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Autore: Medea00    08/10/2012    12 recensioni
AU, Blaine figlio di aristocratici e Sebastian disegnatore a Montmartre, ambientata a Parigi.
Tanto fluff e diecimila parole in un grande pillolone Seblaine. Enjoy :)
Genere: Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Blaine Anderson, Sebastian Smythe | Coppie: Blaine/Sebastian
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Promptami'
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Okay, allacciate bene le cinture perchè sono quasi diecimila parole di Seblaine. Il prompt mi è stato dato da Ila, aveva l'aria di essere una long, e io ho trovato una via di mezzo. Per così dire.
Spero che vi piaccia quanto sia piaciuta a me mentre la scrivevo. So che ci sono dei momenti che andrebbero approfonditi e altri forse affrettati, ma davvero, all'inizio voleva essere una OS. Ahah. Povera me.
Come al solito, grazie a Ilarina per il banner che è la fine del mondo.
E insomma, prendete delle pause di tanto in tanto, respirate, sorridete e se volete commentate, ma io fossi in voi commenterei solo per mandarmi a cagare visto quanto è lunga. Però vabè. Fate voi.
Un bacione a Ila che ha fangirlizzato come una matta :)








 
 
“Lo sai mamma, sono un po’ emozionato.”
Eleanore Anderson guardò suo figlio con fare apprensivo, facendo cenno alla domestica di alzarsi in piedi e prendere tutte le valige.
“Blaine, tesoro, sarai solo stanco per via del jet lag.”
Certo, farsi diciassette ore di volo Washington – Parigi non era il massimo delle aspettative, ma Blaine non era spossato per quello; sentiva la testa girare, era piuttosto sicuro che non sarebbe riuscito a dormire correttamente per qualche mese, ma allo stesso tempo si sentiva come strano; euforico, quasi. Parigi era il suo sogno da sempre, coltivato attraverso libri e fotografie; adesso che finalmente poteva quasi percepire l’aria frizzantina che aveva dato i Natali ad alcune delle più grandi menti della storia, non riusciva più a contenere se stesso. Si sentì moritificato nel vedere Johanna, la loro domestica di cinquantadue anni, piegarsi per raccogliere quelle pesantissime valigie senza nessun aiuto.
“Lasci”, sussurrò con un sorriso dolce, afferrando quelle più grosse e pesanti. La donna fece per insistere, ma lui scosse la testa con decisione: “Altrimenti a che servono i giovani uomini?”
“Per l’amor del cielo, Blaine. Comportati come un Anderson.”
Quella frase, quasi, gli fece perdere del tutto il buon umore; a volte detestava essere un membro della famiglia Anderson, di nobili origini, con discendenze patriottiche e un enorme patrimonio da sperperare. A volte, semplicemente, avrebbe voluto essere il Blaine che poteva saltellare per casa e infilarsi un basco da attore per viaggiare in città.
Aiutò Johanna a disfare tutti i bagagli nella loro spaziosissima villa a dieci chilometri dalla capitale francese, cominciando quasi a pentirsi dell’idea di passare lì tutta l’estate; all’inizio gli era sembrato bello, rifugiarsi all’estero con i suoi genitori, senza soldi o impegni o cene di gala a mettersi in mezzo a loro. Poi, sarebbe stato un ottimo modo per riacquistare quella sorta di intimità perduta da quando aveva detto loro di essere gay; era successo per caso, ad una festa di qualche senatore famoso, a cui lui, francamente, importava poco o niente.
I genitori avevano cercato per tutta la vita di accomodarlo con Josephine, la figlia maggiore, fino a quando Blaine non scoppiò in preda ad una crisi di nervi esclamando che no, non era per niente interessato a quella ragazza, in realtà non era interessato a nessuna ragazza in generale.
Diversamente da quanto si fosse aspettato, la presero piuttosto bene. Spostarono le loro attenzioni sul figlio minore, il chè lo fece sembrare quasi ironico.
“Blaine, ti prego, devi imparare le buone maniere.” Eleanore lo guardò con apprensione, congiungendo le braccia in una ferma stretta; era una donna compita e seria, aristocratica da generazioni. Blaine aveva ereditato da lei i capelli scuri e quell’alone affascinante che li rendeva semplicemente irresistibili al resto del mondo; eppure, a parte quello, il ragazzo pensava che avesse ben poco in comune con lei, e ancora meno con suo padre.
“Ma io conosco le buone maniere, mamma”, cercò di ribattere con gentilezza, ma la donna in risposta risultò ancora più stizzita mentre sentenziava: “Se così fosse non ti permetteresti di rispondere così a tua madre. Adesso fila a cambiarti, tra poco avremo una riunione con degli amici di tuo padre, non vorrai certo presentarti conciato in questo modo.”
Quale modo? Aveva un paio di pantaloni color cachi arrotolati fino alle caviglie, una camicia leggera, a mezze maniche, sovrastata da un gilet nero e accompagnata da un cappello che era riuscito a comprare all’aeroporto quando i genitori erano troppo presi a litigare con la sicurezza francese.
Forse non era il vestito più elegante del mondo, ma che diavolo, aveva diciotto anni, era a Parigi, la capitale della libertà! Per niente al mondo si sarebbe fatto inamidare per uno stupidissimo ricevimento.
“Devo proprio venire?”
Quella domanda fu tanto inopportuna quanto maleducata.
“Per l’amor del cielo, Blaine, farò finta di non avere sentito. Adesso fila in camera tua.”
Non era giusto. Questo pensava il giovane Anderson, camminando a passi pesanti e ignorando completamente le strilla di sua madre che lo avvisavano: “Un gentiluomo non batte i piedi per terra!”
Beh, allora non era un gentiluomo. Non voleva esserlo.
Attraversò all’incirca una ventina di stanze prima di trovare la sua camera, una sorta di salone antico munito di tutti i confort, televisore al plasma, bagno privato, pianoforte del Novecento e libreria stracolma di tutti i libri possibili, da John Keats al Mein Kampf di Hitler.
Non si stupì davvero nel trovare tutte quelle cose; in realtà, rimase più sorpreso nel vedere Johanna sistemare un paio di lenzuola, visibilmente imbarazzata e intimidita. Era la domestica di casa loro, ma poteva benissimo essere chiamata anche tata, o confidente, o l’unica vera amica di Blaine; era da molti anni che ormai si confidava quando ne aveva bisogno. Come quando aveva dato il suo primo bacio a un ragazzo, o quando la donna aveva rivelato lui quanto desiderasse vedere Parigi. Da lì, non era stato difficile convincere i genitori a portarla con loro, con la scusa che un aiuto in casa sarebbe sempre stato utile.
“Nana”, sussurrò Blaine, affettuosamente. La chiamava così da sempre, sia perchè fosse il suo soprannome, sia perchè la sua favola preferita era da sempre stata Peter Pan.
“Nana, non ti preoccupare, posso farlo anche io.”
Si avvicinò per darle una mano, ma la donna si ritrasse con una certa titubanza: “Devi lasciarmi fare il mio lavoro, signorino Anderson. Sono pagata per questo.”
“Beh sarò ben lieto di aiutarla.” Scherzò lui, sentendo il suo nome formale; il suo sorriso, però, si fece un po’ più cupo, attraversato da dei pensieri amari: “Dopotutto, non è che abbia tanto altro da fare, qui.”
“Hai un bel giardino. Potresti fare una passeggiata.”
“Ma Nana, siamo a Parigi. O almeno, vicino a Parigi. Non mi interessa vedere una massa di siepi e aiuole; voglio le strade, la musica, l’odore di pane fresco...”
Si interruppe bruscamente, mordendosi un labbro come frustrato: non poteva permettersi di fare certi discorsi. Johanna, però, sembrò un po’ più addolcita: “Blaine, non puoi uscire di casa da solo, lo sai bene. Tua madre non approverà mai.”
“Sì, lo so.”
Non senza una scorta, o dei rampolli figli di papà intenzionati ad ammaliarlo.
“Oh, Johanna.” Non si era nemmeno accorto di quanto i suoi occhi avessero cominciato a pungere, in modo quasi infantile: “E’ chiedere troppo avere una vita normale? No, mi basterebbe una giornata. Una giornata in cui sono solo Blaine.”
La donna restò in silenzio per lungo tempo, tanto che Blaine pensò quasi di aver oltrepassato una sorta di confine pericoloso, fino a quando non la sentì dire: “Tutti devono avere il diritto di essere chi vogliono.”
“Vorrei solo una giornata a Parigi”, sussurrò lui, la voce flebile, le mani strette tra di loro.
Adesso, sembrava davvero un ragazzino di diciotto anni in preda ai suoi sogni; e Johanna era una donna troppo buona, per dirgli di no.
“... Facciamo così.”
E Blaine aveva già capito, dal suo tono di voce un po’ divertito e un po’ affettuoso, di aver vinto.
“Io devo andare in centro a fare la spesa e altre commissioni. Potresti convincere tua madre che le mie povere mani hanno bisogno di un paio di braccia in più.”
Blaine l’abbracciò senza ulteriore esitazione, stringendola forte, provando così tanta riconoscenza che quasi non riuscì ad esprimerla.
“Grazie Nana, grazie, davvero.”
“Tu pensa a goderti il tuo giorno di libertà.”
Sì, pensò dentro di sè, improvvisamente felice, euforico, vivo, come non lo era mai stato prima d’allora.
Non poteva ancora sapere che la libertà fosse dotata di un nome, di un volto, di un paio di occhi verdi, che lo avrebbero profondamente segnato.
 
