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Autore: Ely79    06/10/2012    2 recensioni
Quando la sera prima avevano raggiunto la sommità dello spartiacque, avevano pensato di poter allungare i piedi e bagnarli direttamente nel mare, di sentire lo sciacquio delle onde e gli strilli dei gabbiani. Purtroppo, una volta avvicinatisi al ciglio del pianoro, si erano resi conto di quanto la meta fosse ancora distante e sorprendentemente in basso.
Storia prima classificata al "Lindsey's Music Contest" indetto da Shade Owl.
Genere: Commedia, Science-fiction, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Luminaria descentit - Luci di discesa Storia prima classificata al "Lindsey's Music Contest" indetto da Shade Owl.

Nick EFP: ely79

Canzone scelta: Electric Daisy Violin
Titolo: Luminaria descendit - Luci di discesa
Generi: Commedia, science-fiction, slide of life
Avvertimenti: -
Rating: verde
NdA e varie:
Questo racconto fa parte di una storia più ampia che pubblicherò a breve e dove lo ritroverete in versione riverduta, corretta e (spero) migliorata! L'ambientazione è steampunk.

sergio

Quando la sera prima avevano raggiunto la sommità dello spartiacque, avevano pensato di poter allungare i piedi e bagnarli direttamente nel mare, di sentire lo sciacquio delle onde e gli strilli dei gabbiani. Purtroppo, una volta avvicinatisi al ciglio del pianoro, si erano resi conto di quanto la meta fosse ancora distante e sorprendentemente in basso. La superficie turchese scintillava placida, ritagliata in uno stretto triangolo dalle montagne. La vicinanza della costa era effettiva solo in linea d’aria, per il resto si trattava di una contorsione geometrica.
Allungarono i colli oltre il limite della sterrata, scrutando al di là delle macchie di ginestre e rose canine. Il primo sole del mattino ancora non cancellava le ombre notturne, rendendo i pendii simili a lastre di scura malachite. La strada scendeva bruscamente, arricciandosi in una ripida e pallida serpentina verso il fondo valle, a malapena distinguibile nel verde. La brezza saliva portando con sé il profumo delle foglie umide e del muschio.
Si scambiarono un’occhiata dubbiosa, prima di volgersi al vagone alle loro spalle. Uno dei due comignoli sputava batuffoli di vapore a cadenze regolari, segno che la caldaia era entrata a regime.
Poteva farcela il trabiccolo sul quale viaggiavano ad arrivare fin laggiù, alla cittadina che si scorgeva al vertice inferiore dell’orizzonte, senza precipitare dai tornanti?
Scesero per qualche decina di passi, studiando il tragitto che avrebbero dovuto percorrere di lì a poco. La strada era quasi priva di buche ma costellata di pietre che sporgevano insidiose. Per non parlare delle fronde che si protendevano dagli alberi più vicini, in alcuni casi talmente basse che avrebbero pennellato di resina l’intera lunghezza del mezzo.
Raggiunsero una curva, da cui osservarono meglio i tornanti. Alcuni erano decisamente angusti e avrebbero dato del filo da torcere allo sterzo e ai freni.
Tornarono sui loro passi, Basilio mordicchiandosi un labbro mentre Oro rovistava tra i cespugli. La situazione era complicata, richiedeva misure da approntare via via.
L’uomo si fermò di fronte al muso del vagone, osservandolo pensieroso. Era alto e tozzo, con la parte anteriore piatta, leggermente inclinata all’indietro. Durante la discesa avrebbe potuto ribaltarsi al primo sobbalzo, rovesciandosi nella scarpata. Un volo considerevole fino al tratto successivo di strada.
Si appoggiò con la schiena al mezzo, guardando di sottecchi il caprone che ripuliva dall’erba la minuscola banchina. I boccioli che all’andata ornavano le frasche erano spariti quasi per intero.
«Non so se i freni davanti terranno. Mi sembra troppo…» e fece cenno con la mano per indicare la pendenza eccessiva della china.
Oro fissò la mano, la strada e di nuovo la mano. Aveva tutta l’aria di non comprendere il problema e per sottolinearlo riprese a brucare, barricandosi dietro la grande “v” arcuata delle corna.
«Dovremmo spostare il peso al centro dell’asse posteriore, caricare il retrotreno per evitare di rovesciarci» commentò pensieroso Basilio. «Procederemo al regime minimo, a costo di impiegarci un mese per arrivare in fondo. Tu ti metti ai pattini».
