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Autore: nainai    08/05/2007    7 recensioni
Due persone completamente diverse, due vite assolutamente simili. Come ci si può incontrare e scoprire vicini, al di là di ogni differenza, per potersi sostenere a vicenda. Anche solo per una notte
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Muse, Placebo
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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Before you begin.
Per continuare a copiare spudoratamente la mia “musa” ispiratrice nella sezione RPF ^^
(Credit to “Lisachan on EFP Corporation”)
 
Questo abominio è il regalo di compleanno più in ritardo della storia dell’Umanità (sì, proprio quella con la U MAIUSCOLA). Il compleanno è di Lisachan – auguri, uccidimi pure ^^ - il ritardo e l’abominio totalmente e completamente miei, così come la pessima figura che ne consegue.
A parte questo, sono felice di averla scritta, alla fine, e felice di poter fare i miei auguri sinceri ad una persona speciale che se li merita tutti.
Premetto da subito che la sola idea di scrivere una Bratt (termine “tecnico” inteso ormai come “ff su Brian Molko e Matt Bellamy quale coppia”) mi ha dato i brividi fino a ieri, così fin dal primo momento il mio cervello mi ha esplicitamente comunicato il messaggio “prova a farli scopare e giuro che ti abbandono definitivamente”.
Aderendo alla sua gentile richiesta, mi sono limitata ad andarci mooolto soft.
Ciò premesso - e detto inter nos, mia carissima Lisa – il prossimo anno giuro che mi limiterò ad un paio di pantofole rosa e pelose: perché richiedono meno impegno; sono più facili da rinvenire di un’idea di trama, che ci ha messo quasi un mese a formarsi in modo decente ed è rimasta comunque un’idea di trama; non fanno fare figuracce davanti al mondo, che legge questa roba e si chiede “ma perchè?”; ecc. ecc.
 
Detto questo. Signori, aderendo al regolamento di EFP, si da il seguente, preciso, esplicito ed assolutamente sincero
 
AVVERTIMENTO:
Il seguente scritto non è stato redatto né pubblicato a scopo di lucro (al più mi becco una denuncia e mi tocca pagare i danni, vorrei capire che accidenti uno ci potrebbe lucrare se non un’ulcera…Vabbè).
I personaggi citati non sono di mia proprietà (bella forza, la schiavitù purtroppo è stata abolita circa uno o due secoli fa…Ora controllo).
Non c’è nessuna pretesa di veridicità (ma manco di verosimiglianza) e qualunque allusione alle abitudini sessuali dei protagonisti è esente da ogni appiglio con la realtà delle relazioni intercorrenti tra gli stessi e delle loro personali scelte in tale ambito.
Inoltre non s’intende offendere nessuno, anche se non so bene perché qualcuno dovrebbe sentirsi offeso dalle cavolate qui raccontate.
 
Diverso da me…
Haemoglobin
 
La caratteristica migliore degli esseri umani è che non esiste nulla che possa ucciderli davvero.
Per quanto il mondo si accanisca, per quanto lo facciano le persone che abbiamo intorno, per quanto ogni singolo frammento della nostra esistenza possa ostinatamente scegliere di conficcarsi dentro il petto e lentamente affondare inesorabile…la vita continua lo stesso. Il respiro anima il nostro corpo anche quando sembra che non ci sia aria che attraversi i polmoni ed il cuore batte anche quando preme tanto forte da sembrare scoppiare.
Ed invece non scoppia. Ed invece respiri. Ed invece…
La caratteristica peggiore degli esseri umani è che non esiste nulla che possa ucciderli davvero.
No…alla fine…continui a respirare.
-Cazzo, no! Piove!
Non vide il bassista sorridere, in piedi alle sue spalle, ma intuì quel sorriso nel tono pacato con cui gli rispose.
-Brian, che t’importa?- chiese Stefan- Tanto noi avremo in ogni caso la testa al coperto, no?
Sbuffò.
-Sì sì!- sminuì con un gesto vago della mano.
Tornò indietro per impadronirsi della Red Bull sul tavolo e berne un sorso distratto mentre adocchiava il pacchetto di sigarette abbandonato lì davanti. Troppo invitante…Ne prese una, sfilandola con eleganza dal pacchetto, e cercò a tentoni l’accendino nelle tasche della giacca. Ne aveva uno. Ne era sicuro. Lo aveva preso prima di uscire dalla stanza in albergo e lo ricordava distintamente. Quindi, se non era in tasca…
-Stef.- ordinò allungando una mano verso lo svedese, che rise e tirò fuori il proprio accendino- Grazie.- concesse prima di impossessarsi dell’oggetto in via definitiva.
