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Autore: Dk86    21/04/2007    1 recensioni
Siccome le aspiranti Cacciatrici che compaiono nell'ultima serie di Buffy non vengono granchè approfondite dal punto di vista psicologico e caratteriale, apparendo più come "carne da macello" che altro, ho pensato che se volevo iniziare a scrivere sul mio telefilm preferito era il caso che lo facessi partendo da uno dei personaggi di cui meno si sapeva, cosicchè non avrei corso il rischio di maltrattare o rendere OOC qualcuno dei membri del cast principale.
Questa fanfiction è dedicata a ReaderNotViewer, che ha svolto il ruolo di sostenitrice e di beta-reader e che ha anche scritto una deliziosa e breve introduzione alla storia. Perciò ne approfitto per ringraziarla nuovamente per tutta l'attenzione che mi ha dedicato!
Genere: Commedia, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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TANTO DI CAPPELLO (con introduzione di ReaderNotViewer)





Sono molto orgogliosa di poter dire che DK ha scritto questo delizioso racconto su Buffy proprio per me. È una storia che ha per protagonista una delle Potenziali… Fermi! Dove state scappando? Restate e leggete: vi garantisco che la tenera ma determinata ragazzina di questo racconto vi piacerà più di quanto a suo tempo vi siano piaciute le Potenziali tutte insieme, mentre guardavate la settima stagione sbadigliando e tentavate invano di distinguerle una dall’altra. Questa Vi di DK ha una spiccata personalità: mettetevi nei suoi panni – o per meglio dire sotto al suo cappello – e concedetevi così un’istruttiva gita a Summershouse, nella ridente Bocca dell’Inferno.

ReaderNotViewer





Colpi forti e ripetuti scuotevano la porta fin nei cardini. Mi accucciai istintivamente, in preda al panico. Me lo sentivo, ero in grave pericolo: ogni fibra del mio corpo riusciva a percepire la tensione dell'imminente tragedia.
"Ehi, tutto bene lì dentro?".
Beh, forse come prima valutazione era un po' esagerata... In effetti, più che di un grave pericolo si trattava di un problema di media portata. Più o meno.
I colpi, intanto, continuavano.
"Chiunque ci sia lì dentro, apra la porta!".
Forse è meglio che faccia come dice, pensai. Le conseguenze potrebbero essere ben più terribili, se non obbedisco.
Mi alzai, e con dita tremanti feci girare la chiave nella serratura, per poi abbassare piano la maniglia...
Una mano robusta si insinuò con movimento deciso nel vano della porta, spalancandola di scatto e quasi facendomi perdere l'equilibrio.
"Ehi, mi hai fatto quasi prendere un colpo! Si può sapere perchè non rispondevi?".
Feci di tutto per non arrossire. “Ehm… ecco, io… mi scusi, signorina Cacciatrice…”.
“Per l’ennesima volta, chiamami Buffy e dammi del tu… Vi, giusto?”.
Annuii, mentre un sorriso affiorava spontaneamente sulle mie labbra. Finalmente qualcuno che si ricordava il mio nome! Da quando ero arrivata in quella casa, la gente tendeva a parlare di me come "quella con i cappelli buffi".
E quello spaventoso vampiro che abitava in cantina una volta mi aveva chiamata “pasticcino”.
Rabbrividii di nuovo al solo pensiero. I pasticcini si mangiano, mi seguite? E i vampiri di solito, con che cosa si nutrono? Comunque, il mio nome non è Vi, ma Victoria. Dato però che lo detesto, mi faccio chiamare Vi da tutti. E’ molto più pratico, ed è anche più carino, non trovate?
Anche Buffy mi terrorizzava, detto fra noi. A prima vista sembrava una giovane donna come se ne vedono tante in giro, una biondina non particolarmente alta che avrebbe potuto essere una cassiera al supermercato vicino casa oppure un’avvocatessa appena laureata. Però, guardandola meglio, ci si accorgeva che c’era qualcosa di bizzarro in lei: come se la forza conferitale dall’essere la Cacciatrice, colei che si erge nella lotta contro i vampiri e altri esseri anche più disgustosi e malvagi, fosse troppo intensa per essere contenuta del tutto nel suo corpo, e quindi si spandesse intorno a lei come una nuvola carica di elettricità prima di un temporale. Potente, forse bella. Sicuramente pericolosa.
“Terra chiama Vi, sei in ascolto?” Buffy mi schioccò le dita davanti agli occhi. Trasalii, rischiando di nuovo di finire per terra. “Ehi, sembri parecchio nervosa. Sei davvero sicura che sia tutto a posto?”.
“Beh, ecco, io… signorina Cacc… cioè, volevo dire, Buffy… io sto bene. Però…”. La mia bocca si rifiutò di proseguire più di così. Sentii due fiori scarlatti sbocciarmi sulle guance ed estendere i loro petali fino al naso e alle orecchie.
“Però?” mi incalzò la Cacciatrice.
“Però, prima non rispondevo perché…” pronunciai le ultime parole della frase talmente a bassa voce che nemmeno io le sentii.
