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Autore: Columbrina    08/10/2012    3 recensioni
Takeru e Yamato rimangono spesso in casa da soli, ma non il sabato sera.
E che il disco galeotto non nasconda un misfatto?
Tra le note di Annie Lennox, cellulari ossessivi, una pizza e vecchi ricordi... Il sabato sera non è mai stato così pacifico.
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Takeru Takaishi/TK, Yamato Ishida/Matt
Note: AU, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Cose da fare il sabato sera
 

 
Di una cosa era certo Yamato: quella non sarebbe stata la solita cena di lavoro straordinaria.
Ne era sicuro per due, semplici motivi: era la terza quella settimana e non potevano reggere le scuse di un repentino aumento degli introiti e del ritrovamento di un settimanale del Sudoku avessero contribuito a un cambiamento così radicale d’umore.
Le visite di suo fratello erano divenute quasi periodiche poiché la mamma aveva da sbrigare delle faccende in ufficio e in frigorifero mancavano cibi precotti.
Yamato era un ragazzo sveglio, ma decise di fare buon viso a cattivo gioco, ignorando i loro strani pretesti e accogliendo Takeru nei lidi della mascolinità primordiale.
Era sabato sera e come ogni volta c’erano pile di vestiti e disordine pronti ad accogliere Takeru, che rivolse un’occhiata scettica al fratello maggiore.
“So che hai un’altra prospettiva di quella che è mascolinità primordiale, ma papà mi ha colto in contropiede. Mi ha detto che venivi pochi minuti prima che uscisse …” si giustificò prontamente Yamato, mettendo su un disco reperito dalle vecchie collezioni del padre.
“Curioso …” nell’aria si librò immediatamente la trascinante voce della chitarra di Kevin Shields “Mamma è rientrata tutta trafelata e mi ha liquidato dicendo che stava venendo un ospite speciale
“Che mancanza di tatto …”
“Da qualcuno devi aver pur preso”
“Touché”
“Perché dispensi queste velleità francesiste solo con me, fratellone?”
Yamato sorrise, compiacendosi dell’arguzia del fratello: il suo volto era un libro aperto, solo da sfogliare.
“Perché su Sora non fanno più colpo” rispose, semplicemente.
Takeru si sedette sul divano, il suo posto preferito, poiché era in quel preciso punto che riusciva a respirare una mistura di odori che lo riportava ai tempi di quando in casa si discuteva per le attività serali. Il padre era solito tornare tardi e stanco, svegliandoli col cigolio trepidante della porta d’ingresso e allora si precipitavano di soppiatto nel corridoio, lui si fingeva spaventato e iniziava a rincorrerli destando le ire di Natsuko.
Prese il cellulare e le sue dita presero a strimpellare sulla tastiera, proprio come i virtuosismi che quelle di Kevin Shields compivano sulle corde di quel gioiellino fuoriserie, come era solito chiamarlo il padre ogni volta che si imbatteva in vecchi concerti dati alla televisione come replica estiva.
Buona parte della serata procedeva nell’indolenza più assoluta, con Takeru che scambiava frequenti messaggi nel posto in cui gli odori di mascolinità primordiale facevano da padrone e con Yamato che si districava tra i fornelli e il ricordarsi delle parole di Kevin Shields e delle entrate giuste del basso; l’unico suo toccasana era il borbottio delle pentole che innestava in lui delle cognizioni quasi refrattarie alle solite aspettative, che lo cullavano con la loro calura effimera e inebriante.
Ogni tanto l’indolenza era sfaldata da irriverenti attacchi di risa convulse da parte di Takeru, che pareva trovare le conversazioni alquanto interessanti, quindi Yamato faceva ricadere l’occhio sullo sguardo del fratello, così rilassato e libero da convenzioni, assai diverso dalla sua aria perennemente refrattaria.
“Eppure ha una certe verve sulle ragazze” gli dicevano Taichi e lo stesso Takeru.
Probabilmente quella verve era la stessa che brillava sul volto del fratello in questo momento.
“Si può sapere che hai da ridere?” esordì Yamato con fare tedioso, asciugando i rimasugli della calura che proveniva dalle pentole borbottanti.
Takeru cercò di reprimere altri impulsi di risate, ma gli fu impossibile quindi soffocò la risposta in un connubio confuso che fece alzare gli occhi a Yamato.
