziata in confronto alla sua così cristallina e prudente nel liberare quelle note meravigliose. Tiene sulle gambe una chitarra, la cassa di legno chiaro brilla come fosse fatta d'oro. - Come...perché...che ci fai qui? -

Lui allarga il sorriso, è meraviglioso e vibrante.

Solleva con delicatezza la chitarra, come a volermela mostrare, come se fosse una risposta più che sufficiente alla mia domanda.

- Hai cantato per me? - annuisce con un leggero movimento della testa - Per tutto il tempo? -

- Per tutto il tempo. -

Sento di potermi muovere, devo muovermi.

Mi guardo. Ho ancora un corpo, è incredibile pensarlo e vederlo, ma c'è, lo sento, posso toccare la mia pelle accapponata per il freddo, posso vedere la punta dei miei capelli castano dorati, il seno e la forma delle gambe sotto il lenzuolo bianco.

Osservo il suo sguardo brillante, il sorriso timido ma intenso, i suoi occhi accesi come fiammelle.

Mi sporgo, voglio toccarlo.

Lui mi viene in contro e io posso accarezzargli il volto. È ispido per la barba, al tocco fa il solletico. Percorro le sue labbra con la punta delle dita, sento il freddo del piercing.

Sembra tutto vero.

Da qualche parte dentro di me sento che non può esserlo. Ma non so perché.

Non m'importa, adesso non mi importa.

Colmo la distanza tra me e lui e lo abbraccio.

Lacrime mi salgono agli occhi e mi mozzano il respiro, senza ragione.

Avvolgo le mie braccia intorno al suo collo e lui mi stringe la vita, mi sorregge, con delicatezza, come fossi un esserino pronto a rompersi.

Respiro il suo profumo, sento la sua pelle calda e il suo cuore, quello ora lo sento più che mai.

Tutum tutum, tutum tutum, tutum tutum.

Chiudo gli occhi, poggio la mano sul suo petto, lo sento palpitare, lo sento vivere.

Lui ha qualcuno per cui vivere.

Mi sento triste. Senza cuore ci si può sentire triste? Però, lo sento. È come una stretta, un'oppressione, il respiro si ferma.

Non sono io la ragione per cui lui vive.

Posso essere così egoista da ignorarlo solo per adesso?

- Ti amo. - mi sento sopraffare dalla tristezza, le lacrime mi scendono dagli occhi senza che nessuno gli abbia dato il permesso - Ti amo, ti amo tanto. Perdonami. -

Lui mi allontana da sé. Lo sapevo, ho osato troppo, ma dovevo almeno provare.

Fruga nelle sue tasche, ne estrae qualcosa di luccicante, l'appoggia sul palmo della mia mano ed io l'osservo.

È un cuore. Un piccolo cuore d'argento, pieno di graffi, con una decorazione floreale sul davanti.

È il mio cuore.

- Questo... -

- E' tuo, ti appartiene. -

Guardo il piccolo cuore, poi i suoi occhi intensi.

- No...no... - la mia voce sembra un urlo di dolore - ...no, è tuo... -

Tom mi mette al collo il ciondolo.

- Credimi, ti appartiene. - mi solleva il viso con due dita, mi osserva, mi studia, cerca qualcosa di cui né io né lui conosciamo l'esistenza, ma continuiamo a cercarla. Si avvicina, candido, e mi poggia un soffice bacio sulle labbra - Adesso svegliati. -

- Svegliarmi? -

All'improvviso ho paura. Mi stringo a lui, il viso mi brucia, le lacrime sono diventate come pezzi di fuoco vivo.

- Fallo per me, svegliati. -

- Sono sveglia, sono sveglia. -

Ripeto, piangendo, stringendomi a lui che si fa sempre più inconsistente, sempre più freddo, la sua pelle diventa più pallida, più trasparente.

- Svegliati. - mi da un altro bacio, un bacio così intenso che potrebbe uccidermi - Svegliati. -

 

E io mi sveglio.