Soffiò compiaciuto una nuvola di fumo che si perse nello spazio ristretto del tour bus.
La verità era che odiava la pioggia in sé. O per meglio dire, odiava ciò che la pioggia rappresentava. Il modo assurdo in cui poteva imbambolarsi per ore a fissare quello scivolare ripetitivo di gocce dal cielo, solo per detestare mortalmente la propria malinconia.
-Ti rovinerai la voce.
Fissò malevolo Steve, che entrava in quell’istante giusto in tempo per buttare la propria frecciatina e riceverne un’occhiataccia in risposta. Il batterista non gli badò. Ormai aveva decisamente poco ascendente su quei due, sapevano troppo bene quanto le sue fossero semplici “pose” e non atteggiamenti reali. Così sospirò sconsolato, arrendendosi all’evidenza di non poter in alcun modo impedire che i suoi due migliori amici lo trattassero come un bambino di dieci anni, anche se ne aveva qualcuno in più.
-Steve, non posso rovinarmi la voce.- ribatté- L’ho già fatto!- aggiunse quindi, alzando al cielo gli occhi dipinti di grigio scuro.
Avrebbe voluto poter andare struccato almeno alle dannatissime prove di quel dannatissimo Festival; ed, invece, due interviste ed un servizio fotografico per non-si-ricordava-più-quale-rivista erano diventati un motivo sufficiente per dover indossare la solita maschera di fondotinta, ombretto e kajal.
-Questo lascialo decidere ai fan!- protestò Stefan.
Brian sorrise. Sapeva che i suoi commenti su quell’aspetto infastidivano sempre Stefan. E la sua stizza, d’altronde, lo divertiva. Stefan sarebbe rimasto in eterno il suo primo fan?
-Ahah,- se ne uscì convinto. Aveva quasi dimenticato quanto potessero farlo stare bene quei due: qualche parola detta al momento giusto e tutto ricominciava ad andare nella giusta direzione- Va bene, facciamo un sondaggio: “ascoltando tutti i dischi dei Placebo, in quale anno la voce di Brian Molko rendeva meglio, secondo te?”
-Brian, finiscila!- rimbeccò seccato Stefan.
-Ma dai! È un gioco innocente! Per dare un po’ di soddisfazione al povero Steve!- ridacchiò Brian.
-Scusa se mi preoccupo per la tua salute!- commentò quest’ultimo lasciandosi cadere su uno dei divanetti del tour bus e fissandolo da sotto le palpebre socchiuse.
-Non morirò, promesso.- concesse Brian, stringendosi nelle spalle ed annunciando la cosa con una semplicità disarmante.- Non prima del prossimo disco, in ogni caso. Vi permetterò di arricchirvi a mie spese ancora per un paio di anni. A voi ed a quelle sanguisughe della EMI.
-Oh, grazie, troppo carino!- sogghignò Steve con il sottofondo delle risatine di Stefan in accordo.
Brian puntò il dito prima contro l’uno e poi contro l’altro.
-Siete cattivi con me. Dovrei abbandonarvi qui e tornare in albergo da solo.- affermò.
-Non sperarci, non prima che Alex ci abbia dato la libera uscita, quanto meno.- ribatté Steve, rammentando loro il motivo per cui si attardavano ancora nel backstage dell’Heineken.
-Beh, se non si sbriga darà la libera uscita all’“idea di me”, perché io sarò già dall’altra parte della città.- sbuffò Brian, mentre si lasciava cadere a sedere accanto al batterista.
Steve gli allungò un pizzicotto sul braccio, badando di fargli quanto più male possibile, e ne ricevette in cambio un infantile “ahia” che scatenò la sua ilarità.
-Cos’è?- s’informò maliziosamente a quel punto.- Inventare balle ad uso e consumo dei giornalisti ti porta via troppe energie?
-Tu ti permetti queste battute perché tanto la parte delle chiacchiere spetta sempre a me!- borbottò Brian cupo, arricciando il naso in un’espressione offesa che strappò una risata sincera agli altri due.
Già…solo che lui non stava scherzando. Non del tutto almeno.