 
 
Parigi era esattamente come l’aveva sognata; forse, anche meglio.
Le rive della Senna erano illuminate da luci e negozi, l’aria frizzantina e leggermente salmastra era addolcita dal profumo delle boulangerie, accompagnato dalle chiacchiere delle persone, dalla felicità della gente.
Johanne lo aveva salutato una ventina di minuti prima, non c’era stato nemmeno bisogno di chiedergli dove stesse andando: era ovvio che la meta predestinata fosse Montmartre. La patria degli artisti; il luogo in cui finalmente si sarebbe sentito accettato, in cui davvero sarebbe stato lui.
Aveva poco tempo per lasciarsi cullare dagli spettacoli degli artisti di strada o dalla musica dei violinisti ambulanti, così quando scese dalla metro cominciò a correre con tutto il fiato che aveva in corpo, con un sorriso raggiante sul volto, il cuore pieno di contentezza.
Ed ecco: strade antiche, attori che recitavano Victor Hugo, Le Mouline Rouge. Quello era il suo posto.
Restò per una buona mezz’oretta ad ascoltare un paio di ragazze decantare qualche poesia che lui non seppe riconoscere, sollevato nel vedere quanti ragazzi gay e sicuri di se stessi si abbracciavano e baciavano alla luce del sole, senza essere distratti da altri; per un attimo, il suo cuore perse un battito desiderando di trovarsi al posto di uno di loro, ma poi, immediatamente si rese conto che qualsiasi aristocratico avrebbe dovuto frequentare non si sarebbe mai sognato di venire in un posto simile, e così anche quella piccola fantasia andò in fumo.
Con un pizzico di inglese e molti gesti alquanto goffi riuscì a racimolare un pezzo di baguette, accompagnato da una bottiglietta di tè e un piccolo frasario in cui erano contenuti alcuni aforismi francesi. Chiacchierò armoniosamente con una coppia di giovani, anche loro stranieri, italiani, così dissero. Riuscì a farsi capire a stenti e a ottenere un imbarazzantissimo invito a suonare qualcosa insieme a loro.
“No, non posso”, cercò di dire, con il suo inglese un po’ biascicato: in quel momento si pentì di non aver comprato uno di quei corsi di francese veloce acquistabili in edicola.
I ragazzi fecero finta di capire, oppure non capirono davvero, fatto sta che lo trascinarono al centro di quella piccola piazzetta affollata da persone di tutti i generi e cominciarono a suonare con un cimballo e una chitarra, mentre a Blaine venne dato l’ordine di cantare.
“Cantare cosa?! Non so cantare in francese!”
I ragazzi gli fecero cenno di continuare, e lui, un po’ per imbarazzo, un po’ trascinato dalla cresta dell’onda, improvvisò l’unica canzone francese che conoscesse veramente, quella che gli cantò una volta Johanna quando gli raccontava della sua passione per la Francia.
A quanto pareva, però, gli altri ragazzi si lasciarono facilmente affascinare dai suoi modi stranieri, o dalla sua voce limpida e soave; ben presto la piazza divenne un coro in festa, e lui si trovava al centro dell’attenzione, ballando con giovani e ragazze, ridendo assieme a persone di cui non sapeva nemmeno il nome, ma che sembravano conoscerlo più di quanto lo conoscevano i suoi genitori in diciotto anni di vita.
Montmartre era così, era il paradiso dei senza nome e della strada, e lui, per un breve momento, si sentì a casa.
“Arrêté, s'il vous plaît.”
Quella voce sottile e, allo stesso tempo, incredibilmente sensuale, lo catturò come un brivido d’inverno, quando i suoi occhi ambrati si voltarono per incrociare quelli verdi e splendenti di un altro ragazzo.
“Ne déplacez pas une étape”, disse di nuovo lui, e Blaine era quasi sicuro di essere vittima di qualche allucinazione; perchè forse poteva dare una spiegazione valida alla sua totale assenza di comprensione nelle parole di quel ragazzo, ma di certo non riusciva a capire come mai il suo corpo fosse pervaso da una sorta di vortice interiore, che lo stava facendo letteralmente implodere.
Intuì che gli avesse chiesto di stare fermo, proprio nel momento in cui ricevette un occhiolino disarmante che lo fece quasi trasalire. Quel ragazzo, di aspetto, esattamente come tutti gli altri presenti, era seduto sul muretto a un angolo della piazza, giusto a pochi metri da lui; il suo fisico era alto, asciutto, con una gamba appoggiata liberamente sulla pietra e l’altra che aiutava a tenere fermo un grande foglio da disegno, su cui stava posando gli occhi; saettavano velocemente dalla tavola a lui, e in quel momento Blaine era quasi certo di stare avendo un attacco cardiaco.
“Non... non conosco il francese, non ti capisco.” Tentò di dire; in realtà, qualsiasi scusa era valida affinchè sentisse di nuovo quella voce così particolare, che lo aveva scosso in meno di un attimo.
Di certo, non si aspettava che quel ragazzo alzasse la testa verso di lui, parlandogli in un perfetto americano: “Sì, l’avevo capito.”
Se possibile, le sue guance si infiammarono ancora di più, e quello sembrò divertire molto il misterioso artista.
“Tu... sei americano?”
Lo vide stringersi nelle spalle, non distogliendo gli occhi dal foglio, ma parlando con un tono sommesso: “Mio padre.”
Evidentemente, non era un argomento di cui si poteva parlare con uno sconosciuto; sentendosi ancora più mortificato, Blaine spostò il peso da un piede all’altro, passandosi una mano sul collo.
“Io... cos-mi avevi fatto una domanda, prima?”
“Ti avevo chiesto di stare fermo.”
“... Oh.”
Osservò il suo corpo, esitando per qualche secondo prima di ammettere, sincero: “Allora mi sa che non mi è riuscito molto bene.”
Stava quasi per ringraziarlo, chiedergli scusa e scappare via, ma fu improvvisamente bloccato dal suono di quella splendida risata risata che arrivò alle sue orecchie un attimo dopo.
“Non ti preoccupare. So fare ritratti anche se il soggetto non è molto propenso a collaborare.”
Oh. Quindi era quello che gli stava facendo? Un... ritratto? A lui? Aprì la bocca come sotto shock, per poi richiuderla, una volta constatato di non saper esattamente cosa dire; nessuno gli aveva mai fatto un ritratto prima d’allora. Nessuno lo aveva mai ritenuto degno di essere immortalato; inoltre, il modo con cui lo stava osservando adesso quell’artista era tutto fuorchè professionale. Era come se i suoi occhi verdi fossero diventati più intensi, a contatto con i suoi; il suo corpo fremette all’idea di vederli da più vicino, e no, Blaine Anderson, che razza di pensieri stai facendo? Non lo conosci nemmeno questo ragazzo. Anche se lui sembra abbastanza intenzionato a scoparti con lo sguardo. Quella sensazione lo faceva sentire imbarazzato e lusingato allo stesso tempo.
“E’ la prima volta che sei qui, vero?”
Blaine annuì piano, costringendo a schiarirsi la voce per via della gola troppo secca.
“E cosa ti porta a Parigi? Sei in vacanza?”
Sì, sono stato segregato in una villa da due miliardi di euro da dei genitori che praticamente non approvano niente e nessuno presente in questa piazza.
“Sono... in erasmus”, mormorò subito, senza nemmeno pensarci. Voleva solo evitare di parlare della sua famiglia; ma poi, un’altra piccola considerazione piombò nella sua mente, illuminandosi come un faro nella notte: lui quel giorno, in quel posto, poteva essere chiunque.
“Erasmus?”
“Sì, insomma, studio all’università.”
“Ma bene. Un intellettuale. Studente di cosa, esattamente?”
Giusto. Cosa poteva studiare un ragazzo che sapeva poco o niente del mondo, a parte quello dettato dalla burocrazia dell’aristocrazia, e dalla politica che la circondava?
“Giurisprudenza.”
Per un attimo non capì bene come mai quella risposta lo divertì così tanto, ma poi, tutto diventò più chiaro nel momento in cui lo sentì commentare: “Gli avvocati non sono visti di buon occhio, qui.”
“Ma io non sono ancora un avvocato.”
Ricevette in pieno una sua occhiata affascinata: aveva dato una bella risposta.
“E quindi, che nome devo dare a questo ritratto?”
Fece per pensarci su qualche secondo, osservando intensamente la tavola bianca stretta tra le gambe del ragazzo, le sue dita lunghe e affusolate che stringevano un carboncino.
“Blaine.”
Sentì ripetere il suo nome, quasi assaporandolo, come se fosse una cosa incredibilmente dolce.
“Solo Blaine?”
“... Solo Blaine.” Rispose, e si sentì sollevato nel momento in cui l’altro ragazzo rispose: “E allora io sono solo Sebastian.”
Sebastian. Pensò subito che gli si addicesse proprio, quel nome: aveva qualcosa di libero, vivo, che lo rispecchiava completamente.
“Un attimo solo”, lo sentì aggiungere con un piccolo ghigno, mentre la sua mano tracciava ampi cerchi sul foglio nascosto, “Ho quasi finito, e poi sarai libero.”
Ma io sono già libero.
“Ti capita spesso di fare ritratti a giovani studenti, Sebastian?”
“Non molto, in effetti”, ammise lui con un ghigno più ampio, per poi alzarsi in piedi con il foglio e avvicinarsi con passo lento e calcolato; adesso che era in piedi, Blaine riuscì a notare meglio la figura esile, i muscoli delle braccia, l’incavo così eccitante del suo collo.
Quando lo vide sporgersi ancora di più, sfiorargli l’orecchio con le labbra, sentì appena il suo respiro caldo lambirgli la pelle arrossata, così come la sua voce bassa, invitante, mentre sussurrava: “Je les faisseulement pourles garçons  sexy.”
 