L’animale belò indignato. Prendeva sempre quel compito come una punizione, inutile fargli presente che solo un becco degno del proprio nome avrebbe avuto abbastanza forza da tenere giù la leva dei freni posteriori.
«Non fare il testone. Indietro non ci possiamo tornare, non ho spazio per fare manovra. O scendi sulla Caffettiera o scendi sulle tue zampe, veditela tu. Di sicuro non vengo a riprenderti e a portarti in braccio fin là, se poi ti stanchi. Te ne vieni rotolando».
Lo sguardo ottuso del capro si piantò in quello accigliato dell’altro.
Basilio non poté fare a meno di sentirsi sollevato dall’avere a che fare lui piuttosto che con un montone o un dannatissimo mulo: se quelli s’impuntavano, era praticamente impossibile smuoverli.
Infatti, dopo aver ruminato a sufficienza sulla questione, Oro scrollò il muso biondo. La campanella appesa al suo collo tintinnò un assenso scocciato.
«E bravo il mio capretto» lo canzonò, dandogli una pacca affettuosa sul capo.
L’animale non parve sentirsi rinfrancato dal complimento e scrollò via la mano, lasciandogli tutto il piacere della ridistribuzione dei pesi all’interno.
Basilio s’infilò nello sportello laterale della Caffettiera, strisciando nel poco spazio adibito a cuccetta, fino a raggiungere lo stretto corridoio interno. AI lati del passaggio, incastrati nei vuoti tra gli scomparti, c’erano scatoloni, cassette, fagotti, attrezzi e oggetti che nella densa penombra perdevano la propria identità, mescolati in un’unica macchia scura.
Riemerse un’ora dopo, quando il sole cominciava a far capolino dalle creste pietrose a nord. L’artigiano era madido di sudore e ansimava per lo sforzo. Aveva le spalle irrigidite e le mani secche e graffiate. L’aria nel ventre del mezzo era bollente e sapeva di chiuso e metallo; il che, unito all’impossibilità di muoversi comodamente, l’aveva letteralmente sfiancato.
Vuotò sul capo quanto rimasto nella borraccia, massaggiandosi tempie e faccia ascoltando l’acqua gocciolare lungo la barba fin sul petto, inzuppando la camicia logora. Guardò intorno un’ultima volta. Il pensiero di dover affrontare il bosco non lo rianimò affatto, anzi: lo fece sentire già esausto.
Oro si avvicinò ruminando con indolenza, quasi gli stesse chiedendo se aveva finalmente finito di far baccano.
Basilio fece una smorfia stizzita calcando il cappello sui capelli umidi.
«Su, va al tuo posto» lo esortò, issandolo sul sedile.
Sarebbe stato meno faticoso spostare una montagna: l’aspetto soffice di Oro ingannava molti dei loro clienti, specialmente i bambini, che per lui impazzivano di curiosità – pareva che le capre orobiche non fossero così comuni fuori delle valli bergamasche. In realtà era pesantissimo e si faceva trasportare a corpo morto di proposito, per esserlo ancora di più.
Appena ripreso fiato, andò nella parte posteriore e controllò il vano del carbone e della legna, trovando ancora una buona quantità di combustibile. S’inerpicò sul fianco del vagone, scoperchiando la cisterna: l’acqua era di poco sopra la metà e considerato lo sforzo cui avrebbe sottoposto il motore, a occhio e croce avrebbe dovuto essere a malapena sufficiente per terminare la discesa, nel caso non avessero trovato torrenti lungo la via.
Oro zampettò sopra la copertura, lanciando deboli belati di protesta per i troppi cavi tesi a cui doveva prestare attenzione. D’altra parte, era l’unico modo per assicurare molte cose alla Caffettiera che, nonostante la mole, possedeva un esiguo spazio interno.
Basilio scese con un balzo, verificando le funi e tutto quanto era appeso ai fianchi del vagone. Sfiorò con le dita la croce impressa a fuoco sulla fiancata, supplicando San Cristoforo che gliela mandasse buona, anche se era da un pezzo che non prendeva parte a una funzione.
«Speriamo non salga nessuno, o siamo fregati» mormorò a denti stretti, mettendosi al volante.
Inchiodò le spalle alla sponda del sedile e si puntellò sui pedali. Azionò le leve dei circuiti, leggendo il movimento degli indicatori. Il vapore cominciò a sibilare nei tubi, premendo sugli organi interni del motore.
«Oro?» chiamò senza voltarsi.
Dalla postazione dei freni posteriori, il becco rispose con uno scampanellio frenetico.
«Bene. In viaggio» annunciò, lasciando andare lentamente il freno.
La sagoma tozza della Caffettiera prese a muoversi, cigolando verso valle.

