~ Prologo ~
Dehli, agosto 1726
La notte era scesa da
ore quando una figura ammantata di nero saltò agilmente al di là dell’altissimo
muro di cinta del palazzo reale dei regnanti d’ India, a Dehli. Atterrò senza
quasi emettere alcun suono e si rialzò, guardandosi intorno per accertarsi che
nessuno avesse sentito nulla. Ma fu una precauzione
inutile.
La strada era
deserta.
La figura, incurante
però dell’assenza di anima viva in quella stradina, non abbassò la guardia: ciò
che stava facendo aveva come pegno la sua vita. Se avesse fallito anche solo per
una stupidaggine non se lo sarebbe perdonato, per il resto della sua
esistenza.
Si appoggiò al muro,
facendovi aderire completamente la schiena e, il viso voltato a sinistra per
controllare di essere effettivamente l’unica persona in quel vicolo, avanzò con
cautela strisciando contro il muro. Fu solo quando arrivò alla fine di quella
lunga barriera, all’incrocio con la strada principale, che si arrischiò a
sbirciare.
L’ingresso del palazzo
del Sultano era sorvegliato da due corpulente guardie ai lati della porta,
munite di fucile e sciabola alle cinte con la chiara intenzione di intimorire
chiunque fosse passato di là. Altre due guardie camminavano a passo di marcia
avanti e indietro, incrociandosi e cambiando reciprocamente posizione, senza
interruzione.
La zona in cui si
trovava il Palazzo era sul punto più alto della città, costruito sopra la
collina che dominava la “capitale del commercio” -così veniva chiamata Dehli- e
luogo di residenza estiva del Sultano e della sua famiglia. Il centro abitato lo
circondava come un plotone di difesa, sebbene situato molto più in basso
rispetto all’edificio, quasi come a ricordare la differenza di casta che
contraddistingueva le migliaia di persone di quella città marinara e commerciale
così cosmopolita.
La figura approfittò
dell’ombra scura causata dalla luna coperta dalle nuvole per attraversare la
via, scivolando nel vicolo scuro di fronte a quello che aveva lasciato.
Si voltò solo un
momento, lanciando un’ ultimo sguardo a quell’imponente edificio, che si
stagliava alto nel cielo, augurandosi con tutto il cuore di non rivederlo mai
più, il cuore che martellava furente nel dire addio alla sua
prigione.
Scese la collina
serpeggiando nel buio, inoltrandosi nelle strette stradine della città, che
conosceva alla perfezione nonostante tutto, scivolò lontano dal Palazzo,
ritrovandosi nel centro abitato.
Non c’era quasi nessuno,
a quell’ora della notte, nel cuore della città. Solo il porto era un luogo
sufficientemente affollato in cui rifugiarsi.
Un porto di pirati.
Distava circa mezz’ora di cammino dalla città e si trovava dietro una ripida
scogliera, nascosto.
La posta in gioco era
altissima, ma doveva rischiare: se avesse esitato, se avesse pensato anche solo
per un momento di tornare indietro, la sua vita sarebbe finita: tutto ciò che
aveva sognato sin dalla sua infanzia le sarebbe sfuggito dalle mani proprio
mentre era convinta di averlo preso.
Prese coraggio e
attraversò tutta la città, cercando di farsi vedere il meno possibile e mano a
mano che si avvicinava al porto, il rumore di bottiglie infrante, tavoli
rovesciati e risate sguaiate di uomini cresceva a
dismisura.
Quando ormai fu in vista
il luogo d’origine di quella bolgia,- il bordello che fungeva da locanda, un
edificio abbastanza grande situato sul molo-, si fermò dietro un muro, avvolta
dal buio, calandosi il cappuccio: due bruni occhi di cervo, il viso liscio dalla
pelle leggermente scura, labbra carnose. Sotto il mantello si indovinava il
profilo di un corpo snello e ben curato, i seni prosperosi che spiccavano
elegantemente sul petto.