 
Non era sicuro di aver capito bene quella frase. Una parte di sè continuava a domandarsi se avesse recepito bene la parola sexy, cercando di decidere se potesse sciogliersi a terra oppure no.
 
Eppure, nel momento in cui aprì il suo ritratto una volta che Sebastian lo aveva salutato, non ebbe più dubbi su come interpretare le sue azioni; si ritrovò inevitabilmente ad arrossire rischiando cinque o sei diversi attacchi di panico.
Sebastian aveva fatto un ritratto di lui completamente nudo.
 
 
 
 
Venire a Montmartre per Blaine era diventata una sorta di rituale.
All’inizio lo faceva per accompagnare Nana, oppure per stare lontano dai genitori; però, poi, la sua governante gli rivolgeva sempre un’occhiata eloquente e lui capiva che poteva andare in giro da solo, per poi incontrarsi a sera inoltrata.
E così lui tornava di nuovo lì, e cantava, rideva, si lasciava sempre coinvolgere dall’aspettativa frizzante e briosa del quartiere.
Sebastian era sempre lì. Alcune volte, si soffermava a guardarlo a lungo, per ore, con il suo blocco da disegni e la mano che si muoveva misteriosa; altre volte, invece, sembrava ignorarlo del tutto. Beveva con dei suoi amici, fumava una sigaretta. Era come se il suo interesse verso di Blaine fosse occasionale e scostante; lui, questo, non lo capiva. Perchè invece si sentiva affascinato sempre di più, e quindi finiva sempre per avvicinarsi a lui, sorridergli. Lasciava che Sebastian gli offrisse una sigaretta, era di una marca francese, poco conosciuta; il sapore del tabacco era forte e pungente. Blaine non fumava, in realtà se lo avessero scoperto i suoi genitori sarebbe finito in grossi guai. Ma forse, era proprio per quel motivo che si ritrovava sempre a tossire dopo aver aspirato intensamente, sotto lo sguardo divertito di Sebastian che, ovviamente, non si perdeva nemmeno un secondo di quel momento.
Il più delle volte parlavano. O meglio, Blaine gli raccontava varie cose, tra aneddoti realmente accaduti, e altri puramente inventati. Per Blaine era diventata una specie di gara interiore, scoprire gli argomenti che sollecitavano particolarmente la sua attenzione.
Sebastian non raccontava molto di sè. Fossero stati altri tempi, sarebbe stata la perfetta descrizione di un bohèmien: abbigliamento particolare, aria spensierata. Viveva da solo in un appartamento poco distante dal quartiere, e i suoi amici erano tutti coloro che riempivano i suoi disegni.
Non parlava mai della sua famiglia, ma a Blaine stava bene così, perchè nemmeno lui parlava mai della sua.
Quando un discorso sembrava essere particolarmente divertente, sollevava leggermente un angolo della bocca come per fare un sorriso. Quando Blaine parlava di studio, o di lavoro, o di università, distoglieva sempre gli occhi per ritornare a concentrarsi sul foglio e finire il disegno.
Blaine aveva capito grossomodo il suo stile di disegno, grazie alle poche volte in cui riusciva ad intravedere i disegni allungando un po’ il collo: spesso erano paesaggi. Quando era particolarmente fortunato riusciva a individuare qualche luogo caratteristico di Parigi.
Di sera, invece, si concentrava sui ritratti. Ma non erano ritratti di persone realmente esistenti in piazza, nè tantomeno completi: erano ritagli di occhi, mani, labbra. Si assomigliavano tutti e, allo stesso tempo, sembravano godere di un carattere proprio.
 “Perché mi fissi sempre mentre sto fumando?”
Non si era aspettato di fargli veramente una domanda simile, ma non riuscì proprio a frenare la lingua: Sebastian gli rivolse un’occhiata enigmatica, la sua mano si fermò immediatamente restando appoggiata sul foglio.
“E’... è vero.” Ribattè Blaine, cercando in tutti i modi di contenere il rossore delle sue guance. Si sentiva incredibilmente stupido, in quel momento. Non si stava affatto comportando come un ragazzino alla sua prima cotta, vero? Perchè Sebastian invece aveva tutta l’aria di essere un ragazzo... beh, navigato, su queste cose. Invece dal canto suo poteva vantare di un paio di relazioni durate rispettivamente cinque e otto giorni e un centinaio di pretendenti femmine scelte dai suoi genitori.
Okay, forse il suo comportamento, in effetti, era un po’ eccessivo. Ma non se lo era sognato: Sebastian davvero lo fissava quando fumava.
“Va bene fa finta che non abbia detto niente, lascia stare.” Borbottò alzandosi dal muretto e afferrando la tracolla per fuggire via il prima possibile. Forse il fumo gli aveva dato alla testa; che diavolo gli era passato in mente, dire una cosa del genere a Sebastian? A malapena si conoscevano e poi, insomma, non avrebbe mai-
“E’ per via delle tue labbra.”
Quella risposta interruppe bruscamente i suoi pensieri, e Blaine fu costretto a bloccarsi di colpo, il fiato trattenuto, le orecchie ben tese verso la voce dietro di lui.
“Hai delle labbra incredibilmente sensuali, e quando fumi sei assolutamente eccitante.”
Aveva perso il conto dei battiti del suo cuore in un secondo.
“Ci... ci vediamo domani.”
“Ci conto.” Rispose l’artista, e con quelle due parole impresse nella mente Blaine camminò verso il posto di incontro con Nana come se stesse lievitando.
 