Mi sveglio.

Mi sveglio sul mondo, sulla vita, sulla mia esistenza.

Mi sveglio davvero.

La prima cosa che sento, è l'urlo di mia madre, e improvvisamente nel mio campo visivo non c'è altro che lei. Il profumo che lascia sul suo cuscino, i capelli ricci e gonfi come una montagna d'oro castano, le sue lacrime. Solo lei. La mia mamma.

Le braccia pesano una tonnellata, non riesco a controllarle. Con enorme sforzo l'avvolgo con un braccio, timidamente, come se non fossi certa di quello che sto facendo.

Non riesco a capire cosa dice, le parole sembrano un lamento continuo e insensato tra le lacrime e i singhiozzi.

Poi sento “sei viva”. Solo quelle due parole.

Sei viva.

Mi danno la dimensione dell'universo.

Sono viva. Respiro, il mio cuore batte.

Che vuol dire che sono viva?

Vuol dire che posso ancora vivere per qualcuno.

Posso ancora amare qualcuno.

Posso ancora piangere per qualcuno.

Posso ridere, posso odiare.

Sono viva.

Sono due parole, non avevo mai pensato, mai capito quanto fossero importati.

Vivere è scontato, basta aprire gli occhi e respirare.

Ma respirare non è scontato, e tenere gli occhi aperti è difficile.

Perché sono viva?

- Perché c'è qualcuno che ha pregato fortemente per te. - riconoscerei ovunque quella voce. Oltre l'abbraccio di mia madre, oltre la sua massa di capelli incontrollabili, lui. Mi sorride, beffardo, menefreghista. - Mi avevi promesso che saresti tornata. - mi rivolge un velocissimo broncio, il tempo di una frazione di secondo e i suoi occhi viola si riaccendono in un sorriso - Sei una tremenda bugiarda. -

Mia madre monopolizza la mia attenzione. Mi prende il volto tra le mani, mi accarezza, mi riempie di baci. Parla, ma io non riesco a seguirla, poi sparisce, come una furia, urlando, chiamando.

Eden si avvicina al letto, ci si siede con eleganza. È vestito tutto di bianco.

- Ben tornata. -

Provo a parlare, ma mi riscopro senza forze.

È un letto ospedaliero quello in cui sono sdraiata, le coperte sono ruvide e rigide, vecchie; ho una flebo al braccio che gocciola continuamente, come fosse lei a tenermi in vita.

Le pareti sono grigiastre, scure. Dall'unica finestra filtra la luce del primo mattino.

Eden mi si avvicina, gattonando sulle lenzuola finché non mi è tanto vicino che lo sento respirare.

- Sei rimasta in coma per un mese. Sei ancora debole, non ti sforzare. - e mi da un bacio in fronte. Lui deve aver incrociato il mio sguardo spaurito, confuso. - Oh, non temere piccola, è tutto apposto. So che hai tante domande, ma questa volta sono io a dover rispondere. - mi tendo per afferrarlo, ma non sono forte abbastanza. Lui mi prende la mano con dolcezza.

Prima che possa aggiungere altro, dentro la stanza si affollano una serie di uomini e donne in camice bianco; qualcuno tiene fuori mia madre a forza, sento la voce di mia sorella, il pianto isterico della piccola, le urla di mio padre.

Sono viva.

 

I medici mi controllano e mi ricontrollano per tutta la giornata, senza mai lasciarmi andare, somministrandomi farmaci su farmaci, scribacchiando in silenzio sulle loro cartelle, senza mai guardami negli occhi.

È pomeriggio inoltrato quando finalmente la mia famiglia può entrare a vedermi.

Penso di aver finito di piangere tutte le mie lacrime abbracciando e baciando le mie sorelle. Non voglio lasciarle mai più, mai più; non adesso almeno.

Mi raccontano la storia.

