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Autore: koorime    12/10/2012    4 recensioni
Dopo la morte di Sherlock, a John non è rimasta che la rabbia.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson , Quasi tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Titolo Titolo: Oh take me back to the start
Fandom
: Sherlock (BBC)
Pairing/Personaggi
: John Watson, un po’ tutti
Rating
: Pg
Charapter
: 1/1
Beta
: Samek
Words
: 6052 (fiumidiparole)
Genere
: introspettivo
Warning
: pre-slash, per come la vedo io, ma in realtà nessuno
Summary
: Dopo la morte di Sherlock,a John non è rimasta che la rabbia.
Note
: Cominciata una marea di mesi fa. Nove, per la precisione. È stato letteralmente un parto scriverla, perché io e John non andiamo esattamente d’accordo, ma alla fine ce l’abbiamo fatta. E il risultato mi soddisfa abbastanza, quindi here we are. Godetevela ♥
Il titolo è rubato a The Scientist dei Coldplay e, come mi ha fatto saggiamente notare Samek, è da interpretare come la richiesta di un miracolo ♥
Oh, e partecipa anche alla Zodiaco Challenge di fiumidiparole.

DISCLAIMER: vorrei tanto possedere Jawn, ma no, né lui né nessun altro mi appartiene .__. Neanche Molly, no *sigh*

 

Il fumo uccide. Ma la vita mica scherza. (Alfredo Accatino)

Sherlock Holmes è morto. Londra divisa sulla verità celata dietro la morte del finto genio della deduzione, recita la prima pagina del quotidiano. La ignoro, accendendo la macchina per riscaldare l’acqua.
Il silenzio mi opprime. Non avevo mai fatto caso a quanto potesse essere disturbante, a come potesse sottolineare l'assenza di qualcuno.
Prima non era così.
Prima era accolto con benevolenza.
Uno scatto secco mi riscuote, spingendomi a muovere seguendo uno schema ripetitivo, dettato dalla quotidianità. Prendo la brocca e verso l'acqua, fermandomi quando mi rendo conto di quello che ho fatto: ho preparato due tazze. Come se fosse in salotto, acciambellato sul divano, silenzioso e immusonito verso il mondo intero che non gli dà abbastanza sfide interessanti.
Osservo la seconda tazza, la superficie ambrata del tè che riflette la luce, deridendomi. L’attimo dopo la vedo andare in frantumi contro il muro accanto alla porta. Il tè bollente mi ha schizzato sul dorso, ma quasi non sento la pelle pizzicarmi, traumatizzata. Ho il cuore che mi romba nel cervello, dandomi la spiacevole sensazione di percepire l’intero corpo che pulsa sotto il suo dettato di rabbia.
Chiudo gli occhi e stringo i pugni con forza, prendendo un respiro profondo.
Il sangue mi pompa nelle orecchie e la macchia di tè cola sul muro.
Devo uscire di qui.
 

Londra è in lutto. Sembra che davvero alcuni credano alla mia – alla sua – versione della verità. Ho camminato per le strade cercando di schiarirmi le idee, di liberarmi la testa, di non pensare.
Alla fine, il mio girovagare mi ha portato da Angelo.
Stesso tavolo, stesso piatto, stesso Angelo – che mi ha fatto le condoglianze come se fossi una vedova di guerra.
Qualcuno mi riconosce – aveva ragione, la fama complica solo le cose – ma i più si tengono rispettosamente in disparte o preferiscono guardarmi da lontano, additarmi e chiedersi tra i sussurri scettici se davvero fossi all’oscuro di tutto.
Capre che preferiscono credere di essere state imbrogliate, piuttosto che ammettere di essere mediocri. Che vivano pure nella loro patetica menzogna, non mi interessa, voglio solo mangiare.
Un uomo mi si avvicina, mentre mi rimetto la giacca dopo aver salutato Angelo, per dirmi che loro credono; lo guardo in silenzio per un lungo attimo, poi stiro le labbra in un sorriso che non sento.
«Buon per lei» ironizzo, voltandomi e andandomene senza dargli il tempo di rispondere.
Non capisco il perché di tutto questo accanimento. Loro non lo conoscevano, non ci litigavano quando appestava la casa di fumo, o quando la rendeva inadatta alla vita con uno dei suoi folli esperimenti.
Nessuno di loro è stato svegliato nel cuore della notte perché – finalmente! – Lestrade aveva chiamato per un aiuto in un caso.
Di cosa dovrebbero essere dispiaciuti? In cosa dovrebbero credere?
Per loro era solo un nome su un maledetto blog.
 