Il suo viso non
dimostrava neanche vent’anni, ma il suo corpo era già molto più adulto. E non
pochi uomini avevano dimostrato il loro apprezzamento. Rabbrividì al pensiero,
mentre delle immagini di angoscia dei suoi anni passati le tornavano alla
mente.
Con passo deciso,
sforzandosi di ignorare quei ricordi e il fastidiosissimo rumore che proveniva
dai dintorni della locanda, la ragazzina si avviò verso il molo, dove erano
ormeggiate centinaia di barche e navi, su alcune delle quali uomini e donne
chiaramente ubriachi cantavano canzoni piratesche o si univano senza alcun
pudore.
Il primo istinto della
ragazzina fu quello di allontanarsi da quel luogo. Ricordava benissimo le parole
della sua governante: quello era un luogo dissoluto, depravato, frequentato
dalla peggior feccia del mondo: i pirati.
Ma in quel momento non
le importava. Ovunque sarebbe andata, qualunque sarebbe stato il suo destino,
sicuramente sarebbe stato migliore di ciò che si era lasciata alle spalle,
migliore di ciò che sarebbe successo se fosse rimasta in quella che per
diciassette anni aveva chiamato casa, ma che le aveva regalato solo tanta
sofferenza.
Cercando di assumere
un’aria sicura e disinvolta come in realtà non si sentiva affatto, la ragazzina
si diresse alla passerella più vicina, che faceva da ponte per un molo non molto
grande a cui erano ormeggiate almeno cinquanta barche e ordinate enormi casse
scure che proiettavano la loro ombra sul legno annerito dalla notte senza
stelle.
Camminò lentamente fino
al bordo ed osservò l’acqua scura all’orizzonte, assaporando per la prima volta
in vita sua una sensazione di completa libertà, inspirando ed espirando, gli
occhi chiusi e le labbra piegate in un sorriso appena accennato. Ce l’aveva
fatta, era riuscita ad andarsene: ora era libera, finalmente. Da quel giorno la
sua vita sarebbe cambiata, in meglio. Lo sentiva.
La ragazzina si portò
una mano alla fronte, in mezzo agli occhi, dove teneva un elegantissimo gioiello
intrecciato: il simbolo della Casa Reale. Lo prese e lo tolse, tenendolo in mano
e guardandolo dall’alto quasi con disprezzo, come se quell’oggetto, seppure
simbolico, fosse la causa di tutto il suo dolore.
Poi, con un gesto
rabbioso accompagnato da un basso grido di frustrazione, lo gettò in mare,
guardandolo cadere a poco a poco sul fondo, finché fu impossibile distinguerlo
dall’acqua nera.
Un peso definitivamente
tolto, un nuova vita che cominciava. Ci sarebbe stata felicità, avrebbe fatto di
tutto per assaporare quel sentimento così fugace del quale aveva avuto solo un
piccolo assaggio.
Fece appena in tempo a
voltarsi, quando un uomo a pochissimi metri da lei, trasandato e chiaramente
ubriaco, la bloccò.
-Ehi, bambolina..Ciao-
disse, appoggiandosi ad un palo di legno troppo vicino a lei -Vieni, andiamo a
divertirci, eh?-
Dall’accento, sembrava
inglese. Istintivamente, la ragazzina fece un passo indietro e si rese conto con
orrore di trovarsi al bordo del molo. Ancora un altro passo e sarebbe caduta in
mare.
-No, non devi scappare,
bambina- l’uomo, con un’agilità insolita per essere ubriaco, si protese in
avanti e l’afferrò per un braccio, tirandola addosso a sé, tanto che lei sentì
il suo alito pestilenziale. Il seno schiacciato contro il petto dell’uomo, cercò
di divincolarsi, ma quello già le aveva preso i polsi ed era sceso avido sul suo
collo morbido, mentre lei cercava di sfuggirgli, voltando il viso a destra e a
sinistra
-Lasciami!-
gridò.
Quello rise, portandole
i polsi prigionieri dietro la schiena,facendola aderire di più al suo corpo.
