09/10/2012
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La legge del lettone
Capitava spesso che Daisuke si ritrovasse a dormire in un letto che non era il suo.
Ma non poteva farci nulla: il divano – letto della casa coniugale di Ken e Miyako era morbido, allettante e pronto ad abbracciare tutti i suoi sogni. Fin troppo accomodante.
E sogghignava quando li sentiva litigare a perdifiato e si compiaceva del fatto che i polmoni di Miyako fossero in ottima salute, mentre immaginava Ken annuire con remissività e il capo chino in sottomissione.
Quel rumore di fondo era gradevole quasi quanto gli scoiattoli animati che cantavano a squarciagola in televisione, in quel patetico programma per bambini d’età celebrale superiore a quella di Daisuke che, visto che non riusciva a capire dove si trovasse il pennarello rosso della canzone, preferiva concentrarsi su quegli screzi che incrinavano e scardinavano le porte del Paradiso.
“Quello scansafatiche deve andarsene di qui, devi cacciarlo!” sbraitava Miyako, con le sopracciglia da megera piegate all’ingiù come falci spioventi, pensava Daisuke
“Vecchia strega …” soffiava, poi, abbandonandosi a uno sbadiglio noncurante
“Ma io …”
Ken cercava di parlare, ma come al solito il piglio nazi – fascista di Miyako prendeva il sopravvento.
“Dorme in mutande, capisci?!”
“E tu non guardare …”
“Mi è impossibile! E poi è un’indecenza, specie per i bambini …”
Daisuke rise sommessamente.
Il fatto che i suoi nipoti acquisiti l’avessero scoperto a canticchiare Kylie Minogue in mutande doveva essere stato una sberla morale, eppure il suo volto conteneva quella sfacciata compiacenza che lo rendevano una faccia tosta.
Ken usciva dalla stanza in punta di piedi e col capo chino, rivolgendo un’occhiata prostrata a Daisuke, già pronto ad abbracciare gli sfoghi esistenziali dell’amico che iniziava finalmente a ragionare sul fatto che sua moglie fosse una dittatrice senza prevenzioni morali.
Era sempre così che finiva.
Il fatto che ora Daisuke avesse un appartamento era una benedizione poiché gli alterchi li evitava come la peste.
“Tutto bene?” chiedeva, di prassi, la mattina successiva quando svegliava Ken per la colazione.
Erano ormai settimane che latitava nel suo nuovo appartamento e Daisuke accondiscendeva per tener fede al codice morale che avevano coniato come legge del lettone.
Ken annuiva, consumando in silenzio i cibi precotti che offrivano le magre dispense di Daisuke.
“Pensi che Miyako mi perdonerà?”
“Vediamo… Dopo quasi quattordici giorni e un tot spropositato di ore … Sì, penso che ti perdonerà” asseriva Daisuke, nascondendosi furtivamente per sogghignare soddisfatto.
A Ken gli si illuminavano gli occhi allora.
“Quindi pensi che dovrei parlarne?”
E la loro grottesca gag non faceva che ripetersi sistematicamente tutte le sacrosante mattine.
“Assolutamente sì”
Allora Ken, ristorato da nuovi stimoli, trangugiava voracemente quel che rimaneva del sostanzioso pasto precotto e usciva frettolosamente.
Daisuke si concedeva all’indolenza più franca e si abbandonava alla sua condizione di individuo socialmente refrattario.
I colori e le parole della sera, declinate in ogni loro sfumatura bluastra, giungevano puntualmente senza bisogno di convenevoli.
Il campanello trillava sempre allo scoccare dell’ora di cena per Daisuke era un semplice, grottesco conto alla rovescia.
Un trillo asmatico.
Il cigolio della porta a cui niente sfuggiva: Ken col volto in segno di sottomissione e il cambio per la notte in una busta per la spesa, le pantofole ai piedi e i capelli scarmigliati.
Daisuke sogghignava silenziosamente.
“Vuoi fermarti di nuovo a dormire?”