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Autore: Eterocromia    14/10/2012    2 recensioni
{Buon compleanno, Tsunayoshi Sawada. Warning: leggera 6927}
"Gli italiani hanno tutti il sapore di mare?"
Una delicata pennellata e poi si rispondeva; no, non sono tutti figli del mare. Ci sono i figli della montagna, i figli della campagna, i figli della laguna.
E poi si ricordava anche di qualcuno che era il figlio dell’azzurro, del mare, dell’eterno; ci ripensava e continuava a dipingere. Nonostante non fosse un artista, Tsunayoshi ne aveva fatti migliaia e migliaia di quadri sui fiori: rigorosamente acquerelli, rigorosamente punta fine, rigorosamente dipinti in solitudine.
Aveva perso il dono della parola, dell’espressione, e l’unico modo per ricordare a se stesso che provava ancora sentimenti era dipingere fiori.
Genere: Angst, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altro Personaggio, Mukuro Rokudo, Tsunayoshi Sawada
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Candles and Clockwork
“We pass the time of day to forget how time passes. 





La florigrafia, comunemente conosciuta come linguaggio dei fiori, è un’arte delicata e nascosta che ormai è quasi in disuso; dalla fine degli anni ottanta ai giorni nostri quest’arte è andata pian piano scomparendo e non tutti conoscono i delicati e segreti significati che un fiore può donare.
Coloro che conoscono in modo ampio e sanno distinguere i significati di un fiore e di un altro hanno un dono prezioso che non va sprecato.
I fiori citati successivamente hanno tutti un loro significato e sono stati scelti con attenzione, e sono stati scelti poiché le parole non sarebbero mai state in grado di compensare l’armonia di un fiore.
Allo stesso modo dei fiori, così è la vita, così sono i sentimenti: sbocciano senza chiedere il permesso e muoiono lentamente, ma a rigenerare nuova esistenza.