Ieri è passato Mycroft. Mi ha chiesto che intenzioni avessi con le sue cose – lui vorrebbe lasciarle lì, intoccate, quindi ha rigirato a me l’onere di decidere cosa farne.
Lo ha fatto prendendo in mano il violino e per poco non gli ho ringhiato di posarlo. Probabilmente, però, deve averlo dedotto da solo, come sempre, perché ha fatto un pallido sorriso e lo ha riadagiato al suo posto, sulla sua poltrona.
«Faccia come le pare» ho detto, spostando gli occhi su qualsiasi cosa non fosse sua. Non è stato semplice. Mycroft ha sorriso di nuovo.
«La casa dei nostri genitori è piena di suoi ricordi, Dottore» ha detto appoggiandosi al suo ombrello. «E io ho un intero album di sue foto da bambino. Sono tante, più di quanto sperato, conoscendo l'astio di mio fratello per le fotografie. Motivo per cui nella maggior parte ha un broncio che lei stesso immagino conosca bene.»
«Ha un motivo questo suo divagare tanto?»
Mycroft ha sospirato e fatto un piccolo giro su se stesso, abbracciando con lo sguardo tutto l'appartamento.
«Il bello dei ricordi è che sono un'arma a doppio taglio, motivo per cui è sempre meglio... maneggiarli con attenzione». Ha scandito le ultime tre parole guardandomi negli occhi e finalmente ho cominciato a intuire il perché si trova qui. «Non deve punirsi in questo modo, Dottore.»
«Al contrario di lei» ho ribattuto, sostenendo il suo sguardo. Mycroft è rimasto impassibile, fermo e rigido nel salotto del 221B di Baker Street, mentre su Londra cominciava a cadere una pioggerella sottile.
«Amavo mio fratello, Dottor Watson, e lui nutriva per lei un particolare affetto, noto ai più.»
Ho sbuffato una risata, quasi incredulo, e quello mi ha guardato con una sorta di compassione – e solo in quel momento ho notato come non fosse al meglio della sua forma, ma non lo sono neanche io, dopotutto.
«Se ha finito, conosce la strada» gli ho detto, accomodandomi nella mia poltrona e prendendo un libro – uno a caso, solo per concentrarmi su altro – e ignorandolo completamente.
Mycroft ha preso un altro piccolo sospiro e mi ha superato, raggiungendo la porta.
«Non poteva salvarlo» ha ripreso, fermandosi sotto lo stipite. «Non poteva perché lui non voleva» ha concluso.
I suoi passi giù per le scale sono stati l’unico suono prima di un silenzio infinito.
 

A volte, sembra che il pensiero mi scivoli via, e mi ritrovo a parlare a un fantasma che non c'è.
«Tre efferati omicidi nell'ultima settimana. Scotland Yard brancola nel buio» leggo ad alta voce, sbuffando una risata. «E che diavolo aspettano a chiamarti?» aggiungo senza pensarci, quasi seguendo uno di quegli schemi già tracciati da quell'anno di abitudini consolidate.
Me ne accorgo sempre l'istante dopo averlo fatto e serro le labbra con forza, stirandole fino a farle diventare una sottile e bianca linea di tensione, come se questo potesse cancellare ciò che ho fatto.
Mi chiedo perché cada ancora in questo marasma di quotidianità quando il mondo che mi circonda è completamente diverso da ciò che era un tempo.
Niente sostanze illegali nello zucchero, niente occhi umani nel microonde, né cervelli dissezionati nel piattino del burro. Niente pizzicare di corde di violino alle quattro del mattino – dalle nove alle quattro; niente fori da poligoni improvvisati nei muri di Mrs. Huddson; niente "John, prendimi il telefono. Nella tasca della mia giacca", o “Vieni se puoi. Anche se non puoi”; niente incursioni inappropriate nella mia camera nel cuore della notte; niente bugie. Niente di niente.
Eppure la sua voce continua a risuonarmi nelle orecchie, il suo tono saccente e annoiato mi riempie il cervello con frasi sarcastiche, mentre mi esorta a sbrigarmi a vestirmi, perché un nuovo gioco è iniziato. Mi devo fare violenza per non alzarmi all'istante e obbedire all'ordine inesistente – magari abbaiandogli di smetterla di agitarsi come un bambino imbottito di zuccheri.
Chiudo il giornale e mi strofino le mani sul viso, nel tentativo – inutile – di farle smettere.
Mi sembra di impazzire.
 

Mrs. Hudson è preoccupata per me. La capisco, lo sarei anche io, se fossi al suo posto.
«Dovresti uscire un po', John caro» mi ha detto stamattina, spalancando la finestra del salotto.
«Per essere assalito da un branco di pecore che crede alle menzogne di Moriarty?» ho sbottato io, senza neanche spostare lo sguardo dal punto del muro che fissavo da ore.
Mrs Hudson si è voltata a guardarmi, le mani raccolte contro il petto, e ha scosso la testa – non c’è bisogno che la veda per saperlo, la conosco bene, ormai.
«Non ti si addice parlare come lui» mi ha rimproverato, facendomi sentire in colpa come se avessi cinque anni e mi fossi appena rovinato la cena mangiando un biscotto.
Non le ho risposto. Sono rimasto fermo, immobile e in silenzio, fino a quando non se n’è andata, proprio come un bambino che mette il broncio.
Non se lo merita, la povera Mrs. Hudson, che scopro ancora troppo spesso con gli occhi lucidi e la voce nasale, ma non posso farci niente. C’è qualcosa dentro di me che non trova pace, che ribolle e si agita, che lo rivuole indietro, che non accetta ciò che è successo, e io non so che fare.
 