“Scusa, potresti ripetere?”.
“Non rispondevo perché… mi ero addormentata. Sul gabinetto”.
Alla mia ospite scappa giusto un sorrisetto.
“No, ma non è come pensi! Non avevo bisogno di usare il bagno, cercavo solo un posto tranquillo dove riflettere!” mi affrettai a spiegare, mentre il mio viso assumeva un’interessante sfumatura vermiglia “Solo che appena mi sono seduta ho provato la voglia insopprimibile di chiudere gli occhi e mi sono svegliata quando hai bussato… Mi dispiace tanto, non era mia intenzione occupare il bagno per tutto questo tempo!”.
“Oh, non preoccuparti per questo!” minimizzò Buffy con un gesto casuale della mano “Non vedo file per entrare qui dentro. Da quando ho impedito a Molly di comprare ancora quel suo dannato succo all’ananas l’affluenza sembra diminuita notevolmente, per la fortuna di tutti”. La sua espressione si fece più seria “Comunque, se tu o qualcuna delle altre doveste avere dei problemi, voglio che me lo diciate subito. Fatelo presente a me, a Willow o a Xander, e vedremo di risolverlo. Ammetto che le esperienze dei giorni scorsi possano essere state scioccanti se non si è abituati: il Primo qui in casa, il Turok-han in giro per il quartiere… Senza contare ciò che vi ho fatto passare l’altra sera. Voglio dire, chiudere quattro ragazze in una cripta insieme ad un vampiro non credo figuri nel vocabolario sotto la voce “scherzetto divertente”…”.
“Non credo che “scherzetto divertente” ci sia sul vocabolario” dissi io. Buffy mi guardò come se avessi appena affermato che la Luna fosse fatta di formaggio “Perché sono un nome e un aggettivo, capito? Al massimo puoi trovare “scherzetto” e “divertente” da soli, ma non insieme.”.
Lei mi fissò, poco convinta, con l’espressione che si riserva di solito a chi ha bisogno di una camicia di forza e di una stanza ben imbottita. Almeno, io la interpretai così.
“Forse mi conviene scendere e tentare di fare un pisolino, eh?” mi affrettai ad aggiungere.
“Già, penso che sia una buona idea” risponse lei. All’udire quelle parole mi considerai congedata, e mi affrettai a scendere le scale.



Il soggiorno era la solita Babele. D’altronde, ci dormivamo in… no, non avrei saputo dirlo. Con tutta la gente che arrivava e che se ne andava (e di solito se ne andava in modo orribile e con notevole spargimento di sangue) era difficile fare una stima. Il pavimento della stanza era ingombro di cuscini, sacchi a pelo e buste mezze vuote di patatine e altre golosità ipercaloriche. Sembrava di essere in campeggio.
E io odiavo il campeggio.
Quando avevo nove anni, mia madre mi obbligò ad andarci. “Obbligare” forse non è il termine corretto: il suo modo di parlare e di argomentare le proprie affermazioni di solito portava il suo interlocutore, chiunque egli fosse, ad essere invariabilmente d’accordo con lei, nonostante poco prima avesse un parere del tutto opposto. Un paio di anni fa le dissi che secondo me avrebbe potuto fare carriera in campo politico, e lei se la prese a morte. I politici, affermò, sono gran brutta gente, e lei non voleva averci nulla a che fare.
Ma sto divagando, temo. Comunque, fui costretta a salire su uno scassato pulmino (senza nemmeno l’aria condizionata. Nel Texas, dove vengo io, durante l’estate fa così caldo che le zanzare entrano nei bar e chiedono bibite ghiacciate) ed affrontai un viaggio infernale su una strada tutta buche e dossi.
Non conoscevo nessuno degli altri bambini, e passai tutto il mio tempo a scagliare fantasiose maledizioni contro mia madre – mi ricordo che mi augurai che le spuntassero dei cactus dalle narici – finché non arrivammo al luogo del campeggio, dove trascorsi ben tre ore della mia vita.
A meno di mezz’ora dal mio arrivo, infatti, un gruppetto di ragazzini – alcuni anche di tre, quattro anni più grandi di me – iniziò a prendermi in giro. E senza alcun motivo, fra l’altro! Beh, in realtà avevo pestato un piede ad uno di loro, ma non l’avevo fatto apposta... Perlomeno, non l’avevo fatto del tutto intenzionalmente. Comunque sia, il fatto di venire schernita di solito mi dava fastidio, ma riuscivo quasi sempre a trattenermi dal reagire.
Ci sono delle cose, però, che mi fanno veramente infuriare. Per esempio le persone che trattano male i miei cappelli.
Quel berretto era davvero bello, viola e con un sacco di pompon colorati. Era di lana, e quindi portarlo sotto il sole cocente non era un’idea brillante, ma a me piaceva talmente tanto che non me lo sarei mai tolta, nemmeno per dormire, se fosse dipeso da me.
