Partecipa al Niff
Month con il prompt 14: fotografia; smorfia; fluff.
Snapshot
Lui
aveva sempre adorato camminare sotto la pioggia, stringere il manico
dell’ombrello tra le mani e far roteare l’oggetto sulla sua testa con un
movimento lesto – come in quel musical che adorava tanto, magari canticchiando
anche. Quelle gocce restituivano pace ai suoi sensi; sentire il loro ticchettio
sulla stoffa dell’ombrello lo aiutava a mettere a posto i pensieri, come un
gruppo di api operaie che mettevano in ordine banchi di miele su degli
scaffali; così li immaginava i suoi pensieri, col cervello a fare da ape
regina. Camminare, ascoltando le sue scarpe sguazzare appena nelle pozzanghere,
e sentire il profumo della pioggia riempirgli le narici gli faceva spuntare un
sorriso. Aveva un debole per quelle piccole cose, gli imprimevano felicità
dentro, mentre si apprestava ad affrontare una dura e faticosa giornata di
studio, una stazione affollata e l’aria gelida delle sette del mattino.
Usciva di casa, apriva l’ombrello, guardava
davanti a sé le strade bagnate che riflettevano il grigiore del cielo, respirava
a fondo e si sentiva bene. Sentiva che, per quanto terribile e deleteria sarebbe
potuta diventare quella giornata, già solo quello spettacolo, quell’intreccio e
risveglio dei cinque sensi, ne sarebbe valso la pena.
Tuttavia non sapeva che quel 6
Marzo sarebbe stato speciale, non sapeva che quel giorno avrebbe amato ancora
di più la pioggia; avrebbe amato lei e gli incontri che ne sarebbero derivati
da essa.
**
Di abitudini strane ne aveva. Il
suo migliore amico glielo diceva sempre, quando abitava ancora a Lima con lui,
quando entrambi frequentavano lo stesso liceo e il pomeriggio si vedevano per
studiare e scherzare insieme. Ne aveva un sacco di abitudini strane: ascoltava
la musica, steso sul letto di traverso, con la testa penzolante in giù, al di
fuori del materasso; portava sempre un libro nello zaino, in modo tale da poter
leggere dovunque si trovasse; metteva gli occhiali da sole anche col tempo più
burrascoso e indossava la felpa, con tanto di cappuccio, anche col caldo
torrido. Ma l’abitudine più strana – quella che Jeff Sterling riteneva più
corretto definire come tradizione – era
un’altra e, quella mattina, avrebbe dovuto rinnovarla come ogni mese.
‹‹Fammi indovinare. Stai andando
alla stazione a fare quella cosa. Ho
ragione?›› La voce di Thad parve ovattata attraverso
il cellulare, ma Jeff riuscì comunque a distinguere la nota di incredulità di
cui era impregnata.
‹‹Sì.›› rispose atono, reggendo con
una mano il telefono e con l’altra l’ombrello, ed evitando al tempo stesso di
camminare vicino al bordo del marciapiede e rischiare di essere spruzzato
d’acqua da qualche auto di passaggio. ‹‹E dovresti farla anche tu.›› aggiunse
dopo un po’, facendo un lungo salto per evitare una pozza d’acqua, ‹‹È passato
un mese, Thad. È la nostra tradizione!››
All’altro capo del telefono, si
sentì uno sbuffo: ‹‹Jeff, non mi dimenticherò della tua faccia, come devo
dirtelo?››
Nessuna risposta e Thad sapeva che il silenzio con Jeff equivaleva alla
delusione e, di conseguenza, ad un immancabile broncio.
‹‹Jeff…›› sospirò, ‹‹Aveva già poco
senso quando la facevamo insieme, figurati adesso.››
Avvertì Jeff tirare su col naso e,
per quanto sapesse che quella fosse solo una tattica, decise di arrendersi e di
accontentarlo per quella volta: ‹‹D’accordo, come vuoi. Oggi pomeriggio vado a
farla.›› Sbuffò, giusto in tempo per sentire Jeff, dall’altro capo, esultare
dalla gioia.