Ho sognato l’Afghanistan.
Ero di nuovo lì, sul campo, ad imbracciare il fucile e a urlare ordini, pregando di non perdere altri uomini, non di nuovo. E poi è comparso lui, vestito da soldato, e mi ha sussurrato qualcosa – Mi dispiace, John –, poi si è lanciato in avanti, verso il fuoco nemico. Io ho urlato e mi sono lanciato dietro di lui perché non potevo – non potevo non potevo non di nuovo – farlo andare da solo, e un dolore lancinante mi ha preso alla spalla quando un proiettile mi ha centrato, proprio lì dove c’è davvero la cicatrice. Sono caduto in ginocchio, rovinando poi a terra, mentre sentivo il petto opprimersi sempre di più e la coscienza scivolare via; e lì, nella polvere del campo di battaglia, con il fischio dei proiettili, il tratatatatà dei semiautomatici e le urla dei miei compagni a invadermi le orecchie l’ho visto: riverso a terra, gli occhi spalancati, fissi su di me, e il sangue a imbrattargli i capelli – o ciò che ne era rimasto – colando, ancora caldo, sulla pelle pallida.
Mi sono svegliato con un urlo strozzato in gola, gli occhi che mi bruciavano per le lacrime impigliate tra le ciglia.
Mi sono coperto il viso con un braccio e ho lasciato libero un singhiozzo – solo uno – che mi ha mandato a fuoco il petto. Per un lungo, infinito istante ho immaginato di restare lì, tra le coperte, per tutto il giorno. E per quello dopo e quello dopo ancora.
Mi sono cullato nella fantasia di barricarmi tra quelle quattro mura e non dover affrontare l’ondata di ricordi che mi assale appena apro la porta.
Niente più teschio, niente sigarette abbandonate sul divano, niente esperimenti incompiuti che ingombrano il tavolo. Niente più il suo odore in ogni centimetro quadrato dell’appartamento.
Mi sono alzato.
 

Ho incontrato Molly.
Sono andato al St. Bart. O, per meglio dire, mi ci sono trovato senza neanche rendermi conto di averlo voluto fare. Un attimo prima mi stavo ripetendo in mente la lista della spesa uscendo dal portone di casa, e l’istante dopo ero di fronte l’edificio, nello stesso punto in cui ero quel giorno.
Attraversare la strada ed entrare è stato automatico, semplice e difficilissimo insieme.
Ho fatto le scale con calma, senza pensare a cosa stessi facendo davvero fino a quando non mi sono trovato davanti la porta del terrazzo.
Arrivato lì, il metallo freddo sotto la mano, ho avuto l’irrazionale speranza che, una volta aperta, mi avrebbe accolto la visione di lui fermo sul davanzale, il telefono accostato all’orecchio e gli occhi fissi su di me.
Quando l’ho spinta, la porta si è aperta senza fatica: non c’era nulla, ovviamente.
Ho attraversato lo spiazzo, ignorando la macchia ormai sbiadita sull’asfalto – non merita considerazione, e certo la morte non è abbastanza per ciò che ha fatto – fino a ritrovarmi alle spalle del fantasma nei miei ricordi. Mi sono sporto, guardando giù, chiedendomi se l’abbia fatto anche lui, se avesse previsto che sarei tornato in tempo per vederlo – se volesse che lo vedessi, e cerco sempre di non rispondermi – e poi sono salito. Un piede dietro l’altro ed ero lì, sul parapetto, lo sguardo rivolto nel punto in cui ero io meno di un mese prima.
Ed è allora che è arrivata Molly.
«John?» mi ha chiamato, in un sussurro appena percepibile – forse temeva che volessi buttarmi? – facendomi voltare proprio per vederla fare qualche passo incerto verso la mia direzione. Povera Molly, non riesce neanche a guardarmi in faccia, come se si sentisse in colpa, Dio solo sa per cosa.
Le ho sorriso e sono sceso, vedendola tirare un respiro di sollievo che quasi mi ha fatto ridere. Non mi ucciderò, non per lui, avevo quasi voglia di dirle, invece le ho chiesto:
«Come facevi a sapere che ero qui?»
«Oh, io... ti ho visto quando sei entrato» ha spiegato lei, gesticolando appena. «Che... che cosa stavi facendo?» mi ha domandato poi, le braccia ancora a mezz’aria che le davano una posa buffa.
«Non lo so» ho risposto sinceramente.
Lei mi ha guardato per un lungo istante, prima di abbassare le braccia.
«Ti va un caffè?» mi ha chiesto e io le ho detto di sì.
Siamo andati in quel bar poco lontano dall’ospedale, ci siamo accomodati a uno dei tavolini davanti la vetrata e abbiamo ordinato due tè. Il cameriere è tornato poco dopo con le nostre ordinazioni.
«Così... come va all’ospedale?» le ho chiesto, stringendo la ceramica tra le mani per riscaldarle un po’.
«Bene» ha risposto lei, annuendo con enfasi. «Beh... l’obitorio è pieno, ultimamente, quindi forse non è esattamente un bene» aggiunge poi, aggrottando le sopracciglia. Mi ritrovo a sorridere e volto lo sguardo verso l’esterno, lasciando che il silenzio si allarghi tra noi.
«E tu? Come stai?» ha chiesto poi lei, prendendo un sorso di tè caldo.
«Bene» le ho risposto. «Bene, sto... sto bene» ho ripetuto ancora e ancora, prima di versarmi una goccia di latte nella tazza, più per fingere di non sentirmi patetico e bugiardo che per vero desiderio.
Molly mi ha guardato per un lungo momento, prima di abbassare lo sguardo sulle sue mani nervose e prendere un respiro profondo.
«John, ascolta» ha cominciato, senza guardarmi negli occhi. «Quel giorno Sher-»
«Non voglio parlarne» l’ho interrotta, stringendo i pugni sul tavolo. Quando me ne sono accorto mi sono imposto di rilassarli e poggiarli sulle cosce.
«Ma...» ha ripreso lei, sorpresa dai miei modi bruschi. Non la biasimo, ma non lo faccio neanche con me stesso. «C’è una cosa che non sai» ha aggiunto cocciutamente.
«Non m’interessa» le ho risposto con un sospiro. Lei mi ha guardato come se neanche mi conoscesse. John Watson che non vuole sapere qualcosa su di lui? Strano, decisamente.
«È importante» ha ritentato, scrutandomi incerta.
Io ho sorriso. «No, non lo è. Non più.»
 

