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Autore: Cheche    03/10/2012    1 recensioni
Gengar ed Henrik sono due facce della stessa medaglia. E' nato tre volte: Umano la prima, Pokémon la seconda, la terza ancora Umano. E questa volta i suoi ricordi sono tutti intatti.
Soffri bene, poi torna ad essere felice.
Sì, come no.
Kekekeh.

[ Pokémon Mystery Dungeon; CurseofLoveShipping ]
Genere: Angst, Introspettivo, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Videogioco
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 Premessa: Questa Fanfiction è sperimentazione pura. Innanzitutto perchè è una Songfic, e credo che si possa considerare la mia prima vera Songfic. Quindi apprezzerei ancor di più avere i vostri pareri. Ultimamente traggo molta ispirazione dalla musica. In certe fasi della vita... beh, può svolgere un ruolo cruciale. A me personalmente ha aiutato moltissimo. Beh, invece di annoiarvi, vi dirò subito che la canzone usata è Suffer Well dei Depeche Mode. Vi consiglio di ascoltarla, perchè ho cercato in alcune parti di rendere l'atmosfera cupa suggerita dalla canzone. Ed aggiungiamo pure che ascoltare i Depeche Mode non fa così male, secondo il mio onesto parere. Ovviamente non è un obbligo. :3 Un'altra cosa: per la protagonista femminile di MD ho deciso di usare il nome già adottato da Akemi_Kaires prima di me. Il nome di Gengar, invece, l'ho scelto io. Vi lascio alla lettura, carissimi! <3




Suffer Well


Si trovava immerso nel buio di una stanza che odorava di essere umano. La stessa essenza che emanava la sua pelle, rosea e delicata, palpabile come non la ricordava. Se la sfiorò difficoltosamente con i polpastrelli, rendendosi conto di starsene raggomitolato su se stesso. Si chiese come ciò fosse possibile e dove fossero finite le ciocche di immateriali peli violacei che coprivano interamente il suo piccolo corpo tondeggiante.
Non era più un Pokémon. Se ne accorse sbattendo un paio di volte gli occhi cremisi, cercando di abituarli all’oscurità. Abbracciò l’aria, stringendosi nelle spalle, rendendosi conto del proprio destino.
La morte non era la punizione adatta per espiare le colpe di cui Gengar si era macchiato. La sua condanna era tornare nel mondo umano con i ricordi delle sue precedenti vite intatti.
Ti incontrerò mai di nuovo?

Where were you when I fell from grace?
A frozen heart, an empty space

Dov'eri quando sono caduto dalla grazia?
Un cuore di ghiaccio, uno spazio vuoto


Si strinse le gambe al petto, tremando un poco a causa dei brividi di freddo che lo scuotevano.
Si soffermò a pensare al passato, cercando affannosamente una teoria alla quale aggrapparsi per spiegare ciò che gli stava succedendo. Perché non poteva riposare in pace?
Ricordò l’astio verso i suoi genitori. Sua madre fu la prima a sacrificarsi, perdendo la vita per proteggerlo da un incidente stradale quando lui era appena dodicenne.
Non aveva mai smesso di sentirsi in colpa, provando un rimorso che aveva corroso ogni sua gentilezza d’animo.
Da ragazzino eccedeva spesso in spavalderia, urlando ‘so badare a me stesso! Sono grande, ormai!’, mentre si apprestava ad attraversare la strada. E, finito di dire tali cose, una macchina appariva poco lontano, minacciando un impatto imminente, facendo strepitare sua madre come un’ossessa. Ricordò il tocco delle dita della donna sulla propria schiena. Lo rimembrava sempre con un brivido. Fu l’ultimo contatto che ebbe con lei, perché poi non ebbe più cuore di sfiorare il suo cadavere. Aveva osservato in silenzio la polizia raccogliere il corpo della sua genitrice ed arrestare l’ubriaco al volante di quell’auto che aveva cambiato la sua vita.
Fu un periodo terribile, pervaso di viscerali angosce; piangeva copiosamente ogni giorno, iniziava a versare lacrime non appena schiudeva le palpebre al mattino. In un moto di orgoglio reprimeva i singhiozzi per non farsi udire dal padre. Quando questi si ricordava dell’esistenza del figlio, diventava di colpo furente. Arrivò al punto di accusarlo di aver ucciso la sua amata. Tutto l’odio represso straripò una serata, quando il giovane fu sbattuto fuori di casa sotto una pioggia battente. Sembrava il protagonista di un film drammatico, ma si trovava nella propria dannata realtà.
Poi nella sua vita si impose la presenza di Gardevoir. Quel Pokémon lo amò al punto di prendere su di sé una maledizione destinata al ragazzo, diventando una presenza incorporea.
“Sciocca.” Mormorò quella volta, digrignando i denti con rabbia e volgendosi in fuga.
E nuovi sensi di colpa invasero la sua mente tormentata.
“Ti odio, Gardevoir.”
“Ti odio, mamma.”
Perché per Gengar la bontà e il sacrificio erano sofisticate forme di perversione. I fantasmi del suo Pokémon e della genitrice lo torturavano, lo accusavano di vigliaccheria. Era meglio morire che vivere in quel modo miserevole.
Si convinse che sua madre e Gardevoir lo avessero odiato profondamente. Una persona comune non vorrebbe mai che l’oggetto del proprio amore soffra in maniera tanto atroce.
Lui ricambiava il loro risentimento, vero o presunto che fosse. Le detestava con un’intensità tale da aver scordato il proprio nome. Adesso che aveva capito il loro gioco, ora che aveva compreso il loro desiderio di vederlo piangere, avrebbe riso in faccia a loro e ad ogni forma di eroismo e sacrificio.
Avrebbe ghignato.
Kekekeh.
Nonostante la convinzione che sentiva nelle proprie idee, inconsciamente sperava che qualcuno riuscisse a fargli cambiare opinione.

Something's changed and it's in your eyes
Please don't speak, you'll only lie
I found treasure not where I thought
Peace of mind can't be bought
Still I believe

Qualcosa è cambiato ed è nei tuoi occhi
Per favore, non parlare, mentirai soltanto
Ho trovato il tesoro non dove pensavo
La pace mentale non si può comprare
(Ma) Io continuo a credere


Aveva trascorso quella sera in cui aveva iniziato la sua nuova vita da essere umano rimanendosene accovacciato a terra con atteggiamento schivo. La stanza era vuota e lui gemeva, i suoi singhiozzi riecheggiavano nel vuoto, riempiendo l’atmosfera.
L’aveva chiamata. Aveva immaginato il suo aspetto umano. Aveva costruito con la mente una Phoebe virtuale, sfiorando l’aria, immaginando di muovere le proprie dita lungo una setosa chioma color miele.
“Non è abbastanza? Mi stavo sacrificando per lei… Perché sono qui? Il cielo mi vuole male!”
Le sue parole sapevano di solitudine, rimbombavano tra le pareti dell’appartamento angusto, confermandogli di essere maledettamente solo.
Si morse il braccio che aveva calcato sulla propria fronte, cercando di calmarsi attraverso un ultimo piccolo sfogo dei propri istinti. Un lamento soffocato fuoriuscì gutturalmente dalle sue viscere. Vedendo la pelle arrossarsi rapidamente, la leccò. Era abituato a farlo quando era un Pokémon, e il fatto di essere tornato umano così repentinamente aveva lasciato in lui una serie di istinti latenti che aspettavano il momento giusto per mostrarsi.
Quel vago dolore corporeo lo portò a sgranare gli occhi, come folgorato. Effettivamente un’idea aveva preso il sopravvento nella sua mente, sconvolgendo ogni altro pensiero, premendo l’interruttore della luce in quella stanza buia che era il suo cervello.
Che fosse tornato sulla terra per avere una seconda possibilità? Che Lei stesse per tornare?
Rimase lì, impietrito, raggomitolato su sé stesso. Avrebbe aspettato per tutto il tempo che gli rimaneva che un raggio di luce squarciasse le sue tenebre.

Just hang on
Suffer well
Sometimes it's hard
It's hard to tell

Semplicemente, tieni duro
(E) Soffri bene
A volte è difficile
È difficile ammetterlo


“Quanto tempo, Henrik.” Esclamò la cassiera. Lo aveva osservato a lungo, per decidersi infine a sorridergli candidamente. “Sei sparito per tre mesi e nessuno ha più avuto tue notizie…”
Il giovane sgranò i suoi grandi occhi cremisi, impallidendo. Quasi sembrò ritrarsi, facendosi più piccolo. “Come… come mi ha chiamato, signorina?”
“Henrik. E’ sempre stato il tuo nome.” Il riso sulle gote della ragazza si velò di apprensione, mentre si apprestava ad imbustare i prodotti da lui acquistati. “Dammi del tu, piuttosto. L’hai sempre fatto.” Le guance della cassiera si imporporarono lievemente.
Henrik si soffermò ad osservare il suo viso, socchiudendo le palpebre. “Tu…”
Aveva immensi occhi blu notte, che iniziarono in quell’istante a scintillare dall’emozione come cieli stellati.
“Niente.” La guardò abbassare con delusione lo sguardo, per poi tornare a svolgere il proprio incarico. Era decisamente carina, ma non era ciò che cercava.
Si voltò distrattamente verso lo specchio vicino alla cassa. Perché avevano posto un tale oggetto proprio lì, in quel punto? Ci tenevano tanto a ricordargli quanto era diventato laido in quei giorni, con quei capelli cespugliosi ed ispidi come la peluria dei cani? Perché Henrik si percepiva così.
L’attesa carica di speranze lo portava a sorridere di più, a sognare ad occhi aperti. Ma era anche diventato febbrile, nervoso, pieno di scatti e di tic. Dimenticava al mattino di pettinare i capelli, obliava di asciugarseli la sera, dopo aver fatto la doccia; si raffreddava spesso e altrettanto frequentemente sentiva uno strato di muco ostacolare l’emissione di fiato. Non riusciva neppure più a riposare con la tranquillità che gli era necessaria, tanto la sua mente era affollata di pensieri.
Sospirò al fine di spezzare il ritmo angoscioso dei propri rapidi respiri. Raccolse la spesa per poi varcare l’uscita del supermercato, pronto ad imboccare la strada familiare che l’avrebbe condotto tra le mura di casa.
Era scesa la sera, i lampioni si stavano lentamente accendendo lungo la via.
Eppure, con un fremito, riuscì a distinguere quella ragazza, sicuro di non poter sbagliare. Aveva lunghi capelli color fango, era alta e longilinea e lineamenti delicati definivano il suo viso ovale.
Il silenzio che fece da sottofondo al loro scambio di sguardi fu spezzato solo dalla caduta della busta del supermercato.

An angel led me when I was blind
I said "Take me back, I've changed my mind"
Now I believe

Un angelo mi guidava quando ero cieco
Ho detto "Riportami indietro, ho cambiato idea"
Ora credo


“Ogni buona azione ha il suo prezzo.” Diceva il beffardo Gengar ai suoi due sgherri. “Non per chi la compie, ma per chi gli sta attorno. Soffrirete di meno se vi umilieranno con cattiveria.” Terminava i suoi discorsi con quel suo irritante ghigno. “Fidatevi, queste cose le so.”
Ekans e Medicham ridevano insieme a lui. Non comprendevano minimamente i suoi discorsi, ma due Pokémon smarriti ed insicuri come loro avevano bisogno di un capo carismatico al quale affidarsi, qualcuno di cui sapessero di potersi fidare senza dover chiedere alcuna spiegazione.
Per Gengar loro valevano meno di niente: erano solo delle pedine valide per i suoi scopi. Pendevano dalla sua bocca eternamente piegata in un sorriso strafottente, bevendosi avidamente ogni sua parola, fotografando mentalmente le azioni del loro capo, pronti ad imitare ogni suo passo.
“’Team Perfidia’ è proprio un bel nome.” Affermava con sicurezza Gengar. “Il malanimo è ciò che manda avanti questo mondo. Provate a negarlo.”
I due Pokémon non avrebbero potuto contraddirlo neanche volendolo. Non capivano neanche queste frasi, ma si affrettavano ad annuire, improvvisandosi toccati da tali profondi discorsi.
Una sera, celandosi nelle tenebre notturne, Gengar ascoltò i propositi di Phoebe: avrebbe tentato di inerpicarsi su una torre leggendaria per impedire la distruzione del pianeta.
“Kekekeh. Stupida. Pagherai questa assurda pretesa con la morte, vedrai.”
Qualche tempo dopo non riuscì ad evitare di assistere all’esplosione nella volta celeste dell’enorme meteorite che incombeva sul loro mondo, minacciando il suo precario equilibrio. Era impossibile non notare quell’enorme palla di fuoco i cui lapilli venivano sprizzati in ogni direzione, spegnendosi nell’oscurità. Tutti i Pokémon del villaggio si precipitarono nella piazza, genuinamente felici di assistere ad un tale spettacolo.
“Cos’è quello, papà?”
“Siamo salvi, figliolo!”
“Potremo continuare la nostra vita!”
“Quei cari scriccioli… che immensa missione hanno compiuto per salvare il mondo.”
“Sono sicuro che stanno bene. Sono troppo forti per rimetterci la vita.”
Chiudeva Alakazam, spalleggiato dalla sua cricca d’élite.
Sono tutti felici.Gli occhi sgranati di Gengar esploravano i volti di tutti i Pokémon presenti. Splendevano di gioia; la luce della spettacolare esplosione del meteorite sembrava riflettersi su di loro. Era uno spettacolo talmente abbagliante che Gengar sentì alcune lacrime pizzicargli le palpebre, per poi perdersi sul suo corpo villoso. Tremava anche, stringeva le piccole mani, gli occhi spalancati rivolti verso l’alto.
Cosa sto facendo?Le urla festose dei Pokémon avevano compiuto una rivoluzione nella sua mente.
Quanto sono stato sciocco?Si passò la lingua sui denti, schioccandola.
Doveva redimersi all’istante. L’oscurità che impregnava il suo cuore doveva essere lavata via, perché sentiva di non poterla più sopportare.
Un attimo dopo tra quelle tenebre era sparita ogni traccia della presenza di Gengar. Aveva finalmente capito che missione avesse da compiere e quale fosse il suo vero ruolo in quella storia.

From the blackest room I was torn
You called my name, my love was born
So I believe

Sono stato strappato dalla stanza più nera
Hai pronunciato il mio nome (ed) è nato il mio amore
Quindi io credo

Henrik strinse nel pugno una ciocca di lunghi capelli setosi. Phoebe era talmente identica ai suoi sogni da fargli sentire in ogni istante il bisogno di sfiorarla, sentirla reale. Così sublime da far quasi paura. Anche il suo profilo dormiente nel buio era per lui di una bellezza scoraggiante. Il suo respiro regolare era angelica musica per le orecchie del ragazzo. Voleva bearsi della sua vicinanza, lambirle tutto il corpo.
Non si sentiva soddisfatto da quei contatti che si scambiavano durante il giorno. Quella sera aveva sfiorato ogni centimetro della pelle della giovane. Essendo stato un Gengar, tra le membra di Henrik la lingua era in assoluto la più sensibile. Gli consentiva di assaporarla, sentire quel sapore un po’ selvatico e prezioso che mai più avrebbe scordato. Sarebbe stato un ricordo di lei che avrebbe portato con sé nella propria tomba.
Phoebe. Non riusciva a dormire con lei accanto. La presenza della ragazza invadeva ogni meandro della sua mente. Il ragazzo rimaneva per lunghe ore nel buio a sorridere come uno sciocco, a guardare la sua sagoma immaginandone i lineamenti, cogliendoli con uno scintillio dei suoi occhi simili a tizzoni ardenti.
Oramai era chiaro che lei non fosse una fantasia. Smise di accarezzarle i capelli a malincuore, dicendosi di essere felice perché ora era completo.
Phoebe era accanto a lui, sorrideva solo per lui, era una sua proprietà esclusiva. Palpitava e chiamava il suo nome quando Henrik la stringeva tra le braccia, emozionata come una bambina cresciuta troppo rapidamente. Dormiva serenamente nella sua stessa stanza, giacendo meravigliosamente viva nel loro involto di lenzuola.
Sussurrava il suo nome anche nel sogno, in un mormorio fievole che le orecchie vigili del ragazzo riuscivano ugualmente a cogliere. “Henrik…”
Già, Henrik.Un nuovo dubbio si fece strada con prepotenza nella sua mente contorta.
E se non mi avesse riconosciuto? Magari lei non sa che io sono Gengar. Eppure io so che lei è la mia Phoebe.
Si portò entrambe le mani tra i capelli arruffati. Se lo sapesse… forse non starebbe con me. Forse le farei schifo.
Neppure quella notte avrebbe goduto di un sonno sereno.

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Stavano seduti sul divano dello squallido salotto della dimora di Henrik. Sembrava essere arrivato il giorno che il ragazzo più di tutti temeva. Lui lo sentiva con tutte le proprie membra. L’atmosfera era cambiata, si era fatta più greve.
“Tu sei la mia Phoebe?” Con tale domanda, il giovane dava voce a quello che era il suo dubbio più recente, mascherandolo con voce scherzosa.
“Certamente.” Rispondeva Phoebe, mentre il suo viso pallido si illuminava un poco. Parlava come se avesse capito, come se avesse letto la mente del compagno.
Henrik non riusciva a smettere di accarezzare quei lunghi capelli setosi. Lei era la sua passione, la malattia più grave che l’avesse mai affetto. Il suo non era un morbo esclusivamente mentale: lo sentiva sempre irradiarsi lungo le viscere del suo corpo da essere umano.
“Stanotte ho sentito il pianto dei Pokémon. Chiamavano il mio nome, mi occupavano tutta la testa.”
Per la giovane quello doveva essere un peso opprimente. Lei, generalmente così stoica, si ritrovava a mormorare quei tormentosi pensieri nell’orecchio di Henrik, che le era sempre accanto.
“Non li ascoltare… concentrati sul presente.” Quello del ragazzo sembrava un suggerimento, ma in verità intendeva essere un ordine perentorio. Non voleva perdere lei, che era diventata l’unica valida ragione di quella sua terza e triste vita.
“Stanotte mi è stato suggerito cosa dovrei fare per tornare nel mondo dei Pokémon.” Mormorò Phoebe.
“Allora verrò con te. Tornerò ad essere un Pokémon. Veglierò su di te.”
“Impossibile, Gengar. Questa è una possibilità concessa solo a me, un miracolo che non dovrebbe mai accadere.”
Henrik sgranò gli occhi, resi lucidi dall’affermazione che aveva appena sentito uscire dalle labbra rosee di Phoebe.
“Allora sapevi chi ero.” Esalò lui debolmente.
“Sì. L’ho capito fin dal primo momento. I tuoi occhi, il tuo modo di ridere, il tuo modo di osservare le mie mosse… Tutto mi diceva che tu eri colui che cercavo.”
“E non mi detesti?”
“No. Senza di te, non avrei potuto assaporare uno dei momenti migliori della mia vita.” Gli occhi castani di Phoebe splendettero di dolcezza. “E’ accaduto tutto grazie a te. Da quando ho capito cosa è accaduto, ho iniziato a sperare incessantemente di rivederti.”
Il giovane non poté fare a meno di stringerla. Sentire quel corpo sottile aderire perfettamente al suo era un’emozione senza pari. Era calda e minuta, sempre palpitante ed emotiva. Ora era pressoché immobile, sembrava risoluta; forse aveva già preso una decisione. Henrik, egoisticamente, percepiva solo una scelta giusta tra le due possibilità.
Non mi lasciare.Non sapeva comunicarlo a parole, ma sembrava pregarglielo attraverso quell’abbraccio carico di disperata brama e di paura dell’abbandono.
Phoebe cinse con le proprie braccia il corpo del ragazzo, senza però avere il coraggio di stringerlo con lo stesso ardore. Quelli nutriti da lei nei confronti Henrik erano dei sentimenti troppo importanti perché potessero svanire, ma si sarebbe sentita ipocrita ad aggrapparsi a lui al punto di affondare le unghie nella sua schiena. Avrebbe creduto di essere stupida nel mostrarsi tanto dipendente dal ragazzo, sapendo quali parole stesse per proferire.
“Quest’occasione è stata concessa a me. Si vede che è il mio destino.” Non riuscì a nascondere il tremito della sua voce sottile. “Devo andare.”
Henrik sapeva quanto la determinazione di Phoebe fosse inossidabile, anche quando la sua voce era spezzata e lacrime amare le scendevano giù per la gola. La mia piccola, orgogliosa Phoebe.
Proprio perché la conosceva così intimamente, seppe di averla persa. Questa volta per sempre.

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“Hanno bisogno di me…” Phoebe si ritrasse mentre la morsa delle mani di Henrik attorno ai suoi polsi si faceva più stretta.
Anche io ho bisogno di te. Molto più di loro!I pensieri del ragazzo sembravano scritti nei suoi occhi ora acquosi. Lei colse la protesta incisa nel suo sguardo.
“Sei sempre il solito prepotente…” Gli rivolse un sorriso triste. Esercitando forza appena sufficiente, riuscì finalmente a sottrarsi dalla sua presa. “Il portale sta per richiudersi. Devo proprio andare.”
“Così, all’improvviso? Quanto tempo ti resta?”
“Poco. Augurami la buona fortuna.”
Henrik avrebbe ucciso la sua compagna in quel momento, purché rimanesse insieme a lui. Non ebbe cuore per dar vita a quell’insana folgorazione che aveva attraversato la sua mente.
“E io? Cosa dovrei fare, adesso?” Il tono del ragazzo era decisamente ferito.
“Mettere da parte il tuo lato da Gengar. Vivere la vita umana alla quale sei stato destinato fin dall’inizio. Con una ragazza normale.” Dalla voce di Phoebe, si capiva quanto dovesse essere difficile comunicargli quelle frasi.
“Ma è impossibile!” Protestò Henrik, paonazzo.
“Non credere che per me sia facile rinunciare a te!” Esclamò la giovane, dando voce al suo stesso dolore. “Le cose non saranno mai più quelle di una volta!” Avrebbe voluto pestarlo, schiacciarlo sotto una raffica di pugni. Perché lui continuava così impietosamente a tentarla? Era sempre stato un egoista, ma non credeva che quel suo difetto l’avrebbe portata ad esitare in un momento tanto decisivo.
“Augurami buona fortuna, per l’ultima volta.” Il corpo di lei cominciò lentamente a coprirsi di un flebile bagliore. Stava per partire.
Henrik lo sapeva; quella luce inumidiva sempre più i suoi occhi, sfocandogli la vista. Anche se lei era ancora lì, il ragazzo non riusciva più a vederla. Il suo ultimo ricordo di Phoebe sarebbe stato una sfocata immagine sfolgorante.
Ma lui sapeva dove toccarla. Con gesto esitante posò un debole bacio sulla fronte bollente della ragazza, sentendola fremere per un’ultima volta sotto il suo tocco. Non avrebbe sfiorato le sue labbra perché sarebbe stato troppo straziante.
Phoebe gli sorrise attraverso uno schermo di luce mentre spariva nel nulla. Gli parve di scorgere una lacrima rigarle una guancia, ma non poteva esserne sicuro. Gli occhi di Henrik non erano mai stati tanto umidi.
Soffri bene, poi torna ad essere felice.
Sì, come no.
La stanza tornò alla sua consueta oscurità. Fin dal primo secondo avvertì quanto lei gli mancasse.
Quando lei era con me, ero felice come non mai. Adesso mi ha abbandonato, squarciandomi in due.
Gli aveva fatto del bene e questo aveva reso ancora più doloroso quell’addio. Ogni bel ricordo di Phoebe era passato in secondo piano in un misero istante.
Ipocrita perversa.La pensava con egoismo, lui. Come ogni uomo scarsamente capace di vivere e di rialzarsi, non riusciva a comprendere le ragioni degli altri. Era fragile come vetro, ma anche troppo ottuso per rendersene conto. Phoebe è… il nome della malattia che mi ha consumato, portandomi alla morte.
Perché lei lo aveva ucciso definitivamente, seguendo la sua volontà di fargli del bene – probabilmente per pena. E ogni buona azione da te compiuta ha il suo prezzo per chi ti sta intorno, come ho sempre sostenuto.
Si guardò la mano, ora vuota. Pelle, capelli, fiato ardente, palpebre tremanti, labbra fruttate. Tutto ciò che le sue dita ricordavano di aver sfiorato nei giorni precedenti. Ora ad accarezzarle c’era solo maledetta aria gelida.
Un sorriso perverso si fece strada sul suo volto.
Kekekeh.
E se le avesse scaldate impregnandole col sangue?







Note finali: Vi rivelerò: questa fic è un esperimento anche per via del finale aperto. In realtà l'ho già sfruttato da qualche altra parte, ma non sono convinta di saperlo utilizzare appieno. Anche per questo avere i vostri pareri sarebbe molto d'aiuto. Beh, siete rimasti delusi? Ditemelo pure, senza preoccuparvi. ;3 Accetto qualunque suggerimento.
Grazie mille per aver letto fin qui!


  
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