‹‹Non te ne pentirai!›› esclamò
quello e disse anche qualcos’altro, ma le sue parole vennero coperte da un
frastuono assordante che Thad desunse derivasse dalle
rotaie della stazione ferroviaria e dal treno in corsa che vi stava sfrecciando
sopra proprio in quel momento.
‹‹Sei già in stazione?›› domandò,
non appena il rumore fu cessato un po’.
Jeff si sforzò di tenere il
telefono in equilibrio tra la spalla e la guancia, mentre chiudeva l’ombrello e
vi avvolgeva il laccio attorno. ‹‹Sì, sono appena arrivato.››
Udì Thad
armeggiare con qualcosa e, dal suono, gli parve che stesse scostando le grucce
nel suo armadio. ‹‹Allora ci sentiamo dopo, così… nel frattempo studio.››
rispose, con una strana incertezza nella voce, e Jeff non ebbe nemmeno il tempo
di salutarlo che quello riattaccò all’improvviso.
‹‹Sì, certo… Salutami Smythe.›› mormorò al nulla e si infilò il telefono nella
tasca del giubbotto. Tanto sapeva bene che il settanta per cento delle volte
che Thad gli diceva che doveva studiare corrispondeva
ad un semplice “Scusami, Jeff, ma adesso devo andare a grondare caramello
insieme al mio ragazzo”. Anzi, senza “Scusami”. Non si premurava neanche più di
mostrarsi dispiaciuto, quel maledetto. Ma dal canto suo, Jeff ci aveva fatto
l’abitudine. Quando si parlava del suo ragazzo, Thad
perdeva interesse per qualsiasi altra cosa e… beh, il resto era storia.
Il conoscere l’amico meglio delle
proprie tasche, però, non gli evitò di architettare una seppur stupida
vendetta. Così avrebbe imparato una volta per tutte a non snobbare la loro
tradizione, si era detto.
Perciò, nel dirigersi verso la sua
amata cabina delle fototessere e nell’entrarvi, Jeff scorse mentalmente la
sfilza di espressioni facciali più stupide del suo repertorio e, quando si
sedette sullo sgabello davanti all’obbiettivo e premette il pulsante
dell’autoscatto, mise dentro la foto tutta l’indignazione che provava per Thad.
Dopo aver recuperato la foto appena
stampata, tirò fuori un pennarello dalla tasca dei suoi jeans e scrisse sul
retro della carta poche semplici parole: “Te
lo meriti…”
Avrebbe spedito quella foto a Thad, proprio come ogni mese.
**
La stazione era tutta un mormorio,
anche quella mattina. Decine di pendolari e studenti sfrecciavano a destra e a
manca, da un binario all'altro, divorati dalla propria quotidianità: chiedevano
indicazioni, ti spintonavano, se non eri attento, e salutavano persone che
sarebbero andate lontano, mentre il baccano delle rotaie copriva le loro voci e
quella dell'altoparlante degli annunci. A Nick in genere piaceva viaggiare in
treno – e soprattutto gli piaceva leggere in treno – ma quel caos, quello stridere
di freni misto al boato di voci, gli faceva desiderare di allontanarsi al più
presto da quel posto e di rifugiarsi in un cantuccio tranquillo. Come la sua
strada torchiata dalla pioggia: nessun rumore al di fuori di quello, alla gente
non piaceva stare fuori quando pioveva. Lui invece lo adorava.
Sfortunatamente aveva esaurito
tutto il suo buonumore nel momento stesso in cui aveva messo piede alla
stazione. Non si era aspettato tutta quella folla e ogni minimo rumore che si andava
ad aggiungere alla confusione già esistente, lo faceva sospirare sonoramente.
Era sul punto di tirare fuori dalla
borsa l'ipod quando accadde. Sperava che la musica lo
avrebbe aiutato a rilassarsi e così si voltò e fece scivolare lo zaino da sopra
la spalla per raggiungere la zip che racchiudeva la sua agognata tranquillità,
ma la sua mano si fermò a metà strada. Un'ulteriore rumore attirò la sua
attenzione, diverso da tutti gli altri, e Nick allora alzò lo sguardo,
puntandolo davanti a sé. Ad un paio di metri da lui stava la cabina fototessere
e Nick considerò che il rumore che stava sentendo doveva venire proprio da
essa. E in effetti, era così: sembrava che la stampante al suo interno stesse
lavorando, ma la tendina della cabina era aperta, quindi non c'era possibilità
che qualcuno si stesse facendo una foto.