Ho sognato ancora l’Afghanistan.
Di nuovo i fucili, le urla, lui e il sangue – sangue, sangue, sangue.
Ho pianto.
Non mi sono alzato.
 

È passata Mrs. Hudson. Mi sono rigirato nel letto e ho finto di stare ancora dormendo.
Mi dispiace farla preoccupare, ma è troppo presto.
 

È venuto Lestrade, oggi; sotto incitamento di Mrs. Hudson, sospetto.
«È dal funerale che non ci vediamo» ha detto. Mi sono legato la vestaglia alla vita e ho annuito in assenso.
«Ho avuto da fare» ho mentito. Se l’Ispettore l’ha capito, non l’ha detto. E gliene sono grato.
«Anche io» ha ribattuto lui. «Anderson ti manda i suoi saluti» ha aggiunto poi, con un sorrisetto divertito.
«Ricambia. Come sta il suo zigomo?»
«Molto meglio ora che si sta sgonfiando e il livido si sta lentamente ritirando.» «Bene, mi fa piacere.»
Ci siamo guardati per un attimo, il ricordo del pugno che ho sferrato al poliziotto nel cimitero vivido nei nostri ricordi e tra noi. Mi è sembrato che il suo sorriso si fosse allargato un po’ di più, poi l’Ispettore si è lanciato in una descrizione accorata del caso dei tre omicidi che sta seguendo. Povera Scotland Yard, è persa senza di lui.
«Greg, non voglio sembrarti scortese, ma perché sei qui?» l’ho interrotto dopo un po’.
Lui mi ha guardato per un lungo momento – è una cosa che fanno tutti molto spesso, ultimamente – e poi ha sospirato.
«Ho lasciato mia moglie» ha detto, sorprendendomi.
«Perché?»
«Mi tradiva. Ancora
«No. Perché?»
Perché adesso, perché lo diceva a me? Cosa si aspettava che facessi? Che mi congratulassi?
Lui ha sorriso e si è accomodato meglio sulla poltrona.
«Perché non voglio più essere un idiota» ha risposto, sempre con quel sorrisetto a increspargli le labbra.
È stata una risposta così logica nella sua assurdità che non ho potuto fare a meno di ridere. Prima solo un accenno a solleticarmi la bocca e la gola, poi una risata piena, che nasceva dal centro del petto. Lestrade mi ha seguito subito dopo e abbiamo continuato a ridere. Fino alle lacrime.
 

Ho fatto di nuovo quel sogno – sempre lo stesso.
Ho aperto gli occhi nella luce opaca dell’alba, i polmoni ingolfati e un incipiente dolore alla gamba, mentre le immagini continuavano a scorrermi davanti come un maledetto film. Li ho richiusi e ci ho premuto i palmi sopra, sfregandomi il viso nel tentativo di scacciarle.
Per un attimo, ho sentito il desiderio di darmi per vinto e di restare a letto per il giorno intero, sconfitto dagli incubi e dal dolore psicosomatico che tornava a mordermi il muscolo.
Mi sono alzato, invece, e ho chiamato Harry, mentre l’acqua per il tè si scaldava.
Le ho detto che le voglio bene, nonostante il nostro non essere mai andati d’accordo, ma che non ho alcuna intenzione di vederla morire, non anche lei, e quindi se non vuole smettere di bere, allora quella sarebbe stata l’ultima volta che mi avrebbe sentito.
Ho riattaccato con ancora i suoi singhiozzi nelle orecchie.
Non voglio più essere un idiota.
 

Sul mio portatile c’è uno strato di polvere. Ci passo il dito sentendo cuore accelerare all’idea di accenderlo, di controllare la posta, magari di dare un’occhiata al mio blog. Non lo aggiorno da prima di quel giorno.
Alla fine, dopo un tempo che mi è sembrato un’eternità, l’ho fatto davvero, e il ronzio di accensione è suonato alle mie orecchie quasi come un bentornato.
Mi sono accomodato nella mia poltrona, il portatile sulle gambe e una tazza di tè a raffreddare sul tavolino lì accanto, e ho aspettato: che la pagina si caricasse, che il coraggio tornasse a far muovere le mie mani.
C’erano un fiume di commenti all’ultimo post, perlopiù una serie di insulti alle mie bugie, ma tra i tanti “Vergogna” e “Buffoni” ce ne sono alcuni di tutt’altro respiro. Alcuni sono lunghi ed articolati, altri sono composti solo da una frase, a volte da una sola parola, ma in tutti si può riconoscere un comune denominatore: io credo.
È lì, ripetuto ogni volta da una persona diversa, come fosse una parola d’ordine, una fede che li accomuna.
Mi sono riscoperto a piangere.
 

Ho incontrato Sarah, oggi, al supermarket, nel reparto orto-frutticolo.
Avevo appena messo il latte nel cestino e stavo decidendo se comprare o meno qualche mela, quando ho alzato lo sguardo e ho incrociato il suo, ferma dall’altro lato dello stand con una confezione di limoni tra le mani.
«John» ha esalato lei, tentando un sorriso.
«Sarah. Stai... benissimo» le ho risposto, vedendo le sue labbra stirarsi un po’ in più. Si è portata una ciocca di capelli dietro l’orecchio, deviando appena con lo sguardo, prima di tornare su di me, l’espressione completamente differente, stavolta.
«Ho letto di... Mi dispiace molto.»
Ho annuito meccanicamente, aggirando il bancone, gli occhi che scandagliavano i prodotti. Quando sono stato alla sua portata, Sarah mi ha messo una mano sull’avambraccio, trattenendomi.
«Volevo chiamarti, ma non sapevo...» ha esitato, facendo poi un passo verso di me. «Come stai? Seriamente, però» ha sorriso «Sei un pessimo bugiardo.»
L’ho osservata per un lungo istante, ricordandomi i mille motivi per cui mi era piaciuta e ho assaporato il dispiacere di non essere rimasto in contatto dopo aver lasciato l’ambulatorio.
«Va meglio» mi sono deciso alla fine a rispondere.
Il suo sorriso ha preso una piega triste – empatica – e ha annuito.
«Andiamo, ti offro il pranzo» ha detto, tirandomi per la manica fino alla cassa, senza dare importanza alle mie proteste.
 

Il Dottor Hartman è andato in pensione la settimana scorsa e Sarah mi ha offerto il suo posto all’ambulatorio.
Ho accettato, comincio lunedì.
 

Sono passato per il cimitero, oggi.
Ho portato anche dei fiori, ma non sono riuscito ad entrare. Una volta davanti il monumentale cancello spalancato, ho sentito i piedi diventare di piombo, impedendomi di continuare.
Sono rimasto lì, fermo come una statua, attirando l’attenzione degli ospiti della domenica. Mi sono detto che dovevo farlo, che dopo il primo passo tutto sarebbe stato più semplice, ma non ci sono riuscito.
Me ne sono andato.
 

Le giornate hanno cominciato a essere scandite dalla quotidianità – da una nuova quotidianità: ambulatorio, casa, ambulatorio, casa. Ascoltare i pazienti, concentrarmi sui loro problemi, è confortante e tiene la mia mente occupata; la tiene lontana da lui.
Il problema si pone, purtroppo, una volta che varco la soglia di casa. Mi basta chiudere il portone perché lo senta tornare con prepotenza, investirmi in tutta la sua concretezza e pretendere ogni parte di me. Stronzo narcisista.
Egoista pallone gonfiato, deve occupare tutta la scena anche da morto.
Il nostro stesso appartamento è specchio del suo ego spropositato, ricolmo della sua presenza in ogni spazio vivibile – e anche in qualcuno non vivibile – in un continuo ripetersi del suo nome, del suo essere, che mi irritava attivamente, ma che avevo imparato ad accettare.
Ora mi riempie solo di rabbia.
 

Ci sono degli articoli su di lui.
Vengono pubblicati settimanalmente, ripercorrendo alcuni dei suoi casi, riportando le testimonianze di chi è stato aiutato. Me li ha mostrati Sarah qualche giorno fa. È venuta nel mio studio durante la pausa pranzo e mi ha fatto scivolare il giornale ripiegato davanti.
«È venuta anche da me» ha detto, indicando il nome della giornalista con un dito.
«Ha scoperto non so come della mia presenza durante il caso del Banchiere Cieco e voleva che le rilasciassi un’intervista. Per mostrare la verità, da detto, l’ho cacciata a calci.»
Ho annuito. «Starò attento.»
 

Stasera, poco prima che me ne andassi a dormire – dopo aver finto di leggere per almeno un’ora – ho ricevuto una visita inaspettata.
Era Harry, mia sorella, stretta nel suo cappotto chiaro, i capelli che le ricadevano spettinati sul viso. Aveva gli occhi rossi e umidi e le mani, strette in pugni, che tremavano appena.
Anche il suo labbro ha tremato, quanto ha provato a parlare. Se l’è morso, alzando gli occhi nel tentativo, vano, di trattenere le lacrime, e poi ha ritentato:
«Ci sto provando. Lo giuro, ci sto provando, ma è... così difficile.»
Sarò sincero, per un lungo istante ho pensato di chiudere la porta. Dire “Non mi interessa” e lasciarla fuori, non farmi coinvolgere.
Non l’ho fatto, l’ho invece spalancata con un sospiro e le ho fatto cenno di entrare.
Lei ha stretto le labbra ed è avanzata incerta, guardandosi attorno, vinta dalla curiosità della prima volta.
L’ho vista fermarsi al centro della stanza e i suoi occhi sono scivolati su tutto l’arredamento, sullo smile fatto dai fori di proiettile, sul teschio sopra il camino, in cerca di indizi sulla mia vita.
«Ti preparo qualcosa di caldo» ho detto, dirigendomi verso la cucina e mettendo l’acqua a riscaldare. L’ho sentita seguirmi, il suono dei tacchi attutito dal tappeto, e fermarsi appena prima della soglia.
«Così... sembra un posticino accogliente» ha ironizzato, sostando con lo sguardo sul tavolo in cucina ingombro di provette e agenti chimici. Ho sbuffato una risata e ho versato il tè nelle tazze.
«Vivibile, soprattutto» ho risposto io, facendole strada verso il soggiorno. Harry ha riso e si è accomodata al suo posto, il tè caldo tra le mani affusolate e gli occhi che scandagliavano ogni pezzo dell’appartamento. La sua presenza qui, tra queste mura, tra questi mobili – in questa vita – stona come non credevo possibile.
Dopo i primi sorsi sembrava più padrona di sé, le mani hanno smesso di tremare e gli occhi erano ancora rossi, ma non più lucidi; si è mordicchiata un labbro, come fa sempre quando è nervosa, e ha stretto le dita sulla ceramica calda, alzando infine lo sguardo su di me.
«Ho bisogno di te, John» ha detto, facendo un sorriso sbiadito. Io ho espirato e lasciato correre i secondi, un’unghia che grattava contro il legno scheggiato del tavolo.
«Non ne hai mai avuto.»
«Ora sì.»
«Ci sono i gruppi di sostegno per questo» ho cominciato, ma lei ha scosso la testa con veemenza e si è sporta verso di me, stringendomi il polso.
«No, non... non è abbastanza. Mi conosci, sai che non è abbastanza. Ho bisogno di qualcuno che... mi ricordi perché lo sto facendo, John, che sia pronto ad ascoltarmi e impedirmi di ricaderci di nuovo.»
«Esistono gli sponsor proprio per questo, Harry, è questo il loro compito perché nessuno sa meglio di chi ci è già passato cosa significa. Tu hai bisogno di qualcuno che sappia cosa si prova ad avere una dipendenza dall’alcol.»
Harry ha sorriso ancora, questa volta più sicura, ma anche più morbida. Ha riso di me.
«Una dipendenza è una dipendenza, Dottore, anche se la sua origine è una persona. Nel momento in cui ne vieni privato, la sua assenza ha sempre lo stesso risultato: ti distrugge dall’interno» ha detto, guardandomi negli occhi con tenerezza.
Non ho saputo risponderle.
 

Lascio Baker Street.
Ho dato un preavviso di una settimana a Mrs. Hudson e le ho pagato l’affitto del prossimo mese, la mia parte, per lo meno. Andrò a stare da Harry per un po’, per aiutarla a non cedere – non siamo mai andati d’accordo, ma le voglio bene e non posso voltarle le spalle, non dopo che mi ha chiesto aiuto – e per cominciare il mio percorso.
Mia sorella ha ragione: ho sviluppato una dipendenza e devo liberarmene. Non voglio più essere un idiota.
Quindi mi trasferirò da lei la settimana prossima.
 

Oggi ho incontrato quella giornalista.
Stavo chiudendo l’ambulatorio al posto di Sarah, quando mi si è avvicinata.
«Dottor Watson?» mi ha chiamato.
«L’ambulatorio è chiuso» le ho detto, voltandomi a guardarla. Mi è venuto istintivo studiarla, nel tentativo di raccogliere informazioni. Lui sarebbe stato orgoglioso – o forse no, dopotutto, non vado mai oltre la superficie, io.
Giovane, non più di trent’anni, dorme poco e male a ben vedere i segni sotto gli occhi che ha tentato di nascondere con un po’ di trucco; l’incarnato era chiaro, ma sano e insieme ai luminosi occhi chiari la rendevano graziosa.
Come ho detto: non vado oltre l’ovvio.
«Non sono una paziente, Dottor Watson» ha risposto lei, portandosi una ciocca del caschetto biondo dietro l'orecchio. «Mi chiamo Mary Morstan-»
«Ah» l'ho interrotta io.
«Vedo che mi conosce già.» Ha sorriso, porgendomi un biglietto da vista. Non l'ho accettato. Sono rimasto fermo al mio posto, le braccia abbandonate rigidamente lungo i fianchi.
«Qualunque cosa voglia, non mi interessa» le ho detto.
Il viso di Ms. Morstan è diventato di pietra. «Ciò che voglio è riscattare il nome di un uomo straordinario» ha ribattuto, squadrandomi «Uno che credevo le stesse a cuore.»
Ho annuito accondiscendente, sbuffando una risata, guardandomi attorno per un attimo.
«Non sono molte le persone che la pensano come lei, Ms. Morstan.»
«Loro non lo conoscevano come--»
«Oh no, tutt’altro» ho riso, strofinandomi la radice del naso. E poi ho realizzato quale sarebbe stata la conclusione della sua frase.
Loro non lo conoscevano come lo conoscevo io
.
«Lei lo conosceva» ho realizzato, guardandola per la prima volta sotto una luce diversa.
Lei si è impettita impercettibilmente e ha alzato il mento con orgoglio – come se conoscerlo fosse un segno di merito. Lui ne sarebbe stato deliziato. O forse l’avrebbe etichettato come una sciocchezza senza valore e sarebbe tornato a infastidire Lestrade via sms sull’ultimo caso. Amava avere un pubblico, ma di solito quel pubblico era molto ristretto e selettivo. A volte ho pensato riguardasse solo me; era lusinghiero, in un suo modo tutto contorto.
«Come lo avevano conosciuto tutti gli altri. Ho richiesto i suoi servigi alcuni anni fa.»
Rimetto a fuoco la figura della donna davanti a me quando le sue parole mi richiamano dai miei pensieri.
Una cliente, ecco come lo aveva conosciuto.
«Credo che al tempo lei fosse ancora in Afghanistan. Mio padre era scomparso e un amico di famiglia mi indirizzò da lui, visto che la polizia non sapeva dove sbattere la testa» ha arricciato appena le labbra, divertita dal ricordo. «Ci mise meno di un giorno per scoprire chi fossero i rapitori e dove avessero portato mio padre.»
«Questo non significa che lo conoscesse, però.»
«Mi basta per sapere che non era un impostore» ha ribattuto con orgoglio «Come basta a tutti gli altri che lo hanno visto all’opera. Lei stesso sa che non era un impostore, Dottor Watson.»
«E con questo?»
«Allora perché ancora non ha detto la sua? Perché non ha ancora rilasciato una dichiarazione per smentire le calunnie? Perché lascia che infanghino il suo ricordo? Le do la possibilità di riscattarlo raccontando a tutti la verità!» ha concluso, facendo un passo verso la mia direzione, il viso infiammato dalla passione.
Sembrava crederci davvero e questo, più di tutto, mi ha fatto ridere. L’ho fatto, spiazzandola – sul suo viso ho visto passare l’ombra del dubbio – ed è arretrata, mentre io ho infilato le mani nelle tasche del giaccone.
«A che servirebbe? È morto» ho risposto, scrollando le spalle. «Addio, Ms. Morstan» ho aggiunto, superandola. Lei si è voltata, seguendomi con lo sguardo.
«Sarebbe la risoluzione del caso, però.»
Non le ho risposto, ma – per un attimo – una parte di me ha concordato con lei.
 