Così, quando uno di quei piccoli mostri me lo strappò dalla testa e lo gettò in una larga pozzanghera colma di fango… beh, se devo essere sincera non mi ricordo esattamente cosa gli feci. Dovettero chiamare l’ambulanza, questo è certo. Mia madre arrivò di volata, mi caricò in macchina e mi riportò a casa. Non mi rivolse la parola per tre giorni - cosa che in effetti può essere anche considerata un bene, parlando di lei - ma poi non cercò più di mandarmi in campeggio, se non altro.
Non recuperai mai il mio bel cappello viola e con i pompon. Non che questo mi rattristi, non era certo l’ultimo regalo fattomi da una nonna morente o che so io – me l’aveva comprato mio padre due giorni prima al centro commerciale – ma era il gesto in sé che mi aveva infastidita, ecco.
Comunque sia, a casa Summers nessuno era come quegli orribili bambini. Tutti erano gentili, lì, o semplicemente troppo indaffarati.
Mi guardai intorno, cercando nel labirinto pieno di bozzi del pavimento un posto dove accasciarmi, senza successo. In compenso, rischiai di finire a terra per la terza volta in un quarto d’ora, a causa di uno dei maledetti pupazzi di Winnie-the-Pooh di Chloe: quella volta la colpa era di Tigro, che fissava il soffitto con i suoi tondi ed ebeti occhi di plastica.
Un rumore improvviso, simile ad un grugnito, mi fece sobbalzare. Un vampiro, forse? Mi voltai nella direzione del suono, puntando davanti a me la cosa più simile ad un’arma che avevo sottomano, ovvero quello stupido peluche.
Ma era solo Andrew, che russava scompostamente sul divano.
“Prova a tirarglielo contro” mi suggerì una voce impastata dal sonno “Magari smette”.
Abbassai gli occhi e scorsi il volto di Molly fare capolino da sotto due coperte. Aveva le occhiaie e la fronte corrugata.
“Credo che Chloe se la prenderebbe” mormorai in risposta.
“Figurati. Manco se ne accorgerà” una mano di Molly, come un granchio pallido, strisciò fuori dalle coperte e indicò con un gesto vago un sacco a pelo che respirava pesantemente.
Feci spallucce, presi la mira e lanciai Tigro. Che mancò clamorosamente il bersaglio e cadde dietro al divano.
“Dove sono gli altri?” chiesi a Molly.
“E chi lo sa?” rispose lei, coprendo uno sbadiglio con la mano “Mi sono addormentata un’ora fa, non so dove siano andati”.
“Beh, credo che andrò anch’io a farmi un giro. Ho bisogno di schiarirmi le idee” le dissi.
Nessuna risposta. Molly si era già riappisolata, nonostante il russare di Andrew si fosse fatto più pesante. Già. Una passeggiata era quello che ci voleva. C'erano ancora due ore di luce abbondanti, e nemmeno gli orribili servi ciechi del Primo uscivano in piena luce del sole. Mi calcai uno dei miei migliori cappelli in testa ed aprii la porta; l’aria frizzante del pomeriggio mi accarezzò la faccia, dandomi una dolce scossa che mi risvegliò almeno in parte dal torpore e dalla stanchezza.
Nessuno sapeva che stessi uscendo… Ma tanto, tra un’oretta sarei stata di nuovo lì.



La fastidiosa vocetta che mi diceva che avrei dovuto avvertire qualcuno della mia passeggiata era stata fastidiosamente precisa.
Mi perdetti.
Girai a vuoto per due ore per le vie di Sunnydale, e non riuscii proprio a ricordarmi come avevo fatto ad arrivare lì, e soprattutto come tornare a casa.
E quel che era peggio, era che si sta facendo notte.
Fermati, Vi. Fermati e fai un bel respiro profondo…
No, quella non era una buona idea. Fermarsi significava perdere tempo. Meglio continuare a camminare.
Pensiamoci un attimo... Se io fossi Buffy e mi trovassi in una situazione simile, che cosa farei?
Beh, in effetti se fossi stata la Cacciatrice me ne sarei andata tranquillamente in giro di notte prendendo a calci i vampiri nei loro demoniaci fondoschiena. Forse era l’esempio sbagliato da prendere in considerazione…
Oh, ecco un caffè! E se mi infilassi lì dentro e cercassi di ricordarmi qual è il numero telefonico di casa Summers?
L’interno del locale era carino e accogliente. I clienti non erano molti; sembrava che gli abitanti di Sunnydale, anche se la maggior parte di loro non sapeva di abitare sopra la Bocca dell’Inferno, avessero una certa sensibilità al soprannaturale, e tendessero a non trattenersi troppo a lungo nelle strade quando calavano le tenebre.
Non avevo molti soldi con me… beh, a dire il vero non avevo nemmeno un centesimo, dato che uscendo non mi ero preoccupata di portare con me neppure il portafogli, ma se mi fossi seduta in un angolo e me ne fossi stata quieta non avrei dato fastidio a nessuno, no?
”Ehi, tutto bene? Hai l’aria di una che ha smarrito la strada”. Un ragazzo mi comparve davanti; i suoi capelli castani erano spettinati, e gli occhiali dalla montatura sottile erano scivolati lungo il naso fin quasi sulla punta. Indossava una maglietta a righe su cui era fissata una targhetta che diceva “Derek”. Se questo non fosse bastato a farmi capire che era un cameriere, il grosso vassoio su cui erano ammonticchiate una ventina di tazze vuote era un indizio piuttosto convincente.
“Ecco… a dire il vero, è proprio quello che è successo” risposi, balbettando leggermente.
Lui sorrise, appoggiando il vassoio sul bancone del bar. “Beh, in condizioni normali ti direi: “Benvenuta all’Espresso Pump, vuole ordinare qualcosa?”. Ma dato che sto per staccare dal turno, che ne dici di sederti e di raccontarmi che cosa c’è che non va? Offro io, ovviamente”.
“Non sarai per caso un maniaco o un demone?” gli chiesi impulsivamente.
Il sorriso di lui si allargò. “Non che mi risulti. Solo uno studente universitario che lavora qui per pagarsi gli studi… E per quanto ne so, i demoni non hanno la tessera della previdenza sociale. Allora, cosa vuoi che ti porti? Ti consiglio il cappuccino, anche perché tutto il resto è disgustoso. Ma che questo resti tra noi”. E detto ciò, Derek sparì dietro il bancone, solo per ritornare cinque minuti dopo con due tazze fumanti e senza targhetta.
“Come ti chiami?” chiese lui, versando distrattamente lo zucchero nel cappuccino.
“Ehm… ecco, io…”. Affondai lo sguardo nella schiuma che ricopriva la sommità della tazza.
Questo tipo è gentile. Troppo gentile. E da che mondo è mondo, le persone di quel tipo nascondono sempre qualcosa; anzi, spesso non sono nemmeno delle persone.
“Ehi, tu il mio nome lo sai! Hai visto il cartellino!” disse lui, fingendosi corrucciato. Davanti a quell’espressione da bambino capriccioso, con la fronte aggrottata e il labbro inferiore sollevato su quello superiore, non riuscii a trattenere una risatina.
“Mi chiamo Victoria. Però chiamami Vi, lo fanno tutti”.
“E perché? Victoria è un nome così bello!” esclamò lui, mescolando il cappuccino.
“Dici? Io lo odio. Perché non posso chiamarmi Helen, o Anne, o con qualche altro nome banale?”.
“Se la cosa ti può consolare, nella mia classe di scienze sociali alle superiori c’erano due ragazze con nomi assurdi... Una si chiamava Cordelia. E pensa che suo padre non conosceva nemmeno Shakespeare, era un cretino che secondo me non aveva finito nemmeno le elementari! Però era ricchissimo, perciò tutti lo rispettavano. Poi si scoprì che aveva frodato il fisco e tutto il suo patrimonio fu confiscato. Chissà dov’è finita, Cordelia…”. Derek si concesse qualche secondo di silenzio, probabilmente per ricordare i bei tempi del liceo. Bevve un sorso di cappuccino, sporcandosi di schiuma i peli radi sopra il labbro superiore. “E poi, c’era Buffy”.
“Conosci Buffy?” esclamai, rischiando di rovesciare la tazza.
“Di vista” replicò lui, laconico “Sembra che tu invece sappia benissimo chi è”.
“Sì, lei è mia… cugina” risposi, sparando la prima bugia che mi viene in mente “Al momento sono ospite a casa sua. Ma sono appena arrivata in città, e stupidamente ho voluto fare un giro da sola… Così mi sono persa, e ora non so più come tornare a casa”.
“Non preoccuparti. So dove abita… sempre che viva ancora al 1630 di Rovello Drive” Derek si fermò per un attimo, fissandomi con aria eloquente. Io annuii per confermare le sue parole, e lui proseguì “Non mi pare di averle mai rivolto la parola, però per un certo periodo ho avuto una cotta per lei. In effetti gran parte dei miei compagni di corso le andavano dietro, più o meno. Nessuno si è mai dichiarato, comunque, avevamo troppa paura di lei…”.
“Già. Non sei il solo” feci eco io.
“Anche tu? Ma non è tua cugina?”.
”Beh, ci siamo conosciute solo di recente. Molto di recente, a dire il vero. E comunque sì, a volte mi spaventa. Ehi, questo cappuccino è buonissimo! Non hai detto che ciò che servono qui è pessimo?”.
“No: ho detto che tutto è pessimo, tranne il cappuccino. Allora, come sta la vecchia Buffy? Sai, lei ci ha salvato la vita, il giorno della cerimonia di consegna dei diplomi”. Subito dopo, Derek si zittì, corrugando la fronte. Dalla sua espressione compresi che ciò a cui aveva appena accennato non doveva essere stato particolarmente piacevole.
Ormai, però, lui mi aveva messo la pulce nell’orecchio. Vincendo la mia naturale ritrosia, decisi di insistere. “Perché, che è successo il giorno della cerimonia? Qualcosa di…” pausa drammatica, tono di voce più basso “…soprannaturale?”.