***

Camminò rigido fino alla porta, un insieme di assi verdi decorate dalla salsedine, sopra cui dondolava l’insegna. “Il Buon Approdo”, se leggeva bene.

Pur avendolo percorso in lungo e in largo, era la prima volta che metteva piede sulle coste del Regno di Savoia. Di solito amava trattenersi nella piazza centrale o nei punti più caratteristici per contemplare la nuova meta, ma quella sera avrebbe passato la mano.
La discesa dalle montagne si era rivelata un autentico supplizio, un lento peregrinare tra strati sovrapposti di strada, ripiegati come un decoro celtico. Oro si era lagnato per la maggior parte del tragitto, obbligato com’era a starsene con la testa perennemente poggiata alla leva dei pattini. L’aveva premuta con tanta foga che gli era rimasto un segno piatto in mezzo al muso. Era così arrabbiato che probabilmente meditava d’incornarlo a dovere il giorno successivo, una volta recuperate le forze.
Per quanto riguardava lui, le cose non andavano meglio: aveva spalle e gambe di pietra per la posizione tenuta, la schiena a pezzi e la testa occupata abusivamente da una banda cittadina armata di giganteschi tamburi. Aveva perso il conto dei rami che gli avevano frustato la faccia e le mani, per non parlare del bruciore agli occhi e la gola riarsa.
I tornanti, come aveva immaginato, erano stati la parte più difficoltosa del viaggio. In molti casi era stato costretto a fermarsi e scendere per studiare il modo migliore per affrontare la curva; cosa che però spesso si era rivelata deleteria per i nervi e le energie, oltre che inutile per il superamento del problema. Aveva dovuto procedere per tentativi, manovrando avanti e indietro per pochi palmi alla volta, grattando contro occasionali rocce e fitti rovi. E poi c’erano stati i sobbalzi dovuti alle pietre e alle radici affioranti, le buche in prossimità dei primi pascoli di fondovalle e l’attraversamento imprevisto di un paio d’impetuosi corsi d’acqua – che, per troppa tensione, aveva dimenticato d’impiegare per riempire la cisterna.
Per fortuna aveva trovato presto dove sostare, una volta raggiunta la costa: un piccolo slargo in prossimità del lungomare, riparato dal muro di cinta di un giardino, vicinissimo a un paio di fontane e di empori. C’erano anche alcune ville signorili, con le terrazze piene di minuscole luci e vasi di limoni, disposte a corona sulle pendici montuose che circondavano il porto, i cui moli si proiettavano nel mare come dita ingioiellate di navi. Un luogo di transito ideale per i commerci, inclusi i suoi.
A quell’ora tarda della sera però, mentre gli abitanti già erano rincasati da tempo, lasciando le strade vuote e silenziose, il pensiero degli affari era diventato tutt’altro che prioritario.
Persino Oro aveva lasciato perdere le buffe danze con cui attirava gli sguardi dei passanti, per darsi alla ricerca di un riquadro d’erba dove stendersi.
«Non ce la faccio più» piagnucolò Basilio mentre tentava di piegare le ginocchia per prendere posto su una panca.
L’interno della taverna era accogliente e piacevole, nonostante gli sguardi scontrosi degli avventori presenti. C’erano lunghe tavolate, ornate con brocche di vino e cestini portapane intrecciati su cui campeggiavano sagome di navi, pesci e molluschi. Le tovaglie avevano l’aria di essere state lavate centinaia di volte, al punto che alcune macchie erano identificabili come aloni pallidi o buchi.
Fotografie all’albumina erano appese tra i pilastri, intervallate da riproduzioni d’imbarcazioni.
Dalla finestra poco lontano vedeva il mare farsi scuro sotto gli ultimi bagliori del tramonto. Qualche raro gabbiano attraversava i riquadri di vetro, diretto chissà dove. Barche e pescherecci dondolavano pigri lungo il molo, il sartiame si tendeva nudo nella brezza serale, i motori a carbone ammutoliti per la notte.