L’appartamento di Harry è ampio e luminoso, profuma sempre di buono e non da la sensazione di poterti uccidere a ogni piè sospinto. È rilassante, una piacevole novità.
Nonostante tutto, non posso che considerarla una sistemazione provvisoria, una vacanza dalla mia realtà, e la cosa si riflette nell’aspetto dell’appartamento. La presenza di Harry si rispecchia in ogni angolo della casa, dalle sciarpe sull’appendiabiti alla sua tazza preferita sul mobile della cucina. Le mie cose, invece, sono nella camera degli ospiti, accatastate nelle scatole. Non appendo neanche la giacca nell’ingresso.
L’unica prova della mia presenza, in effetti, è data dal laptop abbandonato sul tavolo della cucina. Lo controllo abbastanza spesso, anche se ancora non sono riuscito ad aggiornare il blog.
«Io credo» ha detto una notte Harry.
Erano le cinque del mattino e mi aveva svegliato mezz’ora prima, con occhi imploranti e lucidi. Non aveva detto una parola, ma anche nel buio della stanza potevo vedere le sue mani tremare. Capitava spesso che mi svegliasse nel cuore della notte o mi chiamasse al lavoro – o ci si presentasse direttamente, con quello sguardo implorante e io avevo preso l’abitudine di rispondere sempre nello stesso modo: «Tè».
L’ho detto anche quella notte, scivolando fuori dal letto. Lei mi ha rivolto un sorriso fievole e mi ha seguito in cucina, sedendosi poi al suo posto a tavola e abbracciandosi le ginocchia, la cinta della vestaglia che strusciava a terra, mentre mi osservava trafficare tra acqua, teiera e latte. Siamo rimasti in silenzio fino a quando il bollitore non ha fischiato e io non ho preparato due tazze – e non per abitudine, mai più per abitudine – passandogliene una.
Poi l’ha detto, gli occhi fissi nei miei e le mani che si chiudevano attorno alla ceramica calda. Ha sorriso.
«Lo stavi guardando» ha spiegato, accennando al portatile. Io ho annuito, prendendo un sorso di tè.
«Leggi il mio blog?» Lei ha di nuovo sorriso divertita, ma non ha risposto.
Ci siamo concentrati sui nostri tè, lasciando che fossero loro a lottare per noi, a rassicurarci di fronte ai nostri mostri. Harry aveva affrontato il suo nell’istante in cui aveva, ancora una volta, cercato il mio sostegno; il mio, che è fatto di supponenza ed egocentrismo – e di rabbia, tanta rabbia e recriminazioni –, lo combatto con parole e tè. Tutto sembra meno peggio quando hai una tazza di tè bollente tra le mani.
«Io credo. Che cosa significa?» ha ripreso lei, soffiando nella tazza prima di bere.
«Non lo so» ho risposto io, ma non sono sicuro sia la risposta giusta.
 

I messaggi continuano ad arrivare quasi ogni giorno. Affollano la casella mail con il loro credo, con quella sorta di preghiera che si ripete sempre uguale, da persona a persona – ieri mattina l’ho trovato scritto persino nella metropolitana. Sono assurde le proporzioni che questa cosa sta prendendo, mi chiedo cosa sperino di ottenere.
Tra le varie mail ce n’era anche una, uguale alle altre, firmata “M.M.”. Sembra che Ms. Morstan non voglia demordere.
Dall’interfono Cate mi chiede se può far passare il nuovo paziente e io chiudo la pagina web con un sospiro.
 