 
 
“Allora quando ti deciderai a dirmi come si chiama?”
La metro di Parigi era piuttosto vuota, considerando gli standard. Blaine teneva in mano una baguette appena sfornata respirandone il profumo dolce e invitante, e Nana continuava a guardare dal finestrino con un piccolo sorriso stampato sul volto paffutello.
Il ragazzo aveva a malapena sentito la sua domanda, assorto com’era dai suoi pensieri, in gran parte incentrati proprio sul fulcro della questione.
“Blaine? Blaine!”
“Cosa? Oh scusa Nana, non ti avevo proprio sentito...”
“Ho notato.” Commentò con una punta di ironia, e subito dopo si fece più vicino al ragazzo mettendogli una mano sulla spalla: “Mi ricordi tanto me, alla tua età. Dimmi un po’, è francese?”
“C-Chi?”
“Ma come chi, il ragazzo dal quale scappi tutti i giorni, ovviamente.”
“...Ah.”
Beh, doveva aspettarselo: poteva forse ingannare i suoi genitori, ma non di certo lei.
Così, prese un bel respiro, si adagiò meglio sul sedile della metro e cominciò a raccontare di Sebastian, a parlare dei suoi occhi verdi, di come sembrano illuminati alla luce dei lampioni di Montmartre, a come puntualmente se ne esce con delle frasi assurde e imbarazzanti, ma che lo fanno stare così bene...
“Oh Blaine.” Nana si sciolse di fronte alla sua espressione incantata, e senza neanche pensare dichiarò: “Tu hai proprio una bella cotta.”
“...Già.”
Ma il loro piccolo momento di intimità duro poco: la metro annunciò la loro fermata, Nana prese Blaine per un braccio, e si avvicinava sempre più in fretta il momento in cui sarebbero dovuti tornare alla loro casa, alla loro vita fatta di silenzi, rifiuti, sacrifici.
Una vita in cui, sicuramente, un dialogo del genere non sarebbe accettato.
“I tuoi genitori non approveranno, lo sai.”
Blaine strinse con più forza la sua tracolla, deglutendo aria fredda.
“E’-è una cosa da niente, Nana. E’ solo una cotta. Non lo devono sapere.”
“Non glielo dirò. Ma stai bene attento a quello che fai, Blaine.”
“Ma certo”, rispose lui, perchè lui era sempre stato il ragazzo serio e responsabile che non dava mai fastidi ai loro genitori. Che accettava tutto con educazione, che veniva ben vestito alle cene, che intratteneva gli ospiti e sorrideva alle loro figlie.
Non era il tipo di ragazzo che si innamorava di artisti incontrati per caso.
E’ solo una cotta, continuava a ripetere tra sè e sè, cercando in tutti i modi di scacciare i bei pensieri legati a quelle giornate.
Mi passerà.
 
 
 
Ma a volte si tende a sottovalutare l’intensità di ciò che si desidera veramente, specie quando ci è negato.
Blaine per una settimana non mise più piede a Montmartre. E gli sembrò una settimana molto vuota.
I suoi genitori, paradossalmente, lo assillarono anche più del solito; continuavano a dirgli come comportarsi e cosa dire. Lui continuava a sentirsi non accettato.
E sentiva davvero la mancanza di quel posto un po’ speciale in cui si fingeva uno studente squattrinato in cerca di spazi, dove le persone lo salutavano, gli sorridevano in modo sincero, erano seriamente interessati a sapere come fosse andata la sua giornata.
Beh, non c’era molto da dire: si svegliava la mattina presto. Faceva colazione. Si perdeva in lunghe passeggiate con i loro cani, e poi tornava a casa per cambiarsi ed essere pronto per il pranzo; ascoltava con poca intenzione i discorsi politici di suo padre con i loro ospiti, e rispondeva quando interpellato.
Solo nei momenti in cui aveva davvero tempo per se stesso gli era concesso di leggere: spesso, si perdeva in romanzi immaginando di essere uno dei protagonisti e di vivere avventure mozzafiato. A volte gli veniva da piangere, accarezzando quelle pagine, ma poi si tratteneva perchè non gli piaceva la carta stropicciata dalle lacrime. Era come un marchio indelebile della sua debolezza.
 
 
Poi arrivò il giorno in cui si ritrovò nel quartiere di Montmartre contro la sua volontà.
Era stata opera di Nana: gli aveva detto, “facciamoci un giro, distraiti”, e poi si erano persi interpretando male la grande e complicata cartina. Oppure, quella donna era più scaltra di quanto avesse immaginato.
“Credo proprio che dovremmo prendere un taxi”, mormorò lei, guardandosi intorno per quelle strade confuse e strette con un’aria vagamente preoccupata.
Blaine non si sentiva affatto in quel modo: era felice. Quel profumo familiare di fuoco e sigarette gli riempì i polmoni come se respirasse veramente dopo molto tempo; era strano ritrovarsi in quel posto dopo una settimana, perchè era come essere tornati a casa dopo un viaggio tortuoso.
Non era normale essere così affezionati a un luogo; ma poi si corresse: gli era mancata la sensazione. Gli era mancato il Blaine studente in erasmus che saltava da un banco all’altro del mercato seguito da altri ragazzi.
“Blaine? C’è un ragazzo che ti sta fissando.”
Perchè era ovvio che Sebastian fosse lì, su quel muretto, con il blocco in mano e lo sguardo fermo. Era ovvio, ma lui sentì comunque il suo cuore pulsare come per avvertirlo di uno svenimento.
“Sono... io...”
“Blaine.”
Nana si posizionò di fronte a lui, guardandolo per due secondi prima di dargli un piccolo bacio sulla fronte.
“Non sarai giovane per sempre. Non puoi sempre pensare con il cervello. Ogni tanto, devi seguire anche il cuore.”
Improvvisamente, quelle parole assunsero una melodia che non avrebbe mai creduto di sentire, e che fecero nascere qualcosa di inaspettato dentro ai suoi occhi.
“Ma Nana... tu mi hai detto...”
“Lo so cosa ti ho detto. Te l’ho dovuto dire perchè sei il figlio dei miei datori di lavoro.”
“Oh”, commentò con voce lieve, facendo una piccola smorfia. Ma poi, rialzò di nuovo lo sguardo: “E allora... perchè ora... perchè mi hai portato qui?”
Nana gli diede la risposta che voleva ricevere, prima di allontanarsi con un sorriso e un’aria felice.
“Perchè ti considero come un figlio. E ogni tanto anche tu hai diritto ad essere giovane.”
Sebastian era rimasto al suo stesso posto senza battere ciglio.
Fu questo che, almeno un poco, scosse Blaine: si avvicinò a lui, cauto, le mani strette tra di loro mentre lui sembrava completamente preso da un disegno.
“...Ciao.” Sussurrò, e la sua voce apparve timida e insicura, mentre quella del ragazzo rispose con una decisione quasi disarmante: “Non ti vedevo da un po’, Blaine. Pensavo fossi ripartito.”
“Ripartito?”
“Sì.” Sebastian gli rivolse un’occhiata: “Per l’Erasmus, no?”
“Oh. Sì. Giusto.” Idiota. “No, io... resto per tutta l’estate.”
“Ottimo.”
Sperò che non fosse sembrato entusiasta soltanto nella sua immaginazione. Così, trasportato da quel rinnovato coraggio, si avvicinò ancora di più, e da quella distanza riuscì a scorgere i piccoli nei del suo volto, così come riflessi biondi dei suoi capelli. Il suo profumo forte, inconfondibile.
E poi, con grande sorpresa, lo sentì dire: “Carina tua madre.”
Certo. Era normale che avesse frainteso, erano così uniti lui e Nana. Ma poi, voleva veramente contraddirlo?
“...Non è mia madre.”
Perchè poteva mentire su tante cose, ma non poteva mentire su di lei; non se lo meritava.
Sebastian, in quel momento, sembrò pensare ad una cosa che non rivelò ad alta voce. Sembrava pensieroso; Blaine si sentiva letteralmente sciogliere, sotto quello sguardo, mentre ogni parte del suo corpo fremeva per avvicinarsi sempre di più.
“Che... che stai disegnando?”
Voleva soltanto distogliere l’attenzione da tutto quello che stava provando, dai discorsi di Nana, dalle labbra di Sebastian, dal tono caldo della sua voce.
Ma poi, lo vide alzare la testa verso di lui; dei movimenti lenti, misurati.
“Lo vuoi veramente sapere?”
Quelle parole uscirono appena sussurrate, ma il loro respirò lambì le sue guance arrossate, i suoi occhi lucidi.
“Voglio sempre sapere cosa disegni”, rispose lui. Ancora non riusciva a credere di averlo detto ad alta voce. Ma il suo corpo reagì automaticamente, facendo un altro passo in avanti, ad un centimetro dal muretto e a un paio dalle ginocchia di Sebastian, adagiate contro di quello.
“E perchè?”
Blaine non distolse lo sguardo, di fronte a quella domanda. O ora o mai più, diceva dentro di sè. Non aveva più intenzione di vivere una vita a metà. Voleva essere giovane, libero. Libero anche di amare.
“Perchè mi piaci.”
Sebastian non reagì nel modo in cui si era immaginato. Semplicemente, lo fissò per molto tempo; sorrise. E poi, posando il blocco da un lato, lasciando le mani libere di afferrare la sua vita e avvicinarlo a sè, sussurrò contro le sue labbra appena socchiuse: “Stavo giusto disegnando questo.”
E poi lo baciò, in un modo che nessun disegno poteva rappresentare.
Le loro lingue si incontrarono dolci e tremanti, come se non riuscissero a comprendere tutto ciò che stava succedendo, come se fosse un sogno, o un’allucinazione, e nessuno dei due aveva voglia di fermarsi. Blaine passò le mani trai capelli di Sebastian, inclinò la testa da un lato e si lasciò scappare un piccolo sospiro, quando le sue labbra vennero morse con malizia.
Si staccarono solo quando la sera era scesa silenziosa e il lampione accanto a loro aveva cominciato ad accendersi. Ripresero a respirare regolarmente, Sebastian restò per qualche secondo con gli occhi chiusi, come se dovesse ancora assaporare il sapore di Blaine.
“Mi piace questo disegno.”
La piccola risata dell’artista gli fece venire voglia di ricominciare tutto daccapo.
E così, ancora una volta, seguì il suo istinto.
 
 
 
Era incredibile quanto l’estate scorresse veloce.
Un momento prima sembrava come ferma su se stessa, come se il mondo di Blaine scorresse a rallentatore davanti ai suoi occhi, in bianco e nero.
Un momento dopo, semplicemente, Blaine viveva. Anche se per poche ore al giorno. Quel pochissimo tempo che gli veniva concesso per uscire da quella gabbia di cristallo e correre da Sebastian, per buttarsi tra le sue braccia, respirare i suoi baci. Sì, perchè stare con Sebastian era facile come respirare.
Camminavano per Parigi assaporandone tutti i colori; si baciavano sulle rive della Senna, e poi Sebastian si fermava sempre a fare qualche disegno o contemplare qualcosa che riusciva a vedere solo lui.
E questo accadeva sempre, sia con i paesaggi, che con Blaine.
A volte, dopo aver fatto l’amore nel suo appartamento vicino a Le Pigalle, Sebastian disegnava.
All’inizio restava semplicemente sdraiato accanto a Blaine accarezzandogli i riccioli scompigliati, o lasciandosi cullare dal suo respiro dolce e leggermente affannato. Blaine lo abbracciava stretto, adorava sentire il petto sotto di lui muoversi avanti e indietro, finiva sempre per addormentarsi.
Così quando tornava, la volta dopo, trovava un disegno in più in quella camera fatta di fogli.
Le pareti si intravedevano a malapena sotto ai ponti, alle strade, ai fiori e alle chiese, ma soprattutto, c’era Blaine.
I suoi occhi. Le sue labbra incurvate in un timido sorriso. Le loro mani intrecciate sulle lenzuola disegnate.
Sebastian diceva che Blaine lo ispirava; in realtà, non riusciva proprio a capire cosa facesse per scaturire delle cose tanto belle, ma dopo qualche settimana di insistenza e nessuna risposta, lo aveva semplicemente accettato con imbarazzo e anche un po’ di soddisfazione.
C’erano delle volte in cui stavano semplicemente insieme, condividendo la loro presenza in silenzio. Sebastian fumava una sigaretta appoggiato al balcone ottocentesco e malridotto, e Blaine leggeva uno dei suoi libri preferiti, non preoccupandosi di nascondere lacrime, risate o sospiri.
Una volta, Sebastian gli chiese come mai leggesse solo romanzi invece di portarsi dietro uno dei suoi fermaporte da giurisprudenza.
Quella era stata la prima volta in cui Blaine desiderò raccontargli la verità, ma non lo fece; gli rispose che studiava a casa, e che per quel motivo andava via presto ogni volta. E non importava quante volte cercasse di convincerlo, o in che modo: Blaine alle sette in punto usciva da quella porta assaporando ancora il sapore di Sebastian sulle sue labbra.
Perchè ogni sera, durante le lunghe e silenziose cene di famiglia, i genitori gli chiedevano dove fosse stato. Perchè fosse conciato come uno zingaro. Perchè non rispondeva e, alla fine, perchè si ostinava a comportarsi in quel modo.
A Blaine non importava. Tutte le volte si alzava da tavola, avendo mangiato a malapena un contorno, e si chiudeva nella stanza in cui poteva pensare a Sebastian senza sentirsi costantemente pugnalato al cuore.
 
 
“Hai mai pensato di venderli?”
Sebastian scostò la testa quanto bastava per guardare Blaine negli occhi, ancora un po’ scuri per la lussuria non del tutto scomparsa. Erano abbracciati nel suo letto e dalla finestra proveniva una dolce melodia al violino. Blaine non lo stava guardando, però, sembrava piuttosto concentrato ad ammirare ogni singolo dipinto appeso intorno a loro.
“Non mi interessa fare soldi o carriera.”
“Ma non vuoi... non so, hai mai pensato di avere un talento?”
Sebastian scoppiò in una risata leggera, una di quelle che aveva sentito quella frase così tante volte da aver perso il conto. Lo baciò delicatamente sulla fronte, gli occhi appena socchiusi.
“Tu perchè vuoi fare l’avvocato?”
Blaine, a quella domanda, restò in silenzio. Si strinse di più a Sebastian, senza avere il coraggio di guardarlo; a pochi metri, vedeva il ritratto dei suoi occhi ambrati, e per un attimo si chiese se prima o poi, in mezzo a quei fogli, avrebbe trovato anche quello della sua maschera.
“...Non lo so.” Ammise. Non ci aveva veramente pensato. Di solito, erano i suoi genitori a scegliere per lui.
“Non lo sai? Ecco perchè non studi mai”, lo prese in giro Sebastian, ottenendo in risposta una piccola gomitata sul fianco.
“Comunque dicevo sul serio, sai.” Blaine fece leva sui gomiti per alzarsi leggermente e avvicinarsi al viso di Sebastian, contemplando i suoi occhi smeraldini così sinceri, espressivi, pieni di affetto.
“Sei veramente bravo.”
Per la prima volta, gli sembrò che Sebastian fosse imbarazzato per qualcosa. Di solito era lui ad arrossire, per un commento piuttosto piccante, o un gesto plateale di fronte a tutta Parigi. Invece, adesso il ragazzo sviò lo sguardo mordendosi appena il labbro inferiore, e Blaine ne approfittò per lasciargli un tenero bacio.
Ma quella dolcezza durò poco; qualche secondo dopo, Sebastian lo spinse contro le lenzuola mettendosi sopra di lui, approfondendo quel contatto cominciando a far vagare la lingua sul mento e sul collo, mentre le coperte si aggrovigliavano ancora di più trai loro corpi già eccitati.
“Se questo era un modo per adularmi e portarmi a letto, hai colto nel segno.” Mormorò con un sorriso divertito, ma prima ancora che Blaine potesse ridacchiare o rispondere, Sebastian aveva già cominciato a occuparsi della sua eccitazione, e così non riuscì più a formulare nessun concetto sensato.
 
 
 
La svolta decisiva del loro bizzarro e bellissimo rapporto arrivò di domenica. Blaine pensò che ci fossero ospiti particolari, visto il modo con cui Nana stava facendo su e giù dalla cucina, sistemando ogni minimo particolare della tavola; i suoi genitori, sempre impeccabili nei loro completi firmati, sorridevano verso di lui come per rincuorarlo di qualcosa.
C’era una tensione molto strana, una di quelle situazioni che gli facevano venire voglia di andare via e scappare in un luogo sicuro, al riparo, in cui poteva prendere i suoi amati libri e isolarsi dal resto del mondo.
Chissà come mai, gli venne in mente il quartiere di Montmartre e un paio di occhi verdi.
“Blaine, ti ricordi di Tyler?”
Non se lo ricordava, a dire il vero. Era un ragazzo piuttosto carino, poco più alto di lui, con i capelli biondi e perfettamente pettinati. Aveva un sorriso a trentadue denti che gli ricordava molto la pubblicità di un dentifricio. I suoi occhi erano chiari, ma vuoti, come tutte le persone di quella società conosciute fino ad allora. Eppure, c’era un’altra cosa che allertò particolarmente i suoi sensi: quel Tyler sembrava interessato a fare la sua conoscenza. Particolarmente interessato.
Infatti, passò una serata intera a riempire ogni silenzio possibile con delle battute stupide e assolutamente irritati che facevano venire voglia a Blaine di odiarlo sempre un po’ di più; in realtà, quel ragazzo rappresentava esattamente tutto ciò che non tollerava: perfettamente impostato, schiavo dei suoi genitori, innamorato della sua vita e con una noncuranza verso gli altri che lui riteneva “di ceto inferiore”.
Il modo con cui liquidò Nana dopo avergli preso il piatto dalla tavola lo fece rabbrividire.
“Non la pensi anche tu così Blaine? A queste persone bisognerebbe proprio togliere la busta paga.”
A lui bisognava togliere la lingua, invece. Ma si limitò a non rispondere fissando il piatto di porcellana.
“Blaine, tu e Tyler avete la stessa età”, tentò di dire sua madre, con un tono che sembrava proprio suggerire di fare lunghe passeggiate nel parco e prendersi per mano.
Ed era proprio quello che fece raggelare il suo sangue nelle vene, e per un attimo perse tutta la compostezza dettata dai suoi genitori per guardare la madre allibito: cosa voleva dire? Stava forse cercando di sistemarlo con quel Tyler? E da quando aveva accettato il suo orientamento sessuale?
“Tyler, hai già pensato agli studi?” Intervenne suo padre con un sorriso falso, ma gentile. Non lo aveva mai visto sorridere in quel modo, perchè di solito non sorrideva affatto. Stava cercando di essere carino con lui?
“Sono indeciso tra Harvard e Yale”, rispose il ragazzo. E detto quello elencò tutta la lista di motivi per cui Harvard avesse un programma poco allettante, ma Yale, d’altro lato, lo faceva sentire un po’ in soggezione.
“Oh ma non devi sentirti così per via di tuo padre. Non c’è niente di male a seguire le sue orme.”
Blaine posò per un momento la forchetta sul piatto, improvvisamente catturato dall’argomento della conversazione.
“Tuo padre?”
Si voltò verso Tyler e-oh. Certo. Adesso capiva. Il modo con cui sorrideva fiero di se stesso; il modo con cui giudicava il resto del mondo.
“Oh sì Blaine, il padre di Tyler è il senatore Collins. Pensavamo lo sapessi.”
No, non lo sapeva. Ma adesso era tutto più chiaro.
“Sarei proprio curioso di vedere il vostro oleandro. Blaine, mi accompagni?”
Il sorriso che spuntò sul volto di sua madre fu la conferma a tutti i suoi pensieri, e mentre si alzava da tavola non preoccupandosi nemmeno di posare il fazzoletto con delicatezza, rivolse un’occhiata a Tyler facendo appello a tutte le sue forze per non mandarlo a quel paese.
 
“E’ davvero molto bello qui.”
“Molto.” Rispose Blaine, più per educazione che per altro. Era da quasi dieci minuti che camminavano in silenzio, e quasi le sue orecchie stavano cantando l’Hallelujah; la voce di quel ragazzo non era particolarmente irritante, piuttosto, a infastidirlo era la sua presenza. Il modo con cui invadeva il suo spazio personale. Il modo con cui ci stava provando con lui.
“E’ una fortuna che siete anche piuttosto lontani da Parigi”, commentò Tyler con il suo solito tono aristocratico. “Non mi piace quella città piena di poveracci e visionari.”
“Sono artisti”, ribattè Blaine, con una punta di nervosismo.
“Sono una perdita di tempo per la società.”
“Io penso che la arricchiscano, invece.”
La risata di Tyler, se possibile, risuonò come il suono di un gesso che graffiava la lavagna.
“Oh Blaine, questi discorsi da democratico non me li sarei mai aspettati da uno come te!”
Blaine non parlò per un altro quarto d’ora, e le mani strette a pugno nella sua tasca non si rilassarono per tutto il resto della serata.
Doveva solo resistere per un altro po’. Poi avrebe detto di provare freddo, avrebbe suggerito di rientrare in casa e avrebbe salutato diligentemente quel ragazzo con l’augurio interiore di non vederlo mai più. In tutto questo, il pensiero di Sebastian lo aiutava a distendere i nervi; avrebbe dato qualsiasi cosa per trovarsi con lui in quel momento, ascoltando la musica dalla sua finestra, isolandosi dal resto del mondo per fare l’amore.
Sì, ce l’avrebbe fatta.
Ma, evidentemente, Tyler quella sera aveva tutta un’altra intenzione.
Blaine si accorse troppo tardi di essere stato incastrato contro un muro di marmo vicino alla fontana del loro giardino, con le braccia di Tyler ai suoi lati, un sorriso meschino, e incredibilmente malizioso.
“Allora, Blaine. Passiamo ad argomenti più seri. Te l’hanno mai succhiato all’aperto?”
Per un momento, sperò soltanto di stare sognando, o di aver capito male.
“Stai scherzando spero.”
“Niente affatto. Non potrei mai scherzare su così tanto ben di Dio.” Tyler fece per scorrere la sua mano lungo la coscia di Blaine, ma fu bruscamente fermato.
“Tyler. Lasciami stare.”
“Andiamo, non ti va? Sarebbe un peccato. Un vero peccato. Perchè io ce l’ho già duro da un bel po’ e comincia anche a farmi un po’ male.”
“E allora fatti una sega”, rispose Blaine a denti stretti, spingendolo via contro la fontana, “Sparisci, Tyler. Non avrai niente da me.”
Quel gesto brusco aveva lasciato il giovane aristocratico allibito; anzi, sembrava piuttosto infuriato, per essere stato rifiutato con così tanta freddezza. Forse, pensava che fosse già cosa fatta. Forse, il suo orgoglio da figlio di papà non accettava una cosa simile.
“Te ne pentirai amaramente.” Sputò quelle parole come se fossero veleno, per poi andare via.
E Blaine non si era ancora reso conto di essere andato contro la volontà dei genitori, fino a quando non rientrò in casa trovandoli entrambi davanti a lui e visibilmente infuriati. Suo padre era paonazzo, sua madre, invece, sembrava glaciale, mentre scrollava la testa e gli urlava contro una raffica di parole affilate e crudeli.
Perchè lui aveva appena rifiutato l’unica occasione che avevano per entrare in società, perchè quello era figlio di un senatore, perchè con tutto quello che loro avevano sopportato, non riuscivano a credere di essere stati maltrattati in questo modo.
E Blaine voleva urlare. Voleva dire loro che non ce la faceva più a vivere in quella casa. Voleva che non avessero cacciato dalla stanza Nana, l’unica persona che lo capiva davvero.
Ma poi sua madre gli disse che non meritavano di ricevere quelle parole.
E suo padre aggiunse che era stato molto difficile per loro accettare ciò che era. Parlavano di lui, come di una malattia.
“Blaine, non ti rendi conto del gravissimo errore che hai fatto. Come hai potuto fare questo a Tyler? A noi? E tutto per colpa di uno stupido pittore francese da quattro soldi? Quando la smetterai di fare i capricci e comportarti da adulto?”
Fu in quel preciso momento che il cuore di Blaine si fermò.
Che cambiò tutto.
Aprì la bocca come per farne uscire delle parole, ma non trovò assolutamente niente da dire. Loro sapevano. Da quanto sapevano? Dovevano averlo seguito, anzi: dovevano aver mandato qualcuno a seguirlo.
Lo avevano visto con Sebastian, mentre passeggiavano per le strade di Parigi. Mentre erano contenti.
E loro reputavano tutto quello una cosa da niente. Un errore. Un capriccio da ragazzini.
Pensavano davvero che aveva scelto di stare con Sebastian solo per fare un dispetto a loro?
Pensavano davvero che contassero così tanto, nella sua vita?
“Voi non sapete niente di me.”
Sbattè la porta con talmente tanta forza che quel suono forte e disarmante rimbombò nella sua testa durante tutto il suo viaggio per Parigi.
Prese la macchina di Nana, guidò con disattenzione, alienato da tutti i suoni. Per tutto quel tempo, perfino la sua mente aveva smesso di agire.
Ma poi tutti i suoi pensieri riaffiorarono davanti a lui nell’istante in cui vide Sebastian comparire davanti alla porta con un giornale sotto al braccio e uno sguardo sorpreso.
Quando lo baciò, lasciandosi avvolgere da quell’abbraccio sicuro, che sapeva di preoccupazione e comprensione, sentì le labbra di Sebastian spostarsi delicatamente sulle sue guance, e capì solo un momento più tardi che stava baciando via tutte le sue lacrime.
Era tutto ciò di cui aveva bisogno, e molto di più di quanto avesse mai sperato.
“Sebastian.”
Sussurrò il suo nome come se fosse l’unica cosa bella da pronunciare.
“Posso... posso stare con te, questa notte?”
Il bacio più deciso e entusiasta che ricevette fu una risposta più che esauriente.
 
 
 
“Insomma com’è che non mi fai compagnia stanotte?”
Blaine scoppiò a ridere di fronte a quel tono di Sebastian, che voleva essere disinvolto e neutro, quando in realtà era dispiaciuto e adorabile.
Erano ormai due mesi e mezzo che continuavano a vedersi quasi ogni giorno, passando del tempo insieme. Blaine non aveva più risolto il problema con i suoi genitori, ma almeno era riuscito a scambiarsi delle parole di circostanza senza alzarsi da tavola o scoppiare a piangere in camera sua.
Forse, semplicemente, i suoi genitori sapevano che tutto quello sarebbe terminato entro due settimane, quando sarebbero ritornati in America. E Blaine non riusciva nemmeno a pensarci.
“Non posso restare, lo sai.” Gli lasciò un piccolo bacio sull’incavo del collo, esattamente dove la notte scorsa gli aveva lasciato un succhiotto che adesso era rosastro. “Ho da fare con i miei.”
“Non mi hai mai parlato dei tuoi genitori”, gli fece notare Sebastian. Blaine si fermò per un momento, sviando lo sguardo verso la Senna sotto di loro.
Capitava spesso che si fermassero su un muretto proprio in procinto dell’acqua, contemplando l’aria salmastra e i giochi di colore, illuminati dal sole di Settembre e da quell’aria che riscaldava ancora di più i loro cuori. Blaine non voleva rovinare tutto quello. Non lo aveva fatto in due mesi.
“No, infatti, perchè non è importante. Quello che è importante sono io, e sei tu. E il fatto che stasera non posso proprio rimanere.”
E quasi scoppiò a ridere nel vedere la smorfia seccata di Sebastian, ma invece pensò bene di coprirla con un bacio.
“Così non è che mi invogli a lasciarti andare eh”, borbottò Sebastian facendolo sorridere inavvertitamente, mentre sentiva le sue braccia cingergli saldamente la vita e avvicinandolo a lui.
“Dai Seb”, sussurrò Blaine staccandosi da lui con uno schiocco. “Devo andare.”
Odiava farlo. Soprattutto perchè era da diverso tempo che passava quasi ogni notte in compagnia di Sebastian ignorando del tutto gli sguardi dei suoi genitori. Ma quella sera c’era un importantissimo evento di società, uno dei motivi principali per cui gli Anderson erano venuti in Francia; ci sarebbero state tutte le alte cariche e figure di massima rilevanza, e lui aveva già promesso da tempo di andarci.
O meglio, era stato lo scotto da pagare per il loro silenzio circa lui e Sebastian. Sapeva che, se solo lo avessero voluto, avrebbero potuto rinchiuderlo in camera per tutta l’estate; non poteva permettersi di trasgredire, quella volta.
“Eddai, si tratta solo di una sera. Una sera in cui non ti assillerò con i miei romanzi da femminucce, non sei contento?”
“Era anche l’ora”, ribattè Sebastian, ma poi Blaine gli diede una piccola spallata e finirono tutti due per sorridere. Blaine controllò di nuovo l’orologio, notando a malincuore di essere già in ritardo.
“Devo andare. Ehi, ci sentiamo domani.”
“Sicuro.”
Sebastian lo fissava come se volesse a tutti i costi dirgli qualcosa. Come la prima volta che si erano incontrati in quella piazza, in cui entrambi erano incuriositi, ma insicuri; Blaine si voltò dopo un ultimo bacio, ma improvvisamente la voce alle sue spalle lo fece tornare indietro.
“Ah, Blaine?”
E c’era un sorriso che non aveva mai visto. Era qualcosa che nessun tipo di parole scritte nei suoi amati romanzi avrebbe saputo descrivere.
“Je t’aime.”
Blaine non parlava francese, ma quelle parole, oh, le capiva bene. Bastò il suo cuore a interpretarle nel giusto modo, facendolo sentire come se fosse l’essere più felice di tutta Parigi.
“Anche io, Sebastian, anche io”, balbettò in preda all’emozione, alla felicità, ai baci che di nuovo ripresero e aumentarono, ed era tutto semplice, perfetto, proprio come nelle sue storie.
“No no Blaine, devi dirlo in francese, è la lingua dell’amore, devi dirlo come si deve.”
“Ma io non so nemmeno una parola di francese”, e Sebastian continuava a sorridere, lo teneva stretto tra le sue braccia, prese delicatamente il viso tra le sue mani accarezzando le guance rosee e soffici.
“Okay allora, corsi di francese di Sebastian Smythe, lezione numero uno.”
“No Sebastian, davvero non ho tempo per queste cose! Eddai dimmi solo come si dice e-“
“Prego, l’interlocutore deve ripetere insieme a me”, lo interruppe con un bacio. “Je m’apelle Sebastian et j’aime Blaine avec de tout mon coeur.”
Blaine ripetè quelle parole biascicando le sillabe e sbagliando quasi tutte le pronunce; si sentiva a metà tra lo stupido e il terribilmente emozionato.
“Et maintenant, je suis Blaine, je t’aime aussi.”
“Je t’aime aussi.”
E anche se non le pronunciava bene, quelle parole risuonarono in un modo incredibilmente perfetto.
“Uhm, non male.” Sebastian fece un sorriso sghembo, avvicinandosi a lui, “Ti darei un... sei meno.”
“Taccagno.”
“Sincero.”
“Ti amo.”
“Anche io.”
In quel momento, sulle rive della Senna, tra le braccia di Sebastian, Blaine conobbe la vera felicità.
 
 
 
Ma la vita è spesso crudele, e non tutti i romanzi finiscono con un sorriso sulle labbra e un peso dolce in fondo al cuore.
 
 
Perchè quando Blaine la mattina dopo bussò freneticamente alla porta di Sebastian, desiderava solo di ritrovarsi di nuovo tra le sue braccia sussurrandosi le parole scoperte il giorno prima.
Voleva soltanto riottenere quegli attimi di felicità che lo avevano fatto sentire vivo in tutti quei mesi.
Ma Sebastian non aveva il sorriso con cui gli aveva detto ti amo. I suoi occhi non erano limpidi, come quando cercava di assimilare ogni suo dettaglio per poi trasferirlo su un disegno.
Sebastian, in effetti, sembrava freddo.
Leggermente arrabbiato.
Totalmente deluso.
E quel giornale che teneva stretto sotto al braccio, quella pagina che adesso scivolò via dalle sue dita, rivelando la foto della famiglia Anderson al galà di beneficienza dei Collins, apparì ai suoi occhi con un impatto devastante.
Sebastian sapeva tutto.
Aveva visto quella foto in bianco e nero circondata da parole francesi che non riusciva assolutamente a capire. E sembrava tanto deluso, quanto Blaine sembrava disperato.
Non doveva andare così. Non significava niente.
“Sebastian, io-“
“No Blaine. Non dire un’altra parola. Ne hai dette anche troppe, ti pare?”
No, doveva capire, doveva spiegargli tutto.
“Non vuol dire niente, io- io sono Blaine, sono-“
“Blaine? E’ almeno il tuo vero nome? Ah aspetta-“ Sollevò il foglio accartocciato con un gesto secco, non preoccupandosi minimamente di distruggere la pagina. O il suo cuore.
“La didascalia dice proprio Blaine Anderson. E che genitori adorabili che  hai. Immagino quante grasse risate vi siete fatti dietro all’artista di strada, non è vero?”
Ma cosa stava dicendo?
“Sebastian”, provò a dire, avvicinandosi a lui, ma venendo brutalmente respinto con la mano.
“Sebastian ti prego.”
Sapeva che quelle poche parole non bastavano a ottenere la sua fiducia; ma come faceva ad esprimersi, con quel groppo alla gola che gli impediva perfino di prendere aria?
Adesso non era più così semplice respirare. Forse, perchè non era più così semplice stare con Sebastian.
“Quante cazzate mi hai detto fino ad ora.” Commentò, incolore. “Sei stato bravo, complimenti: se non fosse stato per la foto, non avrei mai creduto che quel Blaine Anderson figlio degli Anderson e amico dei Collins fosse lo stesso che si è spacciato per ingenuo studente in Erasmus.”
Sebastian teneva gli occhi fissi su di lui, limpidi, per rabbia, forse, o per l’amarezza di scoprire che era stata tutta una menzogna.
“No Sebastian.” Blaine cacciò indietro le lacrime che tentavano di uscire, perchè non era giusto piangere, non di fronte a lui, non sapendo di essere lui stesso la causa.
“Posso-posso aver mentito sulla mia identità. E s-sui miei genitori. Ma non ho mai mentito su quello che provavo per te. Io-io ti amo Sebastian, e-“
“Vattene via.”
Nemmeno quel dolce violino che suonava sotto la finestra riusciva ad addolcire il suono di quelle parole.
“Vattene via Blaine. Non ti voglio più vedere.”
“Mi ami?”
Sebastian si fermò di fronte a quella domanda. Non si aspettava tanta audacia. Non si aspettava che Blaine ci tenesse così tanto a restare, che non fosse già sparito dietro la porta.
“Non c’entra un cazzo questo Blaine, tu mi hai mentito.”
“Lo so. Ma tu mi ami?”
“Smettila.”
“Rispondimi Sebastian.”
“Piantala ti ho detto!”
L’urlo fu così forte, che un piccolo foglio si staccò dalla parete e finì esattamente sul pavimento di quella casa.
Era un ritratto di Blaine, ovviamente. Il suo sorriso.
Che adesso era del tutto scomparso, lasciando spazio a delle lacrime che Sebastian non riusciva ad accettare.
“Mi dispiace Sebastian.”
E nonostante gli occhi lucidi e arrossati, nonostante il respiro spezzato e la vergogna, Blaine non smise nemmeno per un secondo di guardarlo.
“Ti amo. Ti amo da morire.”
Sebastian restò per diverso tempo davanti a lui, combattendo contro i suoi pensieri e il suo cuore.
Ma Blaine non aveva il diritto di dirgli quello. Quelle parole che gli aveva insegnato lui.
Così richiuse la porta.
E allora, solo allora, si permise di piangere.
 
 
 
Non esistono libri che raccontano una delusione d’amore.
Spesso finiscono nel momento del primo bacio, o nel giorno del matrimonio. L’unica loro intenzione è di mostrare quanto due persone possano essere felici.
Nessuno parla mai del dopo.
Delle lacrime abbandonate sul cuscino.
Delle notti insonni e del cibo scartato.
Dei genitori che ti guardano silenti, perchè loro sapevano che non era stata una buona idea, non lo avevano mai accettato e non c’era nemmeno bisogno di dirgli: “Te l’avevo detto”.
Gliel’avevano detto. Ma Blaine lo avrebbe fatto comunque, e poi ancora e ancora. Non avrebbe mai rinnegato i momenti più felici della sua vita. Anche se quella vita non era più un romanzo, o una favola; anche se Parigi non aveva più quell’aria affascinante che lo aveva colpito la prima volta.
Anche se non aveva più messo piede a Montmartre, o osservato un disegno su un foglio.
C’erano dei giorni in cui alzarsi e affrontare la giornata era davvero insostenibile.
C’erano dei giorni in cui nemmeno l’affetto e le dolci parole di Nana riuscivano a farlo stare meglio.
Perchè non importava quanto si tenesse occupato, o quanto portasse a spasso i cani giocando con loro, o quanto il sole fosse alto, la sua casa illuminata.
Gli mancava Sebastian in ogni modo possibile.
 
 
Dei romanzi non ti raccontano mai come si affronta il dolore. Come si rimedia a degli errori.
Semplicemente perchè non possono farlo; dipende da persona a persona. E’ un processo lento, e ingiusto, sempre diverso e allo stesso tempo sempre uguale.
E qualche volta andava meglio.
Qualche volta non si andava avanti.
 
Ma poi c’era una volta. Un piccolo caso particolare, che lo rendeva proprio degno di attenzione.
Sono quei casi che poi diventano i soggetti dei romanzi che fanno innamorare tutte le persone; perchè non tutto finisce male. Ci sono persone che tornano; persone che capiscono.
 
Quando Blaine intravide Sebastian alle soglie di casa sua, del suo giardino, i guinzagli dei suoi cani scivolarono via dalle dita, e questi presero a correre verso il ragazzo all’entrata abbaiando e scodinzolando, aggrappandosi al cancello di ferro.
E non era un’allucinazione: quello era proprio Sebastian. Con le mani in tasca, e un’espressione indecifrabile.
Non capì assolutamente nulla di quello che stava succedendo fino a quando non sentì la voce di Nana giungergli alle orecchie: “Allora che fai qui immobile? Vai a salutarlo, su.”
La giovane governante aveva un’espressione materna e comprensiva, accompagnata da un tenero sorriso.
“Nana, non-io-io non...”
“Oh, diciamo che mi sono persa un’altra volta.” Commentò lei. “E diciamo che quel giovane ragazzo è subito venuto in mio soccorso.”
C’era qualcosa, dentro di Blaine, che aveva ricominciato a battere. Forse era il suo cuore, o ciò che ne rimaneva, ma era forte. Era tenace.
“Vai da lui.” Suggerì la sua adorata Nana.
E non se lo fece ripetere due volte.
Sebastian era lì, a pochi metri. Separati da quell’odiosissimo cancello ma, finalmente, in grado di vedersi.
“Insomma casa tua è proprio minuscola.”
Il ragazzo continuava a guardarsi intorno quasi a disagio, e a Blaine scappò un piccolo sorriso, perchè era proprio quello che gli era mancato di Sebastian; quello, e miliardi di altri cose.
“Sì, diciamo che non è male.” Sdrammatizzò stringendosi nelle spalle, e ricevendo una lunga occhiata.
Restarono così per diverso tempo. I cani intorno a Blaine avevano finito di abbaiare, e adesso scorrazzavano felici come se volessero dare ai due tutto il tempo per parlarsi.
Ma non c’era molto da dire. Blaine il giorno dopo sarebbe partito. Si chiese se Nana lo avesse detto a Sebastian; si chiese se fosse venuto proprio per quel motivo.
“E’... è un addio, non è vero?”
Ma certo, pensò. Era ovvio. Era giusto, ma ciò non impedì ai suoi occhi di pungere terribilmente.
Ma c’era qualcosa, nello sguardo di Sebastian. Nel modo con cui gli sorrise.
“Lo sai...”
Estrasse dalla tasca un biglietto aereo, in cui Blaine lesse chiaramente il nome Washington DC.
“Mi sono stufato di disegnare Parigi. Ormai la so a memoria.”
 
Non c’erano sbarre che avrebbero potuto ostacolare i loro sorrisi. Così come le loro labbra, quando si incontrarono risollevate.
Nana dietro di loro sorrise, e fece in tempo di asciugarsi una lacrima prima di essere richiamata all’ordine per svolgere qualche faccenda.
Perchè non tutte le storie finiscono con un finale triste.
E sono proprio quelle che ti restano nel cuore.
   
 
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