Appoggiò la schiena al muro, sbattendo con la nuca contro un oggetto duro e freddo.
Si volse, massaggiando l’ennesimo punto dolorante.
Una lampada a carburo, piccola e quadrata, in ottone, simile a quelle usate sulle navi per le segnalazioni. Se ne stava agganciata ad una catenella, spenta e triste.
Batté col dito sul vetro, domandandosi come avesse potuto ignorarla. Subito fu chiaro che qualcosa non funzionava: era un oggetto di buona fattura, troppo recente per essere stato danneggiato dal tempo.
Tolse dalla tasca dei pantaloni l’astuccio con i ferri d’emergenza, sganciò la lampada e prese ad armeggiare con i fermi che chiudevano il blocco di metallo. Una dopo l’altra le viti scivolarono fuori degli alloggiamenti e la base con esse, liberando un minuscolo beccuccio ed il sistema piezoelettrico, incrostati di sporcizia. L’esperienza diceva a Basilio che si trattava di un problema di poco conto: la polvere non era nemica di quel tipo di lampade. La luce doveva essere venuta meno per qualche altro motivo.
Estrasse con cautela il nucleo riflettente, verificando che fosse ancora saldamente collegato alla celletta. Vedendo che era in buone condizioni, si limitò a spolverarlo e a riposizionarlo.
Aprì la base, estraendo e dividendo i due comparti interni, che appoggiò sul tavolo. Nel più pesante trovò ancora una buona quantità di carbonato di calcio, sufficiente per almeno tre o quattro notti. L’altro era più leggero e l’acqua al suo interno sciaguattava mollemente. Ma non c’era traccia di gocce in caduta dall’ugello.
«Calcare» mormorò l’uomo quando, infilato un sottile pezzo di fil di ferro, lo estrasse coperto di polvere biancastra.
Un banale problema di manutenzione. Probabilmente non era stata utilizzata dell’acqua piovana o desalinizzata.
«Che sta facendo?» strillò una voce dietro di lui.
Strizzando gli occhi stanchi vide che era una donna. O forse sembrava tale per via delle luci mal regolate. Avrebbe potuto trattarsi di una ragazza un po’ trascurata o di un’energica signora su d’età, difficile dirlo in quelle condizioni.
Era bassa e mingherlina, tanto che aveva allacciato il grembiule sul davanti. Le mani erano lunghe e ossute, in maniera quasi innaturale.
«Oh… ehm…».
La risposta non gli sovvenne, preso com’era dall’interrogarsi se per caso non avesse di fronte una sirena o un qualche spirito marino, soggiogato dall’oste. Non riusciva proprio a distogliere lo sguardo dalle dita smorte e nodose.
«Che sta facendo?» replicò pestando i piedi.
La crocchia sulla nuca si disfece per la foga dei colpi e alcuni dei clienti ridacchiarono.
Nessuna sirena. Decisamente doveva trattarsi di una ragazza un po’ isterica e sciupata. Nessuna sirena si sarebbe mai presentata in quelle vesti ad uno sconosciuto e nessuna donna si sarebbe messa a fare quelle scene di fronte ad un cliente mai visto prima, salvo che fosse una totale stupida o non tenesse minimamente al proprio lavoro.
«Vi aggiusto la lampada» scandì lento, sforzandosi di trovare le parole giuste per tranquillizzarla.
La stanchezza gli annebbiava la mente e gli impastava la lingua. Spiegarsi era un’impresa ardua.
La cameriera sembrò capire solo in quel momento cosa stesse facendo. Posò a lungo lo sguardo sul lume, studiando la luce che improvvisamente aveva cominciato a filtrare attraverso il vetro impolverato.
«Tu stai… aggiusti quella?» domandò perplessa.
Basilio annuì, mascherando il dolore al collo dietro un sorriso conciliante.
«Sì, è il mio mestiere».
«Aggiusti le lampade?»
«Sì» ripeté.
Non sapeva dire chi tra di loro dovesse sentirsi stupido: se lei che poneva domande inutili o lui che le rispondeva a tono.
«Le aggiusti… tutte?» chiese titubante.
Nel suo piccolo, Basilio pregò che non avesse intenzione di farlo lavorare proprio in quel momento. Cascava dal sonno e dalla stanchezza, possibile che non lo vedesse? Era a pezzi, ma fece cenno di sì.