Nick si avvicinò, sistemandosi lo
zaino in spalla, e fissò per un lungo momento la macchinetta rombante davanti
ai suoi occhi. Sentì la curiosità scorrergli nelle vene e la suspense farsi
vivida attorno a sé. Studiò attentamente il rumore degli ingranaggi che si
faceva ritmico e costante, fino a che non udì uno scatto più forte che lo fece
sobbalzare. E poi silenzio.
Dalla fessura della cabina, come
previsto, spuntò fuori una foto e Nick si lasciò andare ad un sospiro di
sollievo. Per un momento, aveva davvero temuto che sarebbe saltata in aria. Si
concesse un momento per far rallentare il battito del suo cuore e poi si chinò a
recuperare il pezzo di carta.
Guardò il viso che vi era ritratto
e si ritrovò a sorridere: un ragazzo dalla chioma bionda gli stava facendo una
linguaccia. Si mise una mano davanti alla bocca per non scoppiare a ridere e
poi si guardò intorno. Se quel ragazzo aveva fatto la foto da poco, sarebbe
dovuto essere ancora lì nei dintorni.
Perlustrò il primo binario da un
lato, poi dall'altro, poi tornò a guardare in direzione dell'ingresso della
stazione. E lo notò: stessa capigliatura bionda, stesso naso all'insù, stessi
occhi chiari.
Il ragazzo in questione stava
andando via e Nick soppesò un attimo le due possibilità: perdere il treno o
raggiungerlo e ridargli quella foto imbarazzante? Alla fine perse il treno per
andargli dietro, ma quando fu fuori dalla stazione, il ragazzo della foto già
non c'era più.
«Un fantasma...» si ritrovò a
pensare, rabbrividendo, ma non perse altro tempo prima di darsi dello stupido,
«I fantasmi non vengono in foto.» Ridacchiò e tornò a guardare il ragazzo della
foto.
Era carino, considerò. Era
veramente tanto carino.
Senza quella smorfia sarebbe stato
ancora più bello.
Scosse la testa per scacciare quei
pensieri. Non poteva invaghirsi di una fotografia, anche se lui era capace di
questo ed altro. Una frana, ecco cos’era, e quella consapevolezza venne
rafforzata da un suo preciso pensiero: ‹‹Verrà a riprenderla, no? O a
rifarla?››
E mai si sarebbe aspettato una cosa
del genere da se stesso, mai avrebbe pensato che, anche lui, come quel ragazzo di
poco prima, si sarebbe ritrovato a fare una foto in quella cabina.
Ma questo era niente in confronto a
quello che avrebbe fatto dopo.
**
Tutto era cominciato circa un anno
fa. Jeff se lo ricordava bene quel pomeriggio. Era Halloween e la foto che
scattarono insieme lui e Thad, alla cabina delle
fototessere, fu la più incredibile di tutte le foto che avessero mai scattato.
Jeff aveva avuto la brillante idea di portarsi dietro un borsone che conteneva
una trafila di parrucche, denti da vampiro, unghie da strega, un mantello, un
rotolo di carta igienica per un’ipotetica mummia, un rossetto rosso
sgraffignato da sua sorella e – nonostante Thad non
avesse idea di quale fosse l’utilità – un papillon. Ricordava di aver passato
più tempo a scegliere il travestimento giusto, che a fare la foto e, in questo
modo, alla fine, Thad era diventato un vampiro dai
canini appuntiti e lui una sorta di zombie con una parrucca verde. Si erano
divertiti talmente tanto che avevano deciso di fare una foto diversa ogni mese
dell’anno, o meglio, Jeff aveva convinto Thad ad
inaugurare quella tradizione.