L'aereo, l'aereo è caduto. Ci sono stati pochi superstiti. Dio deve avermi protetta, perché sono sopravvissuta. La signora al 16F è morta, e quello era il mio posto.

La mia fortuna è stato lo scambio. Se solo sapessero che quello scambio mi ha uccisa.

Ma sembrano tutti così felici, tutti così esuberanti. Non sanno della mia morte, perché io sono viva.

Avevo perso molto sangue e riportato un trauma cranico, il mio corpo non ce l'aveva fatta ed era crollato.

Ero rimasta in coma per un lungo mese. Lo stesso mese che ho passato nell'Altro Mondo.

Mi sento confusa.

È stato tutto un sogno? Tutto quello che ho vissuto, è stato solo un sogno? Uno di quei sogni da cui poi ti risvegli e riprendi la tua vita da dove l'avevi lasciata?

Un sogno così complesso che la mia mente non riesce a descriverlo, i particolari mi sfuggono, diventano sfocati ai bordi; immagini, parole, si mescolano.

Guardo Eden, i suoi occhi viola.

Non è stato solo un sogno.

Lui è lì, io lo posso vedere.

Nessuno sembra accorgersi della sua presenza, tranne me.

Io posso vedere il modo tranquillo che ha di rimanere in piedi accanto al mio letto, imperscrutabile e immobile come una bellissima statua.

Dunque, cos'è successo?

Dov'è lui? Lui?

Mi tocco il petto dove il cuore scalpita e sento sotto le dita la consistenza del ciondolo, il mio ciondolo.

 

Solo la notte riesco a trovare la pace. Solo la notte perché i medici hanno chiuso la porta della mia stanza a chiunque altro non sia io. Ed Eden, il mio ospite silenzioso.

Ma a questo punto non ho più bisogno di spiegazioni.

Io ho conosciuto la morte, il dolore di perdere tutto ciò che si ha di più caro, e mi è stata data la possibilità di conoscere anche la vita.

È questo quello che devo fare. Vivere.

Aspettarmi dal futuro qualcosa di più, rincorrere i miei sogni, i miei sentimenti, darmi una direzione.

Che sia stato solo un lungo e intenso sogno, che sia stato reale, non ha più alcuna importanza.

Ho avuto la visione di ciò che sarebbe potuto essere, di ciò che sarebbe stato. Ho vissuto un sogno che mente umana non potrebbe spiegare.

Se lo raccontassi, verrei presa per pazza, sarà un segreto che morirà con me, ancora una volta.

Perché io sono morta, sono già morta, e non ho più paura.

Eden mi accarezza il volto.

- Sei grande, sei cresciuta, e non c'è altro che posso fare per te. - mi sorride - Ci vediamo, eh? Ma non tanto presto. -

Gli stringo la mano, ma non riesco a piangere. Lui sa già tutto e non ha bisogno di altre lacrime.

Socchiudo gli occhi, la finestra si spalanca; tra le ciglia riesco a vedere le sue ali candide che si spalancano nella notte, scorgo il suo sorriso calmo e il bacio che mi indirizza spingendolo sulla punta delle dita.

Un soffio di vento lo porta via da me.

Di lui non rimane traccia, ma un giorno ci rincontreremo, e allora saprò esattamente cosa fare.

 

Adesso sono sola di fronte alla notte.

Ho paura di chiudere gli occhi, se non dovessi più svegliarmi? Se domani non arriverà mai?

Ho tante cose da fare, domani. Tante cose da vedere, tante persone da sentire; ho tutto domani da vivere.

È il sonno che si ribella, che sfugge e non vuole farsi prendere.

Questo letto è diventato una cella, le lenzuola sono catene, il cuscino è duro come il cemento.

Devo alzarmi, devo uscire di qui.

Il mio corpo trema, non so se riuscirà a reggermi.

Scosto le coperte, lascio penzolare i piedi nel vuoto. Il pavimento mi sembra distante e irraggiungibile; ma devo solo poggiarci le piante, con delicatezza. Il freddo mi entra nelle ossa e mi fa rabbrividire.