La ragazza rimase dov’era, a dondolarsi sui talloni con la bocca spalancata.
«Di là. Di là ce n’è un’altra che non va. Te la porto?»
Come temeva. Lavoro. E nel momento meno indicato. Tuttavia doveva accettarlo, il codice della corporazione era chiaro a riguardo: non si poteva rifiutare una richiesta. Mai, per nessuna ragione al mondo.
«Sì, va bene. E anche qualche cosa da mangiare, se si può» aggiunse, poggiandosi una mano sullo stomaco.
«Ah, vuoi mangiare?»
Altre risatine si sparsero per il locale. Evidentemente erano scene cui la gente del posto era abituata, vista la bravura con cui dissimulavano d’ascoltare, ma che non mancavano di suscitare l’ilarità generale.
«No, voglio strozzarti» pensò esausto mentre forzava il collo ad annuire un’altra volta.
«Emilia?» borbottò una nuova voce.
Questa volta si trattava di un uomo, probabilmente il proprietario a giudicare dal grembiule e dal mestolo appeso alla cintola. Era calvo, con il volto lustro di sudore e arrossato dal vapore delle cucine. Sulla spalla teneva un voluminoso strofinaccio, su cui s’intravedeva l’insegna del locale ricamata a filo blu.
«Piantala di annoiare la gente. Sparisci» ringhiò.
Sorda all’ordine, la ragazza additò la lampada tra le mani di Basilio.
«Lui aggiusta…» iniziò giuliva.
«Lo vedo. E l’ho anche sentito. Sparisci» ripeté, accompagnandosi con un eloquente gesto della mano.
Mentre passava accanto all’oste, Emilia ricevette un violento ceffone sulla nuca, attutito un poco dalla crocchia sfatta, cui non osò replicare né a parole né a gesti.
«La scusi. Le ho detto un milione di volte di non dar fastidio. Ha la testa di una cozza» rimbrottò.
Basilio non era certo d’aver afferrato il senso delle parole, anche se non doveva trattarsi affatto di complimenti.
«Cosa le porto?» riprese l’uomo, passando una mano sullo strofinaccio.
Imbarazzato, Basilio si grattò la guancia ispida. Era talmente stanco da non aver la minima idea di cosa ordinare. D’altra parte, non poteva neppure permettersi di lasciare carta bianca a chi aveva di fronte: non aveva un patrimonio con sé.
«Oh, io… non saprei. Non so cosa si mangi da queste parti. Cosa consiglia?»
Il taverniere fece la smorfia di chi la sapeva lunga e chiese quanta fame avesse. Appena gli raccontò di essere in viaggio dall’alba e d’aver affrontato la discesa alle spalle della cittadina, quello lo zittì e rispose che gli avrebbe portato qualcosa di adatto ad una giornata del genere. E si premurò di porre l’accento che si sarebbe trattato di un piatto che conciliasse il sonno.  
«Aggiusta davvero quella roba?» s’informò, indicando il lume.
«Sì, infatti» confermò, reprimendo a forza uno sbadiglio.
L’oste rimase qualche istante ad osservarlo armeggiare con pinze e minuscoli arnesi, andandosene dopo aver dichiarato che gli avrebbe fatto un buon prezzo sulla cena, se fosse riuscito a sistemare la lampada.
Sollevato, Basilio riprese a lavorare, facendo appello alle ultime forze. Ricollocò i morsetti e diede una rapida controllata al sistema dei cavi nel piede.
Di lì a poco riapparve il taverniere, portando un boccale di birra e una focaccia scura, dal sapore dolciastro. Ingollò a fatica la birra, che per la troppa debolezza non gli parve neppure buona. Il braccio destro gli doleva al punto tale da tremare. Era seccato dall’obbedienza ai propri doveri, nonostante gli procurassero di che vivere. A volte avrebbe preferito dimenticarli, ma il suo maestro era stato molto abile nell’istruirlo: il ricordo delle sue rampogne gli impediva di allontanare i piedi dalla via dell’arte.
Al contrario non lo infastidirono le apparizioni fugaci dell’oste, che lo tenne aggiornato sull’andamento della cucina fino ad annunciare il pasto, continuando a lanciare occhiate soddisfatte al fascio di luce ocra che era tornato a illuminare le travi.