Senza smettere di ridere, abbassò la testa sul suo seno e la ragazzina sentì le
sue labbra insinuarsi nella scollatura.
-No, no!- gridò
divincolandosi e colpendo l’uomo con un calcio in uno stinco. Quello
immediatamente la lasciò andare, imprecando, e lei corse via il più velocemente
possibile. Ma non bastò.
-Vieni qui, maledetta
ragazzina!- l’uomo l’agguantò per le spalle, coprendo in pochissimo tempo la
poca distanza che li separava, costringendola a voltarsi, ma stavolta lei era
pronta: lo colpì in pieno viso con un pugno. Non era molto forte, ma almeno
servì a distrarlo di nuovo, giusto il tempo di sguainare una sciabola dalla
cintura e di puntarla alla gola dell’uomo, che s’immobilizzò
all’istante.
Ansimando, la spada
stretta spasmodicamente tra entrambe le mani, la ragazzina parlò -Non provare a
toccarmi-
-Oh, no, non ci provo
affatto…- rispose quello calmo. Sembrava proprio che non fosse spaventato -Lo
faccio e basta!- aggiunse mentre con un’abile mossa piegava i polsi della
ragazza, che per il dolore lasciò cadere la sciabola a terra, gridando. L’uomo
l’afferrò tirandosela addosso e la tenne stretta, il braccio come una morsa sul
ventre della ragazza. Avrebbe dovuto immaginarlo, non era ancora pronta per
affrontare un combattimento: persino un uomo ubriaco era riuscito a disarmarla.
Un uomo ubriaco che voleva divertirsi un po’ con lei.
-No, lasciami!- gridò,
divincolandosi, spaventata da quell’ultimo pensiero. Ma l’unica cosa che ottenne
fu di ritrovarsi senza fiato a causa della stretta soffocante sullo
stomaco.
-Mi piacciono le
ragazzine ribelli- soffiò quello all’orecchio della
giovane.
-Maledetto..- mormorò
lei.
Era sull’orlo della
disperazione, non sapeva cosa fare: aveva sognato tanto la libertà, non essere
più rinchiusa fra quelle mura. Aveva odiato dover andare in giro per la città
come una ladra, coperta dalla testa ai piedi, per non farsi riconoscere. Aveva
desiderato poter essere come tutte le donne del suo paese, libera di fare ciò
che voleva.
Libera di amare chi
voleva.
Come poteva, quella
libertà, finire prima ancora di cominciare? Era davvero così il mondo reale, che
le era stato celato fin dalla nascita? E lei, avrebbe davvero permesso che fosse
quello il mondo che tanto desiderava vedere?
“No” si disse “Non è
questo che voglio”.
Fece appello alla sua
forza di volontà, e mentre l’uomo la scaraventava a terra, sedendosi sopra di
lei per tenerle ferme le gambe e stringendole le mani sottili sopra la testa,
lei cercava il modo per poter utilizzare il pugnale, abilmente nascosto nella
tasca interna del mantello, che per fortuna il suo molestatore non aveva
visto.
Smise di agitarsi. Se
fosse stata tranquilla, forse quello avrebbe allentato la
guardia.
E così fece. Cercando di
nascondere il suo disgusto, lasciò che quello ricominciasse a tormentarla,
ridacchiando. La ragazza si morse le labbra per non emettere alcun suono, quando
quello cominciò a baciarla sul collo.
Provò disgusto per sé
stessa, quando si ritrovò a pensare che dopotutto quel contatto, mai provato
prima in vita sua, le provocava un piacevole calore nel corpo.
Ma non avrebbe mai
vissuto quell’ unione con un uomo che avrebbe amato. Quel pensiero le tolse il
fiato, mentre l’uomo sopra di lei, quasi completamente perso nell’estasi, le
allentava la stretta attorno ai suoi polsi, e mano a mano che si distraeva la
abbandonava. Spaventata, guardò l’uomo aprirsi in fretta e furia i pantaloni e,
mossa dalla paura, rotolò di lato, lontano da lui. “Il pugnale!” pensò mentre si
rialzava. Era la sua ultima risorsa. Corse in fretta nel buio del molo, dietro
un’enorme cassa di legno.
