..come negli occhi delle persone.
A Giuls, perchè la realtà a volte
fa più schifo delle storie
che scriviamo.
(E per l''amore infinito verso
questo paio di occhi scuri)
Lo specchio del bagno è distrutto, una scheggia di vetro
riflette il rosso scarlatto che sgorga dal solco tra le nocche in cui è conficcata.
Dalla finestra aperta riesce a sentire il suono delle sirene fermarsi sotto il
viale. Conta dieci passi e tre tocchi alla porta prima di aprire il rubinetto e
infilare le mani insanguinate nell’acqua bollente.
Quel maledetto nodo di terrore preme contro le pareti della
gola spingendosi verso il palato bloccando la lingua in un mutismo serrato. Gli
occhi fissano il vuoto. Questa volta c’era andato dannatamente vicino.
Nicotina. Ha bisogno di nicotina. Caccia dalla tasca
strappata di un paio di Jeans logori e macchiati la busta del tabacco e se la
porta sotto il naso. L’odore gli ricorda la dolcezza di un’età che non gli
appartiene più, in cui le bugie erano delle bellissime verità agli occhi
ingenui di un bambino che credeva alla storia del padre assente perché coinvolto
in certi affari segreti di cui era l’eroico portatore. Aveva accettato
silenziosamente di crescere senza un padre rispettando il profondo dolore che
scorgeva negli occhi della madre. Si ammazzava di lavoro da quando aveva undici
anni solo per mantenere in vita quella donna che pareva aver perso qualsiasi
speranza, donando l’anima al ricordo di un uomo ridotto a un sorriso catturato
sulla cellulosa ossidata di una fotografia sul camino.
Il naso inclinato segnava la fine delle bugie e l’inizio di
una serie di verità che aveva il suono di ossa rotte e il sapore ferroso del
sangue sulle labbra. Il padre steso su
un letto di ospedale senza più vita in corpo e l’annuncio della perdita di uno
dei più grandi pugili della storia erano state più convincenti di qualsiasi altra
bella storia raccontata alle orecchie di un bambino per farlo addormentare la
notte.
Al bel sorriso
mancavano quasi tutti i denti e il resto.. non c’era una fottuta cosa che
potesse ricondurre quell’ammasso di ossa e carne al ritratto dell’uomo sul camino.
La parola “coma” aveva preso ad assumere un tono fin troppo familiare tanto che
quando fu sostituita da “morte” quasi si
sentì sollevato.
Aveva imparato a
leggere nelle ferite aperte di quel corpo irriconoscibile : la clavicola
sporgente segnava la fine di una carriera; Il naso rotto e le gengive
sanguinanti raccontavano la storia di un uomo che non aveva smesso di
combattere; le numerose cicatrici cerchiate sugli avambracci parlavano di
un divertimento macabro e fuori da ogni
limite di decenza; le dita mangiate di
una mano e la mancanza di un rene potevano solamente indicare la disperazione
di un uomo che vendeva se stesso pur di aver salva la vita.
La fasciatura bianca è già sporca di un’emorragia che
affonda i denti nella pelle, nella carne e nei pensieri che scivolano
macchiando il pavimento di parole silenziose che non appartengono più a nessuno
e che non chiederà mai indietro. L’ultimo tiro come un ultimo lungo respiro
prima di gettare il mozzicone nel cumulo di cadaveri di catrame affiancati ai
flaconi mezzi vuoti di shampoo dagli odori anonimi.
Al piano inferiore la porta si richiude dietro i passi
pesanti delle sentinelle. Aspetta seduto con le spalle poggiate allo stipite
spaccato della porta; la faccia sporca delle proprie colpe e del risentimento e
della paura. Arriva. Gli occhi assenti
che lo guardano carichi di rabbia e vergogna si accendono di preoccupazione e
terrore quando i fanali della volante fendono per un secondo l’oscurità della
stanza rivelando il suo viso martoriato. Piange, seduta sul letto pregando un
nome e chiedendo pietà per un ragazzo condannato ai peccati del padre.