Di colpo la gravità mi attira al suolo.

Ho di nuovo un peso in questo mondo.

Mi rialzo, traballante, aggrappandomi al letto.

Muovo i miei primi passi, i primi passi della mia nuova vita.

Percorro la stanza.

Il pigiama che indosso profuma ancora di pulito, ma mi sembra di averlo avuto sulla pelle per un tempo incalcolabile.

Riesco ad avvicinarmi alla finestra. La spalanco e il freddo della notte mi riempie i polmoni.

Il cielo sembra così lontano adesso, quando prima potevo raggiungerlo in un attimo. Ho toccato le stelle, ho danzato tra le nuvole. Ma niente è bello come sentirmi scorrere il sangue nelle vene.

Le gambe mi tremano; torno a letto, lentamente.

Domani, domani farò tutto quello che devo. Ma ora ho bisogno di dormire.

 

Svegliati.

Fallo per me.

Svegliati.

 

Sobbalzo. La sua voce mi rimbomba ancora nelle orecchie.

Mia madre è a fianco al mio letto, mi sorride.

Si avvicina per farmi una carezza sul volto; non dice niente.

Un'infermiera entra nella stanza, poggia una mano sulla spalla di mia madre. Deve essere stata una compagna di sofferenza per lei.

- Come ci sentiamo oggi? Hai dormito abbastanza, no? Vorresti alzarti e fare un giro? -

Annuisco piano, sotto gli occhi vigili di mia madre.

L'infermiera mi aiuta ad alzarmi, anche se ormai sento le gambe abbastanza forti da reggermi.

Muoviamo qualche passo in corridoio, verso una sedia a rotelle.

Il resto della mattinata passa tra i medici.

Un ortopedico, un fisioterapista, un logopedista, una psicologa. Tutti vogliono sapere se sto bene. Ma io sto benissimo. Sono viva, come potrei stare meglio?

A loro interessa che siano i risultati delle analisi a confermarlo.

Prima della fine dell'orario di visita mi riportano nella mia stanza, e dalla sedia a rotelle passo al letto, anche se sono perfettamente in grado di muovermi da sola.

La mia famiglia ciancia tutta allegra nella stanza; Elena mi si è seduta in braccio e mi fa vedere Oshawott, il peluche regalatole per il suo compleanno. Mi dice che non ha mai smesso di abbracciarlo, l'ha portato sempre con sé, perché le ricordava me.

Eleonora non parla molto, non è mai stata particolarmente espansiva, ma capisco dai suoi occhi rossi e dal suo sorriso appena accennato che è troppo felice per poterlo esprimere a parole. Mi basta incrociare il suo sguardo per esserne sicura.

Quanto le amo. Le amo tanto.

C'è un'altra persona che amo e che vorrei tanto vedere. Ma ho paura di chiedere dove sia. Ho paura che mi si risponda che non verrà, che ha smesso di sperare per me.

- Signori, l'orario di visite è terminato. -

La voce dell'ennesima infermiera perfora quella strana felicità che si avvolge.

Sento i miei genitori sospirare. Elena mi abbraccia piano (le hanno detto di essere delicata, e per una volta mi mancano i suoi abbracci esagerati, le volte in cui mi ha strozzata e stretta fino a farmi quasi soffocare), Eleonora mi da un bacio timido e i miei non sono da meno.

Mi salutano come se fosse doloroso. Lo è per il mio cuore almeno.

Mi appoggio sui cuscini, socchiudendo gli occhi.

- Signorina non può passare. -

- La prego, lo so che sono in ritardo. -

- Torni pomeriggio. -

- Per favore, per favore, solo cinque minuti! -

L'infermiera non risponde e la porta della mia stanza si riapre.

Si potrebbe morire di felicità, ma io non ho intenzione di morire.