“Scusami Yamato … Ma Hikari è uno spasso”
“Immagino …”
“E’ un portento quella ragazza…”
Yamato fingeva di ascoltarlo, canticchiando a mezza voce ancora la prima canzone di Kevin Shields e imitando le andature del basso con suoni gutturali, mentre Takeru si concedeva una tirata di lodi tutte rivolte a quella deliziosa ragazza come diceva suo padre e ogni volta Yamato non poteva far altro che storcere il volto in una smorfia scettica. Non perché non avesse in simpatia Hikari, solo non riusciva a concepire come i geni recessivi fossero proprietà esclusiva del fratello.
Ora capiva perché quella verve che tanto decantavano gli era così insopportabile.
“Avvertimi se Taichi entrerà a far parte della famiglia, voglio assicurarmi di essere disconosciuto prima che l’infarto giunga …”
“Spiritoso” disse Takeru, cambiando radicalmente tono. Gli rivolse perfino uno sguardo divertito, anche se poi tornò a concentrarsi sullo schermo, seppur in maniera meno ossessiva poiché poteva rendersi solo lontanamente conto di quanto potesse sembrare stupido.
Yamato continuava a canticchiare, agitando lo strofinaccio come se fosse il plettro di una chitarra e creando un piacevole diversivo per il fratello dall’ossessione del cellulare. O meglio, dal morboso, patologico rapporto telematico con Hikari.
Takeru iniziò a ridacchiare e Yamato ci cimentò in una vera e propria esibizione dai toni grotteschi e rochi, che mangiavano tutto, perfino il borbottio incalzante delle pentole.
“Cielo, se lo vedesse Sora …” pensò Takeru, ridacchiando ancora più forte.
Era grottesco su tutti i fronti, anche se era certo che le ragazze avrebbero pagato profumatamente per vedere le sue velleità in merito al ballo e i capelli, che aveva fatto crescere, ondeggiare a ogni ammiccamento del cantante. Lo strofinaccio, poi, ballava a un ritmo tutto suo.
Facevano queste cose quando erano bambini: solo che era Yamato quello seduto sul divano, ogni tanto faceva musica con la sua armonica, altre volte si univa a Takeru e insieme facevano divertire i genitori. Era per queste piccole cose che non riuscirono – specialmente Yamato – a concepire la separazione.
Ma come la felicità era sporadica ed effimera, anche quel momento di anomalo cameratismo non era fatto per durare a lungo: in casa si librò un aroma incisivo, poco allettante che fece insorgere i fratelli.
“Non sarà …”
“Cazzo!” imprecò Yamato, buttando in aria lo strofinaccio e sbrigandosi a spegnere i fornelli; Takeru si premurò ad aprire le finestre in modo che l’aria fresca della sera impartisse il suo irriverente brio. Si avvicinò al fratello per esaminare la situazione e i pronostici sul gusto non erano dei migliori, anche perché Yamato iniziò a imprecare silenziosamente fino a gettare tutto il contenuto nel lavabo.
“Addio cena, riposa in pace. E che le tubature possano digerirti meglio di quanto avremmo fatto noi” disse Takeru, con una scherzosa inclinazione del tono funereo. Yamato, piccato, gli diede un buffetto sulla spalla e si abbandonò alla frescura del divano dove anche lui venne abbracciato dai sapori – e dai dissapori – di ciò che una volta era la sua quotidianità.
Era in queste situazioni che era Takeru a fare da appiglio agli sbalzi emotivi del fratello maggiore e non viceversa; era proprio questa interscambiabilità a renderli più simili ad amici fraterni piuttosto che fratelli veri e propri. Era strano anche solo ripensare ai tempi in cui Yamato consumava i pasti lontano dalla mensa dei suoi amici per avere vicino il fratello, così piccolo e voglioso di vita, curioso e così impavido. Vedi la vita da un'altra prospettiva quando tuo fratello minore compie sedici anni.
“Andiamo tirati su… Ordiniamo una pizza”
“Meglio …” disse Yamato, con la voce attutita dal cuscino che aveva poggiato sulla faccia, in modo da potersi proiettare negli anni in cui il menefreghismo era alla base di tutti i problemi esistenziali, gli stessi in cui suo padre e sua madre si erano conosciuti.
Conclusa la veloce chiamata, Takeru si mise accanto al fratello e gli tolse il cuscino dalla faccia, mosso a pietà.
Poi partì una canzone dei Culture Club.
“Questa è un’istigazione al suicidio…” commentò Yamato, girando di poco la testa, in modo che i capelli ricadessero sul viso sudato e arrossato dalla calura, dai rimasugli dei suoi pensieri che gli scivolavano insieme alla voce femminea del cantante.