Harry ha un appuntamento.
Quando sono rincasato, questa sera, l’ho trovata a passeggiare avanti e indietro per il salotto.
«John!» mi ha accolto, con un tale sorriso ed entusiasmo che ho avuto le vertigini. Per un attimo mi è sembrato che fosse posseduta da lui o che fosse solo una sua versione femminile con la stessa, impellente necessità di avere un pubblico per le sue brillanti deduzioni.
Invece, ciò che Harry mi ha detto, dopo avermi abbracciato con forza, è stato molto diverso dalla risoluzione di un caso – quello dei tre omicidi, ad esempio, ancora irrisolto.
«Ho un appuntamento» ha sussurrato, con gli occhi che le brillavano per l’emozione. Non credo di averla mai vista così se non il giorno del suo matrimonio. Ho sempre adorato Clare e ho sempre creduto che Harry non la meritasse – ma so anche che si sono amate più di quanto fosse possibile spiegare. Una parte di me vorrebbe che tornassero insieme, che provassero a riassemblare i cocci del loro matrimonio, ma un’altra sa che non è questo il momento giusto. Harry ha bisogno di andare avanti, di lasciarsi indietro i problemi che l’hanno portata, volenti o nolenti, all’alcolismo e Clare, per quanto mi dispiaccia ammetterlo, è uno di quelli.
«Un appuntamento? Con una donna vera?» le ho chiesto io, incassando il blando pugno che mi ha dato sul braccio in vendetta.
Ha ripreso a fare su e giù per la stanza, giocando nervosamente con una ciocca di capelli.
«Si chiama Anne, lavora nella caffetteria di fronte il mio studio» ha cominciato, tornando a guardarmi. «È così piccola e carina che sembra essere una bambolina da esposizione» ha sospirato e io non sono riuscito a trattenermi dal ridere, vedendola così euforica dopo tanto tempo.
«Dove la porterai?» le ho chiesto, quando lei ha messo il broncio, offesa.
«Andremo a cena e poi, se la serata va nel modo giusto, potrei proporle una passeggiata» ha risposto, scrollando le spalle nervosamente. Si è morsa un labbro, arricciandosi la ciocca attorno all’indice più volte, prima di riprendere: «Ho prenotato al ristorante giapponese. Solo tè o acqua, promesso».
«Sono sicuro che andrà bene» le ho detto. Harry ha sorriso, coprendosi la bocca con dita. Poi ha sussultato, guardando l’orologio alla parete.
«Oddio, devo farmi la doccia!» ha urlato, scappando come una furia verso la sua camera.
Io sono rimasto nel piccolo ingresso con ancora le chiavi in mano e il cappotto addosso ad ascoltare mia sorella aprire e chiudere cassetti e ante dell’armadio, pronta a rimettersi in gioco, e mi sono reso conto di essere fermo, cristallizzato nel mio dolore.
Ho posato le chiavi nel piattino sulla mensola, mi sono sfilato il cappotto – appendendolo finalmente all’attaccapanni – e ho preso il telefonino, scorrendo nella rubrica mentre lo scrosciare della doccia copriva il ticchettio del tempo.
 

Ho chiamato la mia psicologa.
Lunedì ricomincio le sedute.
 

Ho chiesto a Mrs. Hudson di accompagnarmi al cimitero.
Torno al 221B di Baker Street abbastanza spesso, soprattutto per lei. La vado a trovare, controllo che stia bene e a volte mi fermo per una tazza di tè.
Le nostre stanze sono ancora sfitte, ma lei non sembra curarsene.
«Sto bene» ripete ogni volta che accenno alla cosa, con un sorriso sulle labbra e un buffetto sulla mano. Lo ha detto anche questa volta, mentre il taxi ci accompagnava fin d’avanti all’entrata del cimitero.
Una volta lì, ho sentito di nuovo le gambe farsi di cemento. Poi Mrs. Hudson si è appoggiata al mio braccio e ha sorriso.
«È tempo che tu gli dica addio, John caro» ha detto.
«Non sono pronto» ho ammesso, grattandomi nervosamente il palmo della mano. Lei ha stretto la presa sulla mia giacca, scivolando poi a intrecciare le dita alle mie.
«Non lo siamo mai» ha risposto, tirandomi nel primo passo.
Aveva ragione.
 

Ho pianto.
Gli ho chiesto di tornare.
Non l’ha fatto.
 

Ci sono un sacco di cose che vorrei dire riguardo questa storia, riguardo Moriarty, riguardo ogni singola cosa avvenuta in questi lunghi – inesorabilmente lenti – mesi. Ancora di più sono quelle che vorrei scrivere sul mio blog.
Ma la prima, la più importante, è la mia versione dei fatti – gliela devo.
Qui, nel nostro appartamento, con il portatile sulle gambe, mi accingo a raccontare tutto ciò che è accaduto dal famoso caso di Reichenbach Falls.
Guardo la pagina web vuota; la linea di scrittura lampeggia, in attesa delle mie parole, e io tergiverso, sfregandomi le mani.
Chiudo gli occhi, poggiando la testa contro il cuscino, e sospiro, cercando il modo migliore – no, il modo perfetto per iniziare.
Mi alzo e frugo nelle scatole che Mrs. Hudson ha lasciato sul tavolo della cucina fino a quando non trovo ciò che cerco: un posacenere. Sfilo dalla tasca dei pantaloni un pacchetto ammaccato e mi porto una sigaretta alle labbra, accendendola dal fornello.
Faccio il primo tiro e strizzo gli occhi quando il sapore acre mi riempie la bocca. Non aspiro, ma sento comunque i polmoni contrarsi in protesta.
Torno nella mia poltrona e poggio il posacenere sul bracciolo, abbandonandovi la sigaretta all’interno. Un rivolo di fumo si alza in un eterno accartocciarsi su se stesso.
Il portatile è caldo e manda un ronzio basso e continuo che si amalgama con i miei pensieri, mentre l’odore della sigaretta invade prepotente l’aria – proprio come lui. E mi rendo conto che c’è solo un modo in cui cominciare questa mia storia, l’unico che possa essere la premessa voluta e necessaria.
Io credo in Sherlock Holmes
.

Fine.

   
 
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