Derek sospirò. Sorbì il suo cappuccino lentamente fino a finirlo, quasi cercando il coraggio per continuare nello zucchero in fondo alla tazza, poi riprese a parlare sussurrando. “E va bene. In pratica, l’ex sindaco di questa città durante la consegna dei diplomi si è trasformato in una specie di serpente gigante…”. Mi guardò per cercare di capire se fossi sorpresa o lo ritenessi pazzo. Parve rincuorarsi e proseguì “Comunque, Buffy e i suoi amici sembravano a conoscenza di tutto quanto con molto anticipo. Per un po’ fu divertente tenere una mazza ferrata sotto la toga mentre la banda suonava Pomp and circumstance, era una specie di bravata. Ma dopo che è apparsa quella mostruosità, e poi l’eclisse, e quel gruppo di tizi dal volto deforme… Corsi via più veloce che potevo. Mentre ero ormai a una decina di isolati dalla scuola, con la milza in fiamme e il fiato corto, sentii il suono dell’esplosione, poi i pompieri a sirene spiegate” Derek deglutì, scuotendo la testa “Decisamente le battaglie contro mostri non fanno per me”.
“Già. Spesso lo penso anch’io” dissi in tono partecipativo.
“Perché? E’ una tradizione di famiglia?” chiese Derek sorpreso.
Piegai la testa di lato, e il cappello mi scivolò su un occhio. “Sì… diciamo pure che è così”.
E così, continuammo a parlare. Io gli raccontai tutto quello che mi veniva in mente, e lui mi stava ad ascoltare. Poi lui mi parlò dei suoi studi universitari, e toccò a me prestare ascolto.
E mi piacque. Mi piacque molto.
Di solito non sono particolarmente comunicativa. Ho paura che ciò che dico sia stupido, e di annoiare gli altri. Con Derek fu diverso; era come se la sua presenza mi spingesse a tirare fuori tutto quello che avevo dentro. E poi era divertente e spiritoso. Ed anche molto carino.
Mi sarebbe piaciuto che questo momento fosse durato per sempre. Poter stare lì a parlare con lui davanti ad una tazza vuota di cappuccino, mentre il tempo fuori non passava e io non dovevo preoccuparmi di essere brutalmente uccisa da qualche mostro uscito dall’Inferno per l’occasione.
Senonchè, ad un certo punto, una frase di Derek mi risvegliò dall’incantesimo. “Ci conviene andare, che dici?”.
“Dobbiamo proprio?” chiesi io, in tono malinconico.
Lui fa spallucce: “Fosse per me rimarrei qui anche tutta la sera, ma sono le otto e questo posto chiude fra cinque minuti, quindi…”.
“Cosa?” esclamai, sconcertata. Il cappello mi scivolò dalla testa e si adagiò sul tavolo come una flaccida medusa colorata. Mi affrettai a calcarmelo in testa “Sono già le otto?”.
“Già” rispose lui “Il tempo vola, quando ci si diverte, eh?”.
“Forse… forse è proprio meglio che andiamo…” dissi, dirigendomi con fare titubante verso l’uscita “Buffy… cioè, mia cugina sarà in pensiero per me…”. Perlomeno, sperai che a casa Summers qualcuno si fosse accorto della mia assenza. Derek, con fare cortese, mi aprì la porta del locale. Fuori la sera era fresca, ma non fu quello il motivo per cui mi sfuggì un tremito. La notte era il regno dove dimoravano gran brutte cose.
“Sei in macchina?” chiesi, attaccandomi ad un sottile filo di speranza.
“Scherzi? Con quello che guadagno qui non riuscirei a permettermi nemmeno la benzina! Non preoccuparti, comunque, la casa di tua cugina si trova ad una ventina di minuti a piedi, non ci metteremo molto”. Anche lui sembrava un po’ preoccupato. Dopo quello che mi aveva raccontato sulla cerimonia dei diplomi, immagino che anche lui avesse intuito che Sunnydale non era proprio la cittadina più normale d’America.
Iniziammo a camminare. A passo abbastanza svelto. Derek alzò il colletto della giacca e mi prese a braccetto. Anche questo non mi dispiacque per nulla.
“Allora…” iniziò lui, in tono nervoso, senza aggiungere altro. La parola aleggiò per un attimo intorno alla spettrale luce dei lampioni che illuminavano la strada deserta, come una pallida bolla di sapone, per poi scomparire. Passò quasi mezzo minuto prima che Derek riaprisse bocca. “Vieni dal Texas, vero?”.
”Sì!” confermai “Come hai fatto a capirlo? Mi dicono tutti che il mio accento non è così forte”.
“Il ramo materno della mia famiglia è di Houston, quindi ci ho fatto l’orecchio. Fino a tredici anni ho vissuto vicino a El Paso”.
”Ehi, io vengo da lì!” esclamai “Chissà, magari, quando eravamo bambini ci siamo anche visti!”.
“Spero per te di no” disse lui, ridendo “Da piccolo ero una vera peste!”.