Ascoltò appena Stefan e Steve lanciarsi in una discussione alquanto futile sulle altre band che avrebbero partecipato al Festival quell’anno e sui criteri utilizzati per stabilire il calendario delle esibizioni. A lui non interessava. Dopo un intero tour aveva solo voglia di tornare a casa e concedersi una vacanza, gli strascichi degli impegni di promozione erano sempre una tortura maggiore dell’intera attività di un anno.
Perché lui era esausto. Perché non aveva nemmeno voglia di dirlo in giro. Perché anche Stef e Steve erano stanchi e questo li portava ad essere meno disponibili nei confronti delle sue paturnie.
…Perché quella dannata maschera di cera, quell’accidenti di personaggio che era “il Cantante dei Placebo” gli pesava addosso come mai…
E pioveva pure! Maledizione alla pioggia! Ma l’Italia non doveva essere il “paese del sole”?!
-Bene, bambini! Per ora abbiamo finito.- annunciò Alex con vivacità, facendo il proprio ingresso nel tour bus.- Nella speranza che questo tempo del cavolo si decida a rimettersi, siete congedati fino a stasera alle sei.
Brian gettò un’occhiata all’orologio e sorrise.
-Cavoli, Alex! Tutto questo tempo? sono quasi tre ore!- sottolineò cinicamente.
-Brian!- sbottò lei, incrociando le braccia sul petto.
Brian le concesse un’occhiata di più. Sembrava stanca anche lei, si disse. I vestiti ed i capelli umidi di pioggia gli fecero intuire che non aveva perso tempo a cercare un ombrello per raggiungerli dalla “sala stampa” a lì. E, come per lui stesso, il trucco copriva con difficoltà le occhiaie scure delle notti insonni e del ritmo di lavoro troppo serrato.
In fondo, pensò, prendersela con lei, che condivideva quasi tutti i loro sbattimenti, era davvero una bastardata gratuita.
Decise che poteva fare uno sforzo per essere gentile.
-O.k. Alex, saremo di ritorno in perfetto orario.- promise regalandole uno di quei meravigliosi e smaglianti sorrisi da supermarket che gli venivano tanto bene, e le strizzò l’occhio con fare complice.
Di solito non riusciva ad imbrogliarli. Quando loro erano abbastanza in forze da avere energia per lui. Ma adesso non era uno di quei momenti e lei si limitò a ricambiare il suo sorriso, fingendo che fosse sincero, ed a lasciarli andare via.
 
Matt rigirava per la sala d’aspetto come un leone in gabbia. Un’ora di ritardo! Un’ora! Non dieci minuti…o anche venti…Perfino trenta! No, un’ora esatta e neppure si sapeva se e quando sarebbe arrivata!
Soffiò fuori il fiato, levando gli occhi al cielo in segno di sconforto. Dannazione! Lo sapeva che sarebbe finita così! Se lo sentiva dall’inizio, ed avevano un bel dire Dom e Chris che era solo il suo solito pessimismo catastrofico! Lui, appena aveva visto le prime gocce rigare i vetri del tour bus, aveva puntato il dito e detto da subito che Gioia avrebbe finito per avere problemi con l’aereo!
Maledizione!
…E pensare che era così contento che alla fine lei ce l’avesse fatta a raggiungerlo per il Festival…Era da quel mattino, quando lei lo aveva chiamato durante le prove per dirglielo, che “saltellava” in giro euforico. Più assurdo del solito, più incasinato e casinista. La sua allegria aveva finito per contagiare tutti, dai tecnici con cui avevano lavorato ai giornalisti che non erano riusciti a cavargli di bocca una sola risposta di senso compiuto. L’unica cosa che Matthew Bellamy sembrava in grado di ripetere era “sapete che alla fine ci sarà anche la mia fidanzata al concerto?!”. Ed aveva usato proprio quella parola lì: fidanzata. Non ragazza o roba del genere.
Ma ovviamente Dio o Chi per Lui aveva ben deciso diversamente! Ed aveva iniziato a piovere.
Esattamente dieci minuti prima che lui lasciasse le prove del Festival per correre a quel dannato aeroporto.
Mentre la macchina a noleggio lo accompagnava fin lì, Matt era rimasto tutto il tempo con il naso schiacciato contro il finestrino, come un bambino, fissando il cielo in una vana speranza di miglioramento. Era riuscito a far sorridere perfino l’autista, che aveva ridacchiato sotto i baffi per quell’insolito cliente.