“Parla quello che ascolta Shields per endovena”
“Oh quello è papà…”
“E quel balletto di prima? L’ho filmato, sai? Potrebbe diventare un fenomeno virale e io ci ricaverei un bel po’ di soldi …”
Yamato raccolse una massa informe di quei panni che poltrivano sul divano e lo prese in pieno volto; Takeru rideva.
Succedeva così ogni sabato sera.
“Da quando sei diventato così avido?”
“Io sono solo avido di soddisfazione personale. I soldi sarebbero un piccolo extra …”
Takeru affondò la testa nella frescura del divano e venne invaso dallo stesso, stantio aroma di famiglia e di quotidianità che si perdevano nell’attesa di una pizza.
La voce femminea di Boy George cullò le loro aspettative e i loro pronostici per un po’, fino a quando Yamato non prese l’iniziativa e mise il prossimo pezzo, che partì subitamente. Si librò una voce androgina, una sorta di connubio ultimo e si accorse di quanto le sensazioni nell’ascoltare quella canzone coincidessero con quelle degli odori assoluti. Anche a Takeru piaceva perché prese a muovere la testa e a canticchiare con mugolii a bocca chiusa; Yamato chiuse gli occhi e gli venne in mente una videocassetta che guardavano spesso, specie quando i loro genitori non c’erano e la nonna dormiva, anche se Takeru non la ricorda.
“Annie Lennox, eh?” chiese Takeru, inclinando la testa in direzione del fratello, che aveva ancora gli occhi chiusi e lo sguardo chissà in quale mare di pensieri.
Yamato rispose con un mugugno a bocca chiusa.
“Anche a Hikari piace molto questa canzone. Me l’ha fatta ascoltare e indovina cosa mi è venuto in mente…”
Yamato riaprì lo sguardo celestino e lo rivolse al fratello, puntellando con fare tedioso il viso sul palmo di una mano, che affondò fino a scavargli un’adorabile grinza. Sembrava un bambino e tale era il suo sentimentalismo. Un sentimentalismo bambino.
“Cosa ti è venuto in mente?”
“Quella cassetta del matrimonio di mamma e papà. Fecero questa canzone”
Gli occhi celesti del fratello maggiore si aprirono pericolosamente, tanto che potevano staccarsi dalle orbite; Takeru rise.
Era così volubile ai ricordi.
Takeru, invece, era più volubile verso le emozioni.
“Ma allora te la ricordi quella cassetta!”
Yamato socchiuse di nuovo lo sguardo, affondando sempre più nel divano.
“Mamma l’ha nascose da qualche parte, in un mobile della vecchia casa. Avevo dieci anni, la trovai e la misi. La vedevo di nascosto e in molti punti del video suonavano questa canzone”
No more I love you …
La voce di Yamato era un soffio, giusto per non incrinare l’estroso virtuosismo della voce di Annie Lennox, così teatrale ed erotica.
“Non ti amo più” concluse Takeru, ridendo “Curioso, non trovi?”
“Già …”
“Insomma, chi mai sceglierebbe una canzone che ha per titolo Non ti amo più  come colonna sonora del proprio matrimonio… E’ come buttarsi la zappa sui piedi da soli”
Yamato rise in merito alle riflessioni del fratello, che denotavano ancora una certa immaturità nei confronti della vita, però non lo biasimava: solo nella crescita e nel tempo Yamato aveva imparato a non prendere le parole alla lettera.
“Io penso sia fatalismo, sai?”
“Tu pensi che tutto sia destino” lo corresse Takeru, sorridendo “Lo sono anch’io … Ma in maniera meno cinica e ossessiva”
Yamato riaprì lo sguardo e si girò verso il fratello, con le mani in tasca e completamente affondato nella piazza del divano morbido, completamente affondato nella sua indolenza.
“E con la differenza che io ho sempre ragione”
Stavolta fu Takeru ad ammassare una pallottola di calzini e altro vestiario sparso e a lanciarlo verso il volto placido del fratello, innestando una breve lotta.
“Sei proprio spiritoso, fratellino …”
“Anche se, sai… Credo che un certo fatalismo ci sia”
“Ah sì?”
Takeru annuì.
“Nelle ultime settimane la mamma torna sempre molto rilassata dal lavoro, anche dopo una giornata pesante; delira sul fatto che vuole cambiare taglio di capelli e canticchia sempre quella No more I love you… Hikari mi ha perfino chiesto se mamma non si fosse innamorata!”
Yamato rise nello scorgere quell’estro esaltato che si distinse chiaramente nella voce del fratello, come se covasse ancora una mera speranza che potesse tornare tutto come prima, che il presente si riavvolgesse su se stesso, sovrapponendosi al passato.
Anche suo padre aveva cambiato radicalmente prospettiva di vita. E quella No more I love you risuonava spesso in quelle mura disordinate, che si smantellavano dall’interno.
Sorrise.
“Sai Takeru, forse Hikari non ha tutti i torti …”
Takeru stava per chiedere spiegazioni dinanzi a quell’accozzaglia recessiva di cambiamenti che stavano prendendo un tono davvero grottesco, ma non poté poiché il fratello era troppo impegnato a dare la mancia al ragazzo della pizza.
 
 
Era tardi e le chiacchierate fraterne continuarono per un bella fetta di serata.
E il numero ventitré si mostrava euforicamente su quella parete portante, che era alle pendici del menefreghismo per Yamato e Takeru che si persero in discorsi tipici del sabato sera come musica, corse e macchine. Le note delle canzoni erano scemate da un pezzo.
Takeru assunse un’espressione distorta dinanzi all’ambizione del fratello di guidare una moto di grossa cilindrata, anche se si confaceva perfettamente alla sua proverbiale mestizia ribelle.
“Un giorno la passerò ai miei figli e i tuoi roderanno dall’invidia …”
“Non li crescerò con valori materialisti”
“Parla chi voleva farsi i soldi sopra le mie disgrazie”
Uno sbadiglio sonoro soffocò una risata di Takeru che non reggeva più il peso della sera che incalzava su di loro e affondò la testa nella piazza fresca del divano, ancora inebriante di quegli odori che scemavano man mano che la dormiveglia faceva effetto.
“Se mi trovi noioso basta dirlo” scherzò Yamato, alzandosi per fare in modo che le gambe di Takeru occupassero anche l’altra piazza.
Erano pure cresciuti, ma Yamato gli riserbava spesso tali premure.
“No, è solo che …” sbadigliò, per poi strofinarsi pletoricamente gli occhi “Non mi piace restare sveglio fino alle undici…”
“Tranquillo dormi pure, io sparecchio”
“Perché invece non mi suoni qualcosa?” disse, con voce fintamente insonnolita, giusto per dare l’impressione che si sarebbe addormentato subito.
Yamato elargì un sorriso scettico.
“Non penso che il basso sia uno strumento utile per la ninnananna …”
“Scemo, intendevo con l’armonica …”
Sbadigliò nuovamente, incosciente di aver trafitto Yamato con l’ennesima lama dei ricordi sfocati che scivolarono ancor più profondamente nelle sue membra stanche.
Non la suonava da molto e si chiedeva da quanto avesse smesso. Probabilmente dall’inizio delle scuole medie.
L’aveva conservata in un astuccio che Takeru gli regalò per lo scorso compleanno, anche se quella volta non si stupì più di tanto: probabilmente l’aveva fatto poiché veniva colto da un moto pietoso ogni volta che la vedeva sparsa per casa, povera anima errante.
“Non penso di ricordare come si faccia…”
Bugiardo.
Yamato si sedette e prese a suonare, boccheggiando e chiudendo gli occhi come se lo avesse fatto sempre, in ogni istante dei suoi respiri. Sentiva i ricordi rimestarsi e andare su e giù come se fossero cullati da un’altalena. Gli parve di sentire i piagnistei del fratello, che si placavano ogni qual volta che dava fiato a quello strumento che, per lui, era come forgiato di inebrianti sensazioni che si univano al ritmo andante della musica.
Non era improvvisata, però.
Era una canzone che suonava spesso.
Non l’aveva mai trascritta su carta; preferiva che consumasse nei ricordi intimi che lui e Takeru avrebbero sempre condiviso, a discapito del tempo che passava e del fatto che le loro priorità reciproche erano cambiate, a discapito del fatto che il tempo stava fecondando nuovi e vecchi amori.
E il tutto si perse in un turbinio di note stonate, imprecazioni e serrature che non si aprivano.
Yamato alzò gli occhi al cielo e si diresse verso la porta, senza guardare all’occhiello.
Aveva trattato con estrema cura la tempistica, ma non il tempismo.
“Chi è?”
“Sono Taichi! Takeru ha scordato le chiavi da noi … E già che c’eravamo, siamo venuti a farti un saluto”
Siamo?”
Adesso sapeva perché aveva tanto ribrezzo dell’occhiello.
“Sì, siamo io, Hikari, Koushiro e Daisuke …”
“Chi altri?”
“Nessun altro. Stanno arrivando comunque …”
Yamato sbuffò e poi aprì la porta.
Il tramestio di fondo svegliò bruscamente Takeru.
E meno male che il sabato sera dovevano rimanere in casa da soli.
 
   
 
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