E così, anche quando Thad aveva cambiato città a causa dell’università, avevano
continuato a mandarsi foto per posta. Anzi, a dire il vero, era stato Jeff a
pregarlo di continuare, perché Thad era il suo
migliore amico e lui ne sentiva un sacco la mancanza. Oltretutto, temeva che lo
avrebbe dimenticato con l’andare del tempo – in particolare, perché era tutto
impegnato col suo fidanzato – e quindi telefonarsi soltanto non era una
soluzione al suo dilemma.
Ogni volta che gli arrivava una
foto di Thad, lui la studiava a lungo e cercava di
carpire il suo stato d’animo dall’immagine. Delle volte, gli faceva delle
strigliate al telefono che duravano ore, per chiedergli cose come “Perché non
mi hai detto che eri triste?” oppure “Cosa ha fatto Smythe
stavolta, per spiaccicarti in faccia quel sorriso?” e alla fine, fare quelle
foto li rendeva più vicini di quanto non sembrassero.
A Jeff successe la stessa cosa
anche con un’altra fotografia, il mese successivo a quella della smorfia, in
Aprile. Fu un fatto strano quello che accadde, perché Jeff fondamentalmente era
un tipo semplice e con la testa tra le nuvole, e quindi certe volte faceva le
cose senza prestarci molta attenzione. E quello fu uno di quei giorni.
Mise su un sorriso smagliante,
palesemente soddisfatto dalla foto che Thad gli aveva
spedito il giorno precedente, e attese il consueto bip della cabina delle
fototessere che lo avvisava dell’avvenuto scatto. Dopo ciò, uscì, recuperò il
foglietto sul quale la macchinetta aveva stampato la sua faccia e si incamminò
verso l’uscita della stazione. Lo fece senza neanche controllare l’esito della
foto, così. La tenne in mano, mentre attraversava la strada e raggiungeva la
piazza di fronte per prendere un sorso d’acqua dalla fontanella, e proprio
quando stava per deglutire e mandarla giù, se ne accorse: dietro la foto c’era
una scritta.
Rischiò quasi di soffocarsi, ma
riuscì comunque a sopravvivere. Si raddrizzò e avvicinò la foto al suo viso per
leggere. Era stato scritto a penna con una calligrafia ordinata e tondeggiante.
Hai
un sorriso bellissimo. Ti va di uscire con me? – N.
Aggrottò la fronte, leggermente
intimidito da quelle parole. Insomma, in basso c’erano anche le coordinate
dell’appuntamento. Doveva preoccuparsi?
‹‹Però adesso questa non la posso
più mandare a Thad…›› Sbuffò sonoramente, nel giungere
alla conclusione che il tipo dell’appuntamento aveva deturpato il retro della
sua foto. ‹‹Era venuta anche bene, mi sa.››
Fu allora che, finalmente, la voltò
per contemplarla. E no, quella decisamente non era la sua faccia, senza ombra
di dubbio, ma rimase talmente affascinato da quel volto sorridente incorniciato
da una massa disordinata di capelli corvini, che stette un lunghissimo momento
a boccheggiare incantato.
‹‹Stai scherzando, vero?›› mormorò
alla foto, ‹‹Certo che esco con te…››
**
Si sentiva uno stupido ad andarsene
in giro con quella foto in tasca tutte le mattine. Non sapeva spiegarselo, ma
nel momento in cui aveva visto quella smorfia in quel rettangolo di carta
stampata, un susseguirsi di avvenimenti si era fatto strada nella sua mente:
lui che lo rivedeva, lui che gli diceva il suo nome, lui che gli offriva la
cena. D’accordo, era un ragazzo che viaggiava molto di fantasia – forse troppo
– ma una piccola parte di sé credeva davvero di essere legata con un filo
invisibile a quella persona. Non era possibile, altrimenti, rimanere
imbambolato a guardare l’espressione buffa di quel biondino, per una manciata
di minuti interminabili, ogni volta che si avvicinava al comodino. La sua
coscienza continuava a ripetergli che era un idiota, perché non lo conosceva
affatto e perché si stava cacciando in guai più grossi di lui, ma alla fine si
decise a sopperire il buon senso.
In fondo, Nick era sempre stato
quello diligente, quello che rispettava le regole, quello che non si permetteva
mai di fare una pazzia qualsiasi. Quella cosa che gli era venuta in mente era
una bazzecola. Al massimo, si sarebbe fatto una risata sopra, una volta che
avesse capito che stava soltanto perdendo il suo tempo a cercare un ago in un
pagliaio.
E invece, le sue aspettative furono
deluse da ogni possibile punto di vista. Più passavano i giorni, più continuava
a cercarlo alla stazione, con lo sguardo, e più si sentiva deluso. Aveva
riposto talmente tante speranze in quell’incontro casuale, che ormai andava in
stazione più per ritrovare il ragazzo dalla smorfia buffa che per raggiungere
l’università.
Magari si sarebbe tenuto l’idea per
il futuro. Avrebbe scelto un ragazzo che sarebbe stato sicuro di poter
ritrovare, avrebbe preso la foto che si era scattato per l’occasione, l’avrebbe
sostituita con la sua e sarebbe andato all’appuntamento che aveva organizzato
lui stesso.
Era questo il suo piano e stava
quasi per rinunciarci, ma dopo un mese, la sua attesa fu ripagata.
Rimase impalato a seguirlo con lo
sguardo, fino a che non scomparve oltre la tenda della cabina delle
fototessere. Era proprio lui, non c’erano dubbi. Si riscosse, mentre un
formicolio allo stomaco e un paio di mani tremanti gli impedivano di tirare
fuori la sua foto; dopo di che si sfilò lo zaino e lo lasciò cadere a terra di
peso, agitato com’era. Vi frugò dentro, prese una penna e scrisse un paio di
righe sul retro della foto.
‹‹Non potevo scrivere una cosa più
stupida…›› borbottò, poi guardò la data sull’orologio e continuò a scrivere,
‹‹Facciamo il… 9 Aprile, alle otto, al… Lima Bean.››
E via! Sfrecciò alla cabina, con
l’ansia addosso, e fremette nell’aspettare che quella sputasse fuori la nuova
fotografia.
‹‹Avanti, muovit-››
Si ammutolì immediatamente, perché il sorriso radioso del ragazzo dalla smorfia
buffa era spuntato fuori dalla fessura della macchinetta. Inspirò profondamente
con la bocca schiusa e impiegò qualche secondo per destarsi da quella sorta di
incantesimo e sostituire la fotografia. Fece giusto in tempo ad allontanarsi e
a nascondersi dietro una colonna poco lontano, che la tendina si aprì.
Si affacciò leggermente dal suo
nascondiglio, col cuore che palpitava forte – non sapeva se per l’emozione o
per la paura di vedere ridotta in pezzi la sua fotografia – e si concesse un
attimo un po’ più lungo per ammirare, da quell’angolino celato, la figura
slanciata del biondo, le mani dalle dita affusolate e il viso birichino. Non si
accorse di stare sorridendo, sentì soltanto i suoi muscoli rilassarsi quando il
ragazzo dei suoi sogni – così lo aveva ribattezzato – se ne andò senza neanche
fare una piega.
**
Aveva perso il conto di quante
volte avesse maledetto Thad mentalmente, quella
mattina, mentre gli faceva milioni di raccomandazioni al telefono. Proprio non
era riuscito a dissuaderlo e ad impedirgli di presentarsi a quello strambo
appuntamento, perciò l’unica cosa sulla quale aveva potuto insistere era stata
il metterlo in guardia. Solitamente succedeva il contrario, era Jeff a fare da
mamma chioccia a Thad, ma quella volta l’idea del suo
migliore amico che incontrava un perfetto sconosciuto aveva fatto sì che si
invertissero le parti e aveva costretto Jeff ad ascoltare un’ora di
imprecazioni e consigli vari.