Recensione e punteggio

Dal punto di vista grammaticale e sintattico, potremmo dire che siamo nella norma degli errori di distrazione che è normale riscontrare in un testo tanto lungo. L’unico che mi sento di segnalare come sorprendente è l’ultimo segnato, dove è scomparso un pezzo di discorso…
Comunque, nel suo piccolo, questo primo capitolo lascia chiaramente trasparire una storia successiva, vista la cura con cui sono stati presentati i personaggi e le ambientazioni. Tutto è molto caratterizzato, dalla trama a coloro che si muovono al suo interno: Basilio (che sinceramente all’inizio ho pensato potesse essere un alchimista o un inventore, visto che siamo in ambiente steampunk e il nome sarebbe appropriato…) e il suo belante amico Oro, il primo ligio al dovere fino allo stakanovismo, il secondo totalmente complementare con la sua pigrizia. E anche la cameriera Emilia (che sospetto abbia qualche ritardo, visto come si comporta) fa quasi tenerezza, con il suo comportamento da bambina cresciuta. E l’oste, burbero ma gentile a modo suo, ispira simpatia.
Ho tolto qualche punto per l’attinenza al tema perché il brano che hai scelto è molto energico e vitale, pieno di brio, e in questo capitolo pur trovando il proprio posto e dando un sottofondo per nulla sgradevole, non ho trovato esattamente l’energia e la vitalità che credevo all’inizio.
In ogni caso resta un bell’estratto, e spero di leggere presto il seguito. Ottimo lavoro.

Punteggi

- grammatica, sintassi e ortografia 11/15

- sviluppo della trama 14/15

- caratterizzazione dei personaggi 10/10

- originalità 10/10

- attinenza ai parametri posti 8.5/10

Totale: 53,5
   
 
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