-Dove sei, maledetta
ragazzina?- gridò quello si era alzato da terra barcollando. –Esci
fuori!-
Ansimando e cercando di
riprendersi dallo spavento, la ragazzina si appoggiò a occhi chiusi ad una
cassa. Se fosse rimasta ancora un attimo di più… Non voleva pensare a quello che
sarebbe sicuramente successo.
Facendo attenzione a
controllare i suoi movimenti per non farsi scoprire dall’uomo, che camminava
precariamente sul molo, guardando ovunque in cerca di lei, prese il pugnale
dalla tasca e si azzardò a sbirciare fuori del suo rifugio, il cuore che batteva
impazzito, ma non lo vide più: forse se n’era andato?
-Ecco dove sei…- la voce
giunse sussurrata alle sue orecchie e prima che potesse accorgersi della
presenza dell’uomo dietro di lei, si ritrovò bloccata per le spalle contro la
cassa che aveva funto da nascondiglio.
-Ora non mi scappi…-
sorrise beffardo l’uomo, mentre si abbassava a finire quello che aveva appena
cominciato. La ragazzina cercò di divincolarsi, ma la presa sulle sue spalle era
ferrea e si ritrovò a lamentarsi per il dolore. Quello si chinò sul collo della
giovane, mentre lei sollevò la mano che stringeva ferma il pugnale. Tolse piano
l’arma dalla guaina, tenendo d’occhio il suo molestatore, e vide il suo collo a
pochi centimetri da lei.
In quel momento avvertì
una collera mai provata prima, una rabbia cieca e folle che la guidava,
comandando la mano che stringeva il pugnale. Sentì il bisogno di uccidere, fare
del male, almeno quanto ne stava provando lei in quel momento e fino ad
allora.
Condotta da quell’insano
istinto che le bruciava le viscere, affondò con ferocia l’arma nel collo del suo
molestatore, sentendo l’urlo spezzato provenire dalla sua gola, il sangue che
sgorgava copioso dal taglio mortale che aveva inferto, inzuppandole il viso e i
vestiti. Riverso sul suolo di legno del molo, cercando disperatamente di
respirare, l’uomo guardò la ragazzina alzarsi in piedi,
ansimando.
Non una traccia di paura
negli occhi della giovane, per quello che aveva appena fatto, né di rimorso.
Solo odio, un odio profondo, covava nel suo sguardo. Nessuna
pietà.
Quasi con noncuranza,
sistemò come poté il corpetto scomposto, coprendosi col mantello, e mise in
ordine la gonna, chinandosi poi per tirar fuori il pugnale dalla gola dell’uomo
e sussurrargli -Addio- mentre lo spingeva al di sotto del molo, sul basso
fondale.
Al chiaro di luna,
rimase a guardare quell’acqua nera tingersi di un rosso cupo. Poi, come se nulla
fosse successo, si avviò verso la
locanda.
Ora il frastuono non era
nulla per lei. Le tempie pulsavano, sentiva il sangue nelle sue
vene…sangue…
Aveva commesso il suo
primo omicidio. E non sarebbe stato l’ultimo.
La ragazzina, segregata
tra quattro mura, spaventata dalla vita, era morta, uccisa dall’omicidio che
aveva commesso. La donna era appena nata.
Una donna che, con il
nome di Mira, nel corso degli anni a seguire avrebbe concesso il suo corpo a
innumerevoli uomini. Una donna che sarebbe diventata abilissima con la sciabola
e le armi da fuoco, viaggiando per ogni dove, uccidendo e rubando su
commissione, per sfuggire al suo passato, mentre nel mondo si diffondeva la
notizia che la principessa d’India, promessa sposa del severo e rigoroso
principe della Cina, era scomparsa, ed ogni sforzo per ritrovarla era stato fino
ad allora vano.
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