Era questo uno dei motivi per cui
era sceso di casa con dieci minuti di ritardo. Altri cinque li aveva spesi,
invece, per mettere in moto la vecchia auto di suo padre, che proprio non
voleva saperne di partire, quel giorno. Guidò frettolosamente, tamburellando in
continuazione le dita sul voltante e ponendosi più volte la stessa domanda:
come avrebbe dovuto comportarsi? Thad aveva ragione, si
disse. Era una pazzia andare ad incontrare una persona che non aveva mai visto,
se non una volta in foto – beh, sempre se non considerava l’averla sempre con
sé nel portafogli, a mo’ di santino – però davvero, era inspiegabile quel
fenomeno. Si era talmente attaccato all’idea che esistesse davvero una persona
del genere, romantica al punto di chiedergli di uscire in una maniera a dir
poco curiosa, che sarebbe rimasto davvero amareggiato se quella si fosse
rivelata un impostore.
E ancora peggio sarebbe stato se,
per colpa di Thad, fosse arrivato troppo tardi
all’appuntamento, finendo per non incontrare proprio nessuno. Questo pensò,
mentre parcheggiava l’auto poco distante dal Lima Bean, scoccando un’occhiata
truce all’orologio digitale sul cruscotto.
Fantastico, segnava le otto e
venti. Era in un ritardo mostruoso.
Prese il giubbotto sotto braccio e
chiuse l’auto col telecomando, per poi dirigersi a grandi passi verso
l’ingresso del bar.
Poteva farcela, si ripeté, sarebbe
stato il migliore appuntamento al buio di
giorno della storia.
Varcò la soglia e si fermò a pochi
metri dal bancone della commessa. Si guardò intorno: chiome rosse, chiome
bionde, chiome castane, coppiette, vecchietti, bambini, ma lui dov’era?
‹‹Ecco, lo sapevo…›› brontolò,
continuando a guardarsi intorno, ‹‹Sono arrivato troppo tardi…››
Evitò di dirsi che probabilmente
era stato vittima di uno scherzo, perché quello lo avrebbe davvero distrutto.
Aveva passato due giorni interi a fantasticare sulla voce che poteva avere quel
ragazzo, su se fosse alto o basso, gentile o rude, su se quel sorriso raggiante
fosse solo apparenza, e poi ecco cosa gli era rimasto: un bidone.
Si avvicinò al bancone del bar con
un’espressione avvilita e probabilmente anche la cassiera si accorse del suo
stato d’animo perché gli chiese l’ordinazione con un tono fin troppo
caritatevole.
Jeff sospirò ed alzò lo sguardo per
rivolgersi alla donna alla cassa.
‹‹Un-››
‹‹Due cioccolate.›› lo interruppe
una voce gentile e vellutata e Jeff sgranò gli occhi, voltandosi a guardare il
viso della persona che aveva parlato.
Boccheggiò per qualche secondo,
prima di dire alcunché.
‹‹Ma tu… sei tu?›› annaspò con
timidezza, colpito irrimediabilmente da quello stesso sorriso bellissimo che
aveva visto in foto.
**
Era arrivato al Lima Bean con
mezz’ora d’anticipo. Aveva passato il tempo a torturarsi le mani per il
nervosismo e non aveva fatto altro che voltarsi verso l’ingresso del bar, ogni
volta che vi entrava qualcuno. Aveva continuato ad allungare il collo in quella
direzione e a sospirare frustrato nel rendersi conto che nessuna di quelle alla
porta, una dopo l’altra, era la sua persona speciale. Col passare dei minuti,
l’agitazione cresceva e la paura di rimanere solo a quel tavolo si faceva più
concreta.
7:54 a.m.
‹‹Okay, tra sei minuti è l’ora x. Sii gentile e non fare figuracce… E
non dire stupidaggini.››
8:02 a.m.
‹‹Sono passati soltanto due minuti,
Nick. Sta’ calmo. Vedrai che ora arriva.››
8:07 a.m.
‹‹Magari ha perso tempo a scegliere
qualcosa di carino da mettersi. Magari…››
8:13 a.m.
‹‹Oppure potrebbe aver davvero
stracciato la fotografia e avermi preso per uno stalker…
e io sto aspettando invano l’arrivo del ragazzo dei miei sogni, pur sapendo, in
fondo in fondo, che lui non verrà…››
8:17 a.m.
‹‹Probabilmente è fidanzato…››
8:18 a.m.
‹‹E etero…››
8:20 a.m.