L’Italia dopotutto era sempre il paese del sole cocente e del mediterraneo fiorente, eppur l’aria di ottobre ancora tardava ad arrivare, come se si fosse assopita tra le braccia materne di un’estate forse un po’ troppo apprensiva e, perché no, oppressiva.
Eppure, eppure, il sapore del mare navigava tra i campi di fiori senza sosta e si dileguava negli abiti delle persone, e li rendeva tutti suoi figli: dallo straniero all’uomo del Nord, da un mercante ad un uomo di montagna.
Tutti, nessuno escluso, quel 14 ottobre portavano indosso l’odore del mare, un abito comune seppur regale ed elegante.
Erano questi i pensieri di Tsunayoshi Sawada che, seduto tra i fiori come se stesse campeggiando, prendeva qualche secondo per guardare la tela sul cavalletto e per riflettere. Con gli occhi socchiusi a rimirar i suoi pensieri che correvano di fiore in fiore; e sognava.
Gli italiani hanno tutti il sapore di mare?
Una delicata pennellata e poi si rispondeva; no, non sono tutti figli del mare. Ci sono i figli della montagna, i figli della campagna, i figli della laguna.
E poi si ricordava anche di qualcuno che era il figlio dell’azzurro, del mare, dell’eterno; ci ripensava e continuava a dipingere. Nonostante non fosse un artista, Tsunayoshi ne aveva fatti migliaia e migliaia di quadri sui fiori: rigorosamente acquerelli, rigorosamente punta fine, rigorosamente dipinti in solitudine.
Aveva perso il dono della parola, dell’espressione, e l’unico modo per ricordare a se stesso che provava ancora sentimenti era dipingere fiori.
Il suo piccolo mondo onirico che nessuno capiva, che nessuno si sforzava di comprendere: lo osservavano seduto tra il verde, gli occhi socchiusi e le labbra contratte in un’ombra di sorriso. Camicia azzurra, giacca e pantaloni bianchi; quando lo si vedeva indossare questi abiti, o dipingeva o andava in chiesa.
Non c’era nessuno che sapesse dire con precisione il giorno esatto in cui avesse iniziato a dipingere fiori né se lo domandavano. Semplicemente, accoglievano in silenzio quello sguardo spento, gli abiti chiari e i ciuffi lunghi raccolti in una piccola coda.
Un processo delicato e armonioso, costante e vivo come l’affluenza delle onde sul bagnasciuga: impugnava il pennello, ne bagnava la punta ed iniziava.
Allo stesso modo finiva e osservava, chiudeva gli occhi per reprimere le lacrime e sospirava.
L’ultima pennellata e anche questo mazzetto di narciso si concludeva e si disperdeva nel bianco della tela, come i suoi predecessori: il primo se lo ricordava bene, un fiore di acacia, e nonostante fosse stato il primo non era male; ed ancora, persino il secondo, il fiore d’assenzio per il quale aveva girato l’Europa intera. Ed altri ancora: la ginestra dipinta al mare, i crisantemi gialli dei cimiteri italiani, il sambuco trovato in un vecchio casolare dei genitori di Dino, e il bucaneve che era sempre presente nei suoi pensieri e tra le sue mani.
Ciò che dipingeva più spesso erano i mazzi di bucaneve e quelli di narciso: erano presenti dovunque lui fosse, tra i suoi capelli o tra le dita bianche.  Come se fossero la sua firma, la sua ombra, il suo essere: nella sua camera ne aveva mazzi e mazzi e in ogni stagione, e se ne curava più di ogni altra cosa al mondo.
Non doveva mai dimenticare il figlio del sogno, l’uomo venuto dal mare, con la pelle della luna e gli occhi della morte.
E non se ne dimenticava mai e dipingeva per lui, che fossero girasoli o delle orchidee; e ora, con la punta del pennello tra le labbra, continuava il suo pensiero. Nonostante continuasse a dipingere mazzi di narciso lo faceva con la consapevolezza che ricordare quell’uomo aveva la bellezza e la perfezione del fiore di loto; sia il ricordo che il figlio del sogno condividevano una sola bellezza. Un fiore che nasce dal fango, dalla morte, e che ciononostante sboccia di una perfezione che attira invidia dappertutto.
Avrebbe dovuto iniziare a dipingere il narciso e il loto assieme – ma prima che questo pensiero si trasformasse in azione, un tocco familiare si accostò alla mano di Tsunayoshi.
«Papà, dipingi anche il giorno del tuo compleanno?»
Abbassò il volto e le labbra si stirarono in un sorriso più ampio, e fissò gli occhi della bambina che aveva di fronte, scuri e al contempo luminosi.
«Sì, Milena.» le carezzò il capo dai capelli corti ed ebbe modo di notare come il suo tono di voce fosse spento dall’espressione di sua figlia, a metà tra l’incerto e la tristezza; erano entrambi troppo giovani per i loro ruoli, e per quanto Tsunayoshi amasse sua figlia si sentiva bambino più di lei, e per quanto Milena amasse suo padre si sentiva più adulta di lui.
«Perché?»
«Devo aspettare.»
Milena prese posto sulle gambe del padre, lasciandosi stringere in un abbraccio dolce e non riuscendo a capire il volto del padre – un sorriso tanto grande per degli occhi tanto inespressivi.
«Chi?»
Tsunayoshi sospirò e guardò il mazzo di narciso, che a sua volta sembrava che lo fissasse con tristezza.
«Una persona» prima pausa, senza sorriso. «che non tornerà mai.» e  le labbra si schiusero in un enorme ed elegante sorriso.
«Milena, prima o poi, nella tua vita, incontrerai una persona insostituibile; una persona capace di darti tutto e di negarti tutto. Sarà la sola ed unica persona in grado di farti aspettare per sempre.
Potrai essere fortunata e passare con questa persona tutto il resto della vita; oppure, come me, passerai il resto della vita ad aspettare un ritorno che non ci sarà mai.»

 La prese per mano e la fece scendere dalle ginocchia, silenziosamente; tra i fiori scossi dal vento e l’aria di mare, iniziarono a camminare mano nella mano.
Vent’anni e non di più separavano padre e figlia ed è di conseguenza errato dire che in quel campo un adulto e una bambina si stringevano per mano: entrambi due bambini, entrambi sognatori.
Milena rifletté a lungo sulle parole da pronunciare: stava fissa a guardare i fiori mentre camminava, il volto da bambola concentrato a pensare.
«Posso sapere il nome di questa persona?» nella sua chiara voce si nascondeva un pizzico di curiosità. «Sarà un segreto!» sussurrò, a metà tra il ridere e il voler sembrare seria.
Con la sua bellezza si mescolava tra i fiori e Tsunayoshi si fermò ad osservarla: sangue del suo sangue. Rise anche lui, seppur timidamente.

«Si chiama Mukuro Rokudo.»
«E dov’è ora questo signor Mukuro?»
Tsunayoshi si piegò sulle ginocchia, ritrovandosi all’altezza di sua figlia; poggiò la fronte sulla sua e le sorrise con malinconia, prendendole la piccola mano.

«Qui.»
E la portò al cuore,
da dove il figlio del sogno non se n’era mai andato.

  
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