All’improvviso, davanti a noi, una zona d’ombra. Tre lampioni erano fulminati, e il buio che incombeva sulla strada sembrava una bocca pronta ad inghiottirci. Istintivamente, iniziammo a camminare un po’ più veloci. Un passo nel buio, due, tre. Una dozzina di metri ci separavano dalla prossima oasi di luce.
”Beh, anch’io non scherzavo! Una volta, in campeggio, un ragazzino mi ha gettato il cappello in una pozzanghera, e per tutta risposta l’ho spedito in ospedale!” la mia voce suonò stranamente ovattata, ma forse fu solo una mia impressione. Ancora un paio di passi e saremo stati fuori…
Derek aprì la bocca, forse per rispondermi. Poi, un rumore di corsa, un gemito, uno strattone, e all’improvviso non sentii più la rassicurante pressione del braccio di lui contro il mio. In compenso udii un urlo.
"Derek!" gridai a mia volta, correndo nella direzione da cui avevo udito provenire quei passi sospetti.
Essendo buio, però, non vidi il dislivello causato dal marciapiede e caddi - questa volta sul serio - lunga distesa a terra. Mentre l'urlo di Derek si spegneva in un gorgoglio che non preannunciava nessuna buona nuova, mi rialzai in piedi, mi sistemai meglio il berretto sulla testa e mi diressi di corsa verso un vicolo laterale.
Come se non aspettassero che quel momento, i tre lampioni che credevo fulminati si accesero.
Derek era accasciato a terra, gli occhi semichiusi e il respiro spezzato, e su di lui era piegata una donna dal volto deformato in una smorfia ferina, che gli stava succhiando il sangue dal collo. Una vampira. Oppure la reduce da un'operazione di chirurgia facciale eseguita dal medico più incompetente di questo mondo, ma era più probabile che fosse una vampira.
Avevo contribuito ad uccidere uno di quegli infernali demoni qualche sera prima. Ma eravamo in quattro. Io comunque ero riuscita a ferirlo ad un braccio, e le braccia dei vampiri possono essere pericolose quanto il loro morso, sapete? Possono spezzarti il collo come un fuscello, se riescono ad afferrartelo.
La creatura non sembrava molto contenta del mio intervento sulla scena: con un agile balzo abbandonò il corpo esanime di Derek e mi si avventò contro, il viso contorto dall'ira e dalla fame. Indietreggiai, ma mi ritrovai subito con le spalle al muro, bloccata da una pila di vecchie casse di legno. Istintivamente spezzai una delle assi mezze marcite e la puntai davanti a me, come un improvvisato paletto.
Alla vampira occorsero... diciamo, due secondi, per farmelo volare via di mano. Ve l'ho detto che le loro braccia possono rivelarsi pericolose, no?
Scartai di lato, evitando d'un soffio un colpo diretto contro il mio viso, e riuscii a lanciare uno sguardo in direzione di Derek. Non riuscii a capire se fosse solo privo di sensi, oppure...
No, mi dissi, non devo pensarci. Prima devo sconfiggere il vampiro. Scommetto che anche Buffy fa così quando deve combattere: svuota la mente e lascia che niente la...
Improvvisamente un pugno mi colse al viso, facendomi cadere bocconi, ansante. Il berretto mi scivolò dalla testa e cadde davanti a me, adagiandosi con dolcezza sull’asfalto polveroso.
Maledizione! Ero così impegnata a pensare di non pensare che non mi sono accorta che quella schifosa stava per colpirmi! Con un gesto istintivo allungai la mano per afferrare il cappello e mi preparai a rotolare di lato come Kennedy mi aveva insegnato a fare giusto il giorno prima (al primo tentativo avevo rovesciato un tavolino), quando una mano artigliata mi afferrò per i capelli e mi costrinse a sollevare la testa. La vampira mi fissava con i suoi crudeli occhi gialli, che erano ad una ventina di centimetri scarsi dalla mia faccia.
Nel caso ve lo stiate chiedendo, no. Quei mostri non fanno granché per combattere il problema dell’alitosi. “Scommetto che sei una di quelle novelline che ultimamente la Cacciatrice si porta dietro” sibilò la creatura, sogghignando divertita “Beh, scommetto che le farò un favore ad ucciderti, non credo possa fare da balia a tutte voi”.
In quel momento la scarica di adrenalina che aveva riempito il mio corpo si ritirò, e divenni consapevole della situazione: un demone assetato di sangue stava per ammazzarmi, per poi banchettare con un ragazzo carino e simpatico, magari trasformandolo in uno di loro! Un ragazzo che avrebbe anche potuto piacermi, per inciso.
In un istante, maledissi me stessa per aver avuto quella dannatissima idea della passeggiata, maledissi Buffy per avermi fatto uscire dal bagno, Molly per non essere rimasta fuori dal letargo qualche minuto di più e quello stramaledettissimo pupazzo di Tigro di Chloe per non essere riuscito a colpire Andrew.
Poi la vampira fece qualcosa che non avrebbe dovuto fare.
Calpestò il mio cappello.
All’inizio ci appoggiò solo un piede, forse nemmeno in maniera intenzionale. Sennonché lei intercettò i miei occhi che si erano improvvisamente sgranati alla vista del mio povero berretto che si veniva schiacciato nella polvere.