Impiega mezzo minuto ad alzarsi e quasi mezzora per riuscire
a lasciarsi il terrore alle spalle e muovere i venti passi che lo dividono
dalla porta di casa sua. Ad ogni passo il nodo si scioglie e barlumi di
lucidità tornano come scariche elettriche insieme alle immagini non più confuse
del circolo infernale scelto per lui quella sera.
Uno.
L’insegna del Temple che getta un piscio di luce gialla
intermittente lungo la strada deserta. La prima voce lo chiama a destra la
seconda a sinistra, alla terza è circondato. Il primo pugno gli mozza il
respiro, sente la costola rotta pungere e spingere contro lo sterno. I lunghi
capelli neri gli coprono la visuale ma riesce comunque a muovere un passo verso
l’aggressore e a rendergli il favore. Sente le ossa del naso aquilino
incrinarsi sotto le nocche e spalmarsi come marmellata lungo la fronte a
qualche millimetro dal cervello.
Due.
Un odore familiare: minaccia. Ride in faccia alla superbia
di una fittizia autorità rompendo di nuovo gli inesistenti legami di un figlio
con i debiti del padre. Il colpo gli arriva dritto in faccia, questa volta da
entrambi i lati: uno ha il sapore di carne lacerata, l’altro di calce e vernice
spray.
Tre.
“Sembra quasi che non sia figlio di tuo padre. Era molto più
forte, la vedi questa? Aveva nascosto il temperino nella tasca dei pantaloni,
ho rischiato la faccia per quello che si è rivelato soltanto una delusione, il
più grande fallimento della mia carriera. E anche la più grande presa per il
culo a quanto sembra. Quanto hai per noi oggi eh? Vediamo.”
E’ strano come il suono delle loro risate suoni così
isterico, fuori controllo, come se tutta quell’alterigia fosse dettata
solamente da uno spintissimo spirito di sopravvivenza. Un ghigno gli disegna le
labbra e sfida le donnine in abito scuro pronte a fracassargli il cranio.
“Se non fosse che mi sono affezionato a voi giurerei che vi
vedrei bene in una fossa qualsiasi divorati dai vermi”.
Ride. Ride in faccia alla morte, ride in faccia al disprezzo
sputando ai piedi di una paio di mocassini neri laccati la sua totale
diffidenza.
Quattro. Cinque. Sei…
Da quel punto in poi il groviglio di frame scorre
velocemente senza differenza di colore. I secondi diventano minuti e ogni colpo
sfugge alle lancette del tempo in un frastuono di ossa rotte e denti che
rotolano a terra rincorsi da proprietari senza volto. Due corpi a terra
calpestati da quattro gambe che si muovono frenetiche sorreggendo ed incassando.
Scivolano silenziosi sotto i suoi piedi afferrandolo alle spalle con le forze
inesistenti pari a quelle di due cadaveri.
Non si degna nemmeno di chiudere gli occhi, guarda il suo
volto scivolare nell’ombra e confondersi con la notte. Ascolta il suo affanno
coperto da una risatina intima che sa di risentimento e vendetta. Lo sente
avvicinarsi e avverte il colpo che sta per arrivare.
Non arriva.
“Vaffanculo stronzo!”
Il corpo dell’uomo rantola a terra, il volto sotto il piscio
dell’insegna coperto di sangue che cola dallo zigomo frantumato geme e maledice
con gli occhi ancora puntati nei suoi pieni di rabbia e frustrazione. Ha
imparato a leggere nelle ferite come s’impara a leggere tra le righe e nelle
persone come nelle pagine inchiostrate; quello sguardo, sa di una crudele
promessa, di un mortale appuntamento e di un fottuto tanto a uno per il figlio
condannato.
Lascia che le due prostitute in gesso raccolgano da terra il
mandante sfuggendo alle ulteriori e oramai noiose minacce e corre, corre, corre
sotto la luce dei lampioni nascondendosi alle sirene nelle fessure strette tra
un palazzo e l’altro. I polmoni bruciano, il viso sembra essersi trasformato in
una dannata cassa di risonanza con quel ronzio acuto nelle orecchie e le
pulsazioni fin dentro le ossa.
Venti.
Quella voce. Erano cresciuti a venti passi di distanza senza
mai rivolgersi la parola, coperti di rancori come di lividi. Ogni tanto avevo
letto le sue ferite, troppo diverse dalle sue, troppo profonde e intime. Ma la capiva. Si sentivano affini,
complici di un passato fuori dal loro controllo, di una vista acuta e lunga
come quella di un predatore o di una preda,
e adesso complici sotto una luce color piscio macchiati dal sangue di un
predatore troppo più grande di loro e stretti sotto la stessa coperta di
minacce.
Un movimento impercettibile attraverso lo spioncino attrae
la sua attenzione. L’imbarazzo non sfiora nemmeno le sue guance, l’aveva spiata
centinaia di volte dietro la finestra di camera sua. I seni sporgenti sotto la
maglietta scura, la camicia di Jeans annodata sui fianchi nudi e le mutande
sempre troppo bianche e trasparenti. Il desiderio lo aveva imparato sbirciando
quella bambina crescere attraverso una finestra, aveva imparato a conoscere le
reazioni del suo corpo odiando le forme troppo spinte di quella fottuta
ragazzina che gli aveva appena salvato il culo consapevole di ciò che avrebbe
significato.
“Mh, carino.”
“Anche il tuo”.
“Sì, ci sto
lavorando”.
“Che cazzo ti è preso?”
“Prego, figurati!”
I muscoli delle braccia gemono sotto il flusso di rabbia che
le spinge verso la porta di legno. Potrebbe prenderle un polso e farla
scivolare a terra ma il suo sguardo lo inchioda sul posto ad imprecare sulle
sue labbra rosse e macchiate di sangue.
“Stone. Non ho paura”.
Complici. Condannati e
complici. Affonda i denti nella sua carne martoriata, la saliva si mischia
al sangue e il palato al ferro. Determinati
a vivere quanto a morire. Spinge la lingua contro la sua, i polsi scivolano
di fianco al suo viso livido e lo zigomo pulsa sotto il palmo di lei. Figli di peccati e debiti. Le nocche
sanguinano, i tagli si riaprono, il sangue scivola lento e copioso tra di loro. Vivi di una passione densa e scarlatta.
Ma questa sera le ferite smettono di parlare e i suoi occhi di leggere. Viola di ematomi ridotti a corpi che scivolano l’uno nell’altro. Figli di nessuno, figli di se stessi. Per una sola-fottuta-notte.
***
Ultimamente scrivo solo cose così, ed è il periodo più sì di tutta l'estate, ho la testa da tutt'altra parte ma va tutto più che bene...perchè l'angst sembra essersi preso tutte e dieci le dita per farne una sorta di intermediario. Non ho mai scritto roba di questo genere quindi è una scoperta disarmante che credo mi piaccia più del normale e per voi non si mette bene. La dedica è più vera che mai ed è a quella beata donna che sembra essersi persa chissà dove ultimamente. Vi prego ridatemela indietro più sana di quando l'ho conosciuta.
Di musica non c'è nulla..tranne qualche ora passata con le cuffiette alle orecchie e il tubo in riproduzione continua. LEi non ha nome volutamente, perchè non sapevo darglielo, perchè non mi sembrava di trovarne mai uno giusto. Lui è Stone e ora che ci penso un pò di musica c'è..ho tenuto un paio di volte il tubo su Like a stone degli Audioslave e questo ha influito più del solito. Vabbè.
Fate
ciao alla tipa che mi ha fatto il banner e fate ciao al bel figo di
Stone che nell'esatto momento in cui mi è comparso sullo schermo
ho avuto in mente di scriverci una roba su. Ed ecchilo qui. Ili_Sere_Nere grazie pezza!