‹‹Non verrà.››
Sapeva che sarebbe arrivato quel
momento, sapeva che avrebbe dovuto arrendersi all’evidenza e andare via a mani
vuote, o comunque ricevere uno sguardo stranito da quel ragazzo, o nella
peggiore delle ipotesi, venire arrestato per stalking,
ma comunque quando si alzò dalla sedia e si diresse verso l’uscita del bar, le
gambe gli sembrarono ugualmente pesanti. Trascinò i piedi sul pavimento fino
alla porta a vetri e diede un’ultima occhiata dietro di sé, prima di uscire – del
resto, poteva essere sempre stato lì e lui non l’aveva notato.
Percorse un paio di metri sul
marciapiede, somigliando pressappoco ad un’anima in pena, fino a che qualcosa,
dentro di sé, non gli disse di voltarsi. Sbirciò da sopra la spalla, così,
senza un motivo, e vide una chioma bionda inconfondibile sparire oltre la porta
d’ingresso del Lima Bean.
‹‹Un’allucinazione…›› mugugnò a se
stesso, ma non aspettò un altro secondo per verificare quello che aveva visto. Corse
letteralmente alla vetrina del bar e vi premette sopra le mani per curiosare
all’interno: il ragazzo dalla smorfia buffa era al centro della sala e si
guardava intorno sconfortato.
‹‹È venuto davvero… Mi sta cercando
davvero…››
Si sentiva inaspettatamente felice
a quella visione, tanto che l’euforia gli aveva fatto spuntare un enorme
sorriso sulla faccia. Ritornò all’interno del locale e prese un bel respiro,
prima di avvicinarsi al ragazzo che lo stava aspettando al bancone.
‹‹Un-››
‹‹Due cioccolate.›› lo precedette e
quello si voltò con l’incredulità disegnata sul viso.
‹‹Ma tu… sei tu?››
All’udire quelle parole, sentì lo
stomaco ingarbugliarsi e non riuscì a fare altro se non annuire.
‹‹Temevo che fosse solo una presa
in giro.›› disse il ragazzo, rivolgendogli uno sguardo innocente e un sorriso
timido e dolce.
‹‹Temevo che lo pensassi.››
biascicò lui in risposta.
‹‹È stato… originale, Enne.›› Il ragazzo dalla smorfia buffa
ridacchiò a quell’allusione e Nick si sentì arrossire perché, sul serio, mai
gli era capitato di infatuarsi così, al primo sguardo, e lui era davvero
bellissimo quando rideva.
Si grattò una guancia in imbarazzo
e gli porse la mano, prima di presentarsi a dovere: ‹‹Il mio nome è Nick.››
‹‹Io sono Jeff.›› Gli strinse la
mano e Nick sentì un brivido carezzargli tutto il corpo, mentre lo stesso
calore che aveva alle gote gli inondava il palmo della mano. Immaginò che anche
Jeff lo stesse percependo, perché il suo sguardo si era fatto profondo e le sue
labbra si erano schiuse, come fosse sorpreso da quell’inequivocabile affinità.
‹‹Vogliamo sederci?›› Jeff lo destò
dai suoi pensieri e solo allora Nick si accorse delle due bevande poggiate sul
bancone – si era di nuovo incantato a guardarlo.
‹‹Certo.›› gli rispose,
lasciandogli la mano. Jeff fece per porgere una banconota alla cassiera, ma
Nick lo fermò, afferrandogli l’altra mano con delicatezza. ‹‹Ti ho invitato io,
ricordi?›› Sorrise radioso e Jeff annuì timidamente.
All’inizio fu difficile trovare
qualcosa di cui parlare. Nick si sentiva uno stupido perché aveva trascorso un
mese intero a riflettere su come sarebbe stato uscire con quel ragazzo, ma non
aveva pensato minimamente a come avrebbe dovuto comportarsi. Se ne stava
seduto, di fronte a lui, a mescolare la sua cioccolata calda e a guardarlo di
sottecchi, senza che gli venisse in mente un argomento valido di conversazione.