“Sai, carina?” fece lei “Hai davvero dei gusti pietosi, in fatto di vestiti”. E detto ciò calcò con il tacco della scarpa sul cappello, premendo con cattiveria e ruotando il piede con aria soddisfatta.
Non mi è ben chiara nemmeno ora la dinamica dei fatti successivi. Ho circa cinque, forse dieci secondi di vuoto in cui sui miei occhi calò un sipario rosso, e quando esso si sollevò la vampira era indietreggiata contro il muro del vicolo reggendosi il braccio con cui fino a poco prima mi strattonava i capelli e mi soffiava contro come una gatta a cui cerchino di togliere i cuccioli.
“Me l’hai rotto, brutta…” e poi aggiunse un’altra sequela di parole che non ho assolutamente intenzione di ripetere.
“Credo che tu abbia fatto una serie di cose che non avresti dovuto fare” mi ricordo che queste parole uscirono dalla mia bocca, pronunciate in un tono che non avrei mai pensato di poter utilizzare “Primo, hai disturbato la mia passeggiata” mi avventai su di lei come una furia e le sferrai un calcio contro uno stinco. Lei non riuscì a pararsi e si chinò, gemendo per il dolore. “Secondo, hai succhiato il sangue ad un ragazzo che forse mi piace” approfittai del fatto che fosse piegata per assestarle un pugno nel fianco. “Terzo, hai minacciato di uccidermi”. Un altro calcio.
Ormai la vampira era stesa a terra, e mi fissava con odio. Non credo che a quel punto potesse fare molto altro.
“E, ultimo” staccai un'altra asse appuntita dalla pila di casse di legno “HAI ROVINATO IL MIO BELLISSIMO CAPPELLO!”. Poi, calai il paletto improvvisato sulla creatura.
Mancai clamorosamente il bersaglio, colpendola ad un braccio. Non quello che le avevo rotto, l’altro. Comunque sia, le avevo inflitto un danno considerevole. Non so se lo sapete, ma le braccia di un vampiro possono essere…
No, un momento, mi sembra di avervelo già detto.
Dopo aver borbottato un certo numero di minacce varie con un tono molto meno spavaldo di prima, la creatura si rialzò e se la diede a gambe più velocemente che poté. Considerato come l’avevo conciata, non avrebbe certo potuto vincere i cento metri piani nemmeno se avesse concorso con dei ragazzini delle medie. Non appena fui certa che il mostro si fosse allontanato, mi precipitai da Derek. Non avrei saputo dire quanto fossi sollevata quando scoprii che respirava con regolarità, e il suo cuore batteva, anche se piuttosto debolmente: non era in pericolo di vita, per fortuna. Proprio mentre stavo facendomi prendere di nuovo dal panico, sentii delle voci concitate provenire dalla strada. Voci che stavano chiamando il mio nome. “Vi! Vi, dove sei?”.
“Sono qui!” gridai, sentendomi come l’eroina di un film che viene salvata all’ultimo secondo dai soccorsi. Pochi secondi dopo dall’imboccatura del vicolo sbucarono Willow e Kennedy, che mi fissavano con apprensione.
“Si può sapere che cosa ti sei messa in testa? Ci hai fatto preoccupare, credevamo che il Primo ti avesse irretita e attirata a sé, o peggio!” mi disse Willow, singhiozzando leggermente. Sembrava che avesse pianto, e questo provocò in me l’esplosione di un bizzarro composto chimico di sentimenti: mi sentivo colpevole e stupida… però ero felice che si fossero preoccupati per me e si fossero mobilitati per il mio recupero.
“Chiamo un’ambulanza” le fece eco Kennedy, più pratica, che aveva notato Derek steso a terra ed aveva estratto un cellulare dalla tasca dei jeans. Mentre componeva il 911 mi lanciò un’occhiata piuttosto significativa. “Dopo ci spiegherai tutto per filo e per segno” sembrava dire.



Se c’è una cosa che a Sunnydale funziona bene è il pronto intervento ospedaliero. I piloti delle ambulanze hanno così tanto lavoro, a causa di tutte le morti sospette che avvengono, che probabilmente potrebbero concorrere ad Indianapolis e vincere. Sì, anche guidando le loro ambulanze.
Gli infermieri addetti a caricare sulla barella Derek non ci fecero troppe domande: anche loro dovevano aver intuito che quando qualcuno veniva ritrovato con due buchi sanguinolenti sul collo la causa delle ferite non era qualcosa che si potesse denunciare per lesioni aggravate, o peggio, per omicidio.
Proprio mentre lo stavano caricando sull’ambulanza, Derek aprì gli occhi. Si guardò un attimo intorno finché non trovò il mio viso.
“Mi dispiace… per il tuo cappello” mormorò, un pallido sorriso sulle labbra.
Istintivamente, strinsi al petto il cencio polveroso e strappato che era stato uno dei miei berretti preferiti (sì, l’avevo recuperato dopo il combattimento. Non ci posso fare niente, è più forte di me). “Non devi preoccuparti, l’importante è che non ti sia successo niente di grave…” dissi.