Apro le braccia per accoglierla e piango, ancora prima di sentire il suo corpo contro il mio.

- Momo! -

Urlo tra le lacrime. Momo, non mi ricordo neanche perché ho deciso di chiamarla così, soprattutto perché non riesco a smettere di farlo. Momo, la mia Momo.

Lei mi accarezza la testa, piange e singhiozza, vorrei che smettesse.

È come la ricordo: smagrita e pallida, stanca.

- Sei qui, sei tornata. - dice lei, prendendomi il volto tra le mani, come a volersi accertare che non sia tutto un sogno - Non lo fare mai più, non farmi mai più spaventare così. - tira su con il naso, cercando di trattenere le lacrime - ...non morire più. - le sfugge dalle labbra, ed io ho la certezza che lei sa, lei sa tutto.

La stringo più forte che posso, fino a non riuscire più a sentirmi le braccia.

- Ti voglio bene Momo, ti voglio tanto bene. Grazie per tutto quello che hai fatto. -

- Ma io non ho fatto niente... -

- No, tu hai fatto tutto invece. Se potessi dirti...se potessi spiegarti... -

Sonia mi sorride.

- Non importa. -

Mi scocca un bacio sulla guancia.

Tornare a parlare con lei, tornare a vivere la mia vita con lei, è come rinascere.

Non sembra passato neanche un giorno da quando ci siamo lasciate, eppure sia io che lei siamo profondamente diverse, scosse da quello che abbiamo vissuto, dal dolore che abbiamo dovuto affrontare. Ma adesso siamo più forti, più decise, più unite che mai. Possiamo combattere e vivere le nostre battaglie.

Insieme.

- Ho una sorpresa per te. -

Dice Sonia a un certo punto. Benché io sia sorpresa, il cuore non batte un colpo. Fruga nella sua borsa e mi porge una busta. Io la guardo, smarrita, lei mi fa solo cenno di leggere il contenuto della busta. La apro e adesso sì che il mio cuore crolla. Devo chiudere un attimo gli occhi prima di poter mettere a fuoco quello ce ho davanti.

- Non è...possibile... -

Il sorriso sul suo volto è di indescrivibile bellezza.

- Questa estate tu e io ce ne andiamo a Los Angeles, sei contenta? -

Non le rispondo neanche, non potrei, sento che l'unica cosa che mi uscirebbe dalle labbra sarebbe un urlo strozzato di felicità e gioia.

L'abbraccio, fortissimo. E piango, ancora.

L'infermiera entra urlando che ormai i cinque minuti sono passati; Sonia scappa mia dalle mie braccia promettendomi che ci saremmo viste presto e dandomi un bacio in fronte.

Tra le mani mi rimangono i biglietti aerei per Los Angeles.

 

Neanche stanotte riesco a dormire.

Mi è mancato troppo il mondo per poterci rinunciare adesso.

Mi giro e mi rigiro nel letto; odio questo letto.

Sento che c'è ancora qualcosa che devo fare prima trovare la pace del sonno.

Mi tiro su, scalciando per togliermi di dosso le coperte.

Ecco cosa devo fare.

Mi tocco il petto, è ancora lì, nessuno l'ha toccato.

Mi tolgo il ciondolo dal collo. Lo stringo al petto e respiro, sento l'aria che entra nei polmoni e mi fa vivere, il movimento lento del contrarsi e del dilatarsi degli alveoli e dei bronchi.

Il piccolo cuore è pesante, pesante di ricordi, pesante di aspettative. Doveva essere suo, ma lui non l'ha voluto.

Me l'ha restituito.

Era il mio cuore per lui, forse non ha mai avuto senso tutto questo.

Chiudo gli occhi prima che mi si riempiano di lacrime.

 

Credimi, ti appartiene.

 

Li spalanco di colpo.

Qualcosa è cambiato. Lo sento.

Guardo il ciondolo, lo apro.

Io ti aspetto”.

 

 

   
 
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