Forse non era stata una buona idea invitare ad uscire uno sconosciuto. Lui non
era capace di non incespicare nelle sue stesse parole, non era in grado di far
filare liscio come l’olio un semplice incontro al bar. Lui era un impiastro con
quelle cose.
Fortunatamente, però, c’era Jeff e
lui era il suo esatto opposto. Parlava come se si conoscessero da anni e lo
faceva sentire rilassato e al posto giusto. Era veramente straordinario.
‹‹Mi devi perdonare, il mio amico Thad mi ha fatto tardare stamattina. Voleva convincermi ad
ogni costo a non presentarmi. Io gliel’ho detto: me lo sentivo dentro che non
era un imbroglio, perché insomma, tu sei… così.››
Lo disse a perdifiato e poi arrossì in una maniera veramente adorabile. ‹‹Non
riuscirei a scambiarti per un malvivente neanche se volessi.››
E allora Nick abbassò lo sguardo e
sorrise tranquillo. ‹‹Io… è un mese che aspetto.›› gli rivelò, ‹‹Ti ho visto
per la prima volta un mese fa. Facesti quella foto buffa e, lo so che sembra
stupido ma… Mi sono innamorato della tua spontaneità e mi sono talmente
attaccato all’idea di incontrarti, di vedere com’eri, che…››
Jeff, però, non lo lasciò finire.
‹‹Anch’io.›› disse, rivolgendogli
uno sguardo intenso che fece credere a Nick che, magari, era davvero il
destino, quello che li legava, ‹‹Ho visto la tua foto e ho pensato: cavolo! O è
un idiota, o è un principe azzurro.›› Rise di nuovo, finendo per contagiare
anche Nick.
‹‹Sono caduto nel cliché?›› domandò
lui e Jeff scosse la testa.
‹‹Neanche in un film ho mai visto
una cosa simile, ma devo dire che…›› Si sporse sul tavolo, poggiandovi sopra i
gomiti, e abbassò un po’ la voce. ‹‹È stato molto romantico.››
Nick trattenne il fiato, mentre il
suo cuore accelerava e il suo sguardo si incatenava a quello di Jeff. Era
strano come, all’improvviso, pensasse che quella fosse la persona, quella che poteva renderlo felice, quella che poteva
farlo sentire bene e male insieme. Perché era così che si sentiva in quel
momento. Il fiato gli mancava e il cuore non accennava ad acquietarsi. Si
sentiva talmente bene da stare male e talmente male da stare bene. Ma
sorrideva, sorrideva solo per Jeff e Jeff solo per lui, ed era magnifico. Non
si era mai sentito così e le parole che pronunciò poco dopo gli vennero con una
tale naturalezza da spaventarlo quasi.
‹‹Quindi pensi che potremmo uscire
di nuovo? Seriamente, intendo.››
Il petto gli fece ancor più male,
se possibile, mentre aspettava la risposta, ma tutto andò a posto quando la
mano di Jeff si posò sulla sua, abbattendo la distanza che li divideva.
‹‹Sì.››
The
end begin.
*si asciuga il sudore dalla
fronte*
Buon Niff
Month a tutti!
Ebbene sì, sono giunta anche io
qui con una roba chilometrica che proprio non aveva voglia di concludersi, ma
alla fine ce l'ho fatta. Ringrazio chiunque sia riuscito ad arrivare fino alla
fine... uhm, all'inizio... insomma, quello che è.
L'idea in sé mi è venuta un po'
grazie a "il favoloso mondo di Amelie" (la cabina delle fototessere è
dove si conoscono Amelie e Nino *sospira sognante*) e un po' grazie ad una mia
amica che, qualche settimana fa, mi ha raccontato di aver davvero portato un
borsone dei travestimenti alla cabina delle fototessere. Ma sto divagando, ho già
scritto un romanzo, meglio finirla qui.
Mando un enorme abbraccio niffoloso a Robs, che mi ha
sopportata ad ogni singolo paragrafo che veniva fuori dalla mia testolina, e a
Silvia, che mi ha dato la sua approvazione da Niffer
per eccellenza (per me lo è davvero). E infine, ringrazio anche tutte voi del Niff Month. *galleggia nel fluff*
Alla prossima!
Vals