“No… non sto parlando di questo cappello…” rispose lui. Deglutì un groppo di saliva e disse, proprio mentre la barella veniva caricata sull’ambulanza “Intendo quello… che ti buttai nel fango, quella volta al campeggio…”.
Poi le porte della vettura si chiusero ed essa partì, lasciandomi in mezzo ad una strada male illuminata a pensare a quanto a volte la vita potesse rivelarsi una vera bastarda.



“…E questo è tutto” conclusi così la mia spiegazione, proprio quando io, Willow e Kennedy eravamo ormai sulla porta di casa Summers. Non avevo parlato perché sentissi il bisogno di farlo, ma perché in fondo glielo dovevo.
“E così anche tu hai avuto la tua prima delusione d’amore” sospirò Willow, frugandosi le tasche alla ricerca della chiave per aprire “Benvenuta nel club”.
“Comunque, davvero, Vi” mi ammonì Kennedy “Dovresti cercare di superare quella storia. Capisco che da bambina la cosa possa averti traumatizzato, ma se lui ti piace e tu piaci a lui non credo che non dovresti più vederlo solamente perché lui ha rovinato uno dei tuoi cappelli. Quando avevo cinque anni la mia sorellastra gettò i miei soldatini preferiti nella mangiatoia dei cavalli: che avrei dovuto fare, ammazzarla?”. L’aspirante Cacciatrice intercettò uno sguardo stupito di Willow. “Sì, hai capito bene, soldatini. Che posso farci? Ho sempre odiato giocare con le bambole, e ho iniziato a tirare con l’arco solo un anno dopo. Però, Vi, promettimi che cercherai di superare questa tua assurda mania dei cappelli e dare a quel ragazzo un’altra possibilità!”. Kennedy sospirò “Devo ammetterlo, ogni tanto la tua collezione mi inquieta… Non quanto quella di peluche di Chloe, intendiamoci… Ogni tanto ho il sospetto che gli occhi del pupazzo di Ih-Oh si muovano, se lo sto guardando di sfuggita. Will, pensi che ci sia un demone che prende possesso dei peluche?”. “Certo che esiste” rispose lei, abbassando la maniglia “Si chiama “Paranoia”. Adesso entriamo in casa, qui fuori comincia a fare freddo”.
Così, eccoci alla fine della storia. Mi presi una solenne strigliata da Buffy (che però alla fine mi confidò di avere fatto ben di peggio, quando aveva la mia età. Come se lei fosse una zitella cinquantenne, poi!), Dawn mi offrì i biscotti che aveva preparato ad economia domestica per consolarmi, ed Anya mi ragguagliò sulla sua passata vita da demone informandomi che circa centocinquant’anni prima aveva fatto in modo che ad un uomo di nome Derek cadesse addosso una pioggia di letame ogni volta che apriva bocca. Davvero, avrei fatto volentieri a meno di quest’ultima precisazione.
Pensandoci, comunque, Kennedy aveva ragione: è stupido vivere sempre rimanendo aggrappati alle disgrazie del passato; spesso, ripensandoci, dei torti fattici che possono sembrare gravi dopo anni ci appaiono come delle inezie. E poi, pensai sorridendo mentre entravo in soggiorno, l’ospedale cittadino non era poi così lontano…
Questo avrebbe potuto essere un lieto fine un po’ dolceamaro, come in quei film che piacciono tanto a mia madre in cui lei se ne va perché deve girare un film in Europa, oppure perché deve andare a vaccinare i bambini nel Bangladesh o che so io, ma si capisce che alla fine ritornerà dal suo unico amore. Se non fosse per un piccolo particolare.
Non appena entrai nella stanza, Molly mi venne incontro con un’espressione da funerale. “Vi, credo che dovresti sederti, prima di sentire quello che sto per dirti”. Meccanicamente, feci come mi era stato detto. Molly prese un bel respiro profondo, sembrò decidere che non era sufficiente e ne prese un altro. “Ti ricordi… ti ricordi quel tuo cappello, quello per cui ti ho presa in giro dicendo che sembrava quello di un elfo, quello color verde fosforescente, hai presente? Ecco… quando Andrew si è svegliato dal sonnellino, prima, ha esagerato con i nachos e la salsa al tabasco e si è sentito male. E dato che non ce l’avrebbe fatta a correre fino in bagno per vomitare, ha preso la prima cosa che gli è capitata in mano, e…”. Molly scosse la testa, abbassando gli occhi “Credimi, Vi: tu non vuoi sapere che cos’è successo al tuo berretto”.
Già. Non dovevo più prendermela così tanto se qualcuno rovinava uno dei miei cappelli… Ma potevo cominciare dal giorno dopo, no?
Così mi alzai, con un sorriso stampato sul volto, mi avvicinai ad Andrew, che mi fissava con espressione dispiaciuta, e poi gli tirai un pugno nello stomaco con tutta la forza che avevo.
Certe volte un gesto di insensata violenza può far stare molto meglio, sapete?
  
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