-Si rilassi.- aveva tentato di esortarlo l’uomo. Matt si era voltato a ricambiare lo sguardo comprensivo che lo scrutava attraverso lo specchietto retrovisore.- Al più potrà avere un po’ di ritardo.
Matthew aveva sorriso imbarazzato a propria volta, la voce gli era uscita piuttosto strozzata quando aveva risposto:
-Solo che io tra meno di tre ore devo essere sul palco…
-Oh.
Ne era seguito un certo silenzio, durante il quale Matt era tornato a scrutare il cielo e, non notato, anche l’uomo alla guida aveva dato un paio di scorci alle nubi cariche sull’orizzonte. Pareva proprio il classico temporale estivo. E non sembrava neppure uno di quelli che si esauriscono in uno spazio di tempo breve. Il ticchettare - per la stagione inusualmente costante - delle gocce sulla carrozzeria dell’auto li aveva accompagnati per tutto il tragitto.
Quando la macchina nera si era fermata proprio davanti la porta degli Arrivi Nazionali, Matt non aveva neppure dato il tempo all’autista di scendere ad aprirgli la portiera con un ombrello, ma, bissando la manovra attuata nel backstage per liberarsi degli uomini di scorta, si era praticamente precipitato fuori della macchina e oltre il marciapiede, diretto a passo di carica verso le porte automatiche. Non aveva badato alla voce dell’uomo che lo chiamava, ma si era infilato risolutamente dentro e si era fermato solo lì, oltre la soglia, fissandosi intorno smarrito.
Bene.
…e ora?
Con un gesto nervoso aveva scrollato il capo per liberare i capelli dalle poche gocce rimaste impigliate al gel, aveva infilato le mani in tasca ed era avanzato scrutando intorno a sé il clima di agitazione generale che animava l’intero aeroporto.
Sembravano tutti troppo occupati e nervosi per badare a lui.
Pericolo fan sfegatati in trasferta scongiurato, aveva ragionato Matt con un certo sollievo.
Non aveva nulla contro i fan, ma a volte riuscivano un filino invadenti e lui, allo stato dei fatti, voleva solo riabbracciare Gioia, riempirla di baci, tornare con lei in albergo, cambiarsi e volare al Festival prima che Tom lo scorticasse vivo per essersi defilato con tempi tanto ristretti.
Ovviamente, passato il primo momento di soddisfazione, l’agitazione generale si era trasferita anche a lui, man mano che si rendeva conto di quale ne fosse la causa scatenante.
Ritardi.
Su tutti i voli.
-Merda.- era stato l’unico commento che era riuscito a formulare, mentre fissava il tabellone degli arrivi.
Peraltro con una flemma talmente british da poter esserne compiaciuto per ben tre secondi netti, prima di associarsi all’ansia degli altri presenti.
Aveva preso il cellulare dalla tasca, cercando il numero di Gioia in rubrica e saltandolo almeno quattro volte, tanto era il nervosismo, prima di riuscire a selezionarlo e chiamarla.
Perché se lei non gli avesse risposto, se quell’adorabile vocina registrata dell’operatore telefonico gli avesse detto che “l’utente desiderato non era al momento raggiungibile”, avrebbe voluto dire che, con tutta probabilità, era già in volo. Ed allora avrebbe significato, al più, un piccolo ritardo…no?
No.
Squillava. Il maledetto fedifrago, traditore, infame!!! Squillava! Non lo faceva mai, di solito non c’era campo, di solito era dall’altra parte del globo e non poteva sentirla, ma oggi squillava!
-Matt?
-Gioia!- aveva esclamato d’impulso sentendo la voce esitante della ragazza al telefono.- Dimmi che non sei dove credo tu sia, ti prego!- l’aveva scongiurata in modo alquanto confuso.
Lei non aveva risposto subito, ma quando lo aveva fatto era valso a distruggere tutte le sue speranze.
-Mi spiace, Matt, ma sembra che abbiano dei problemi con la linea e può darsi che io faccia più tardi.- aveva confermato.- Magari è meglio se tu vai ed io ti raggiungo in taxi…- aveva provato quindi a suggerire.
-NON ESISTE NE’ IN QUESTA NE’ IN NESSUN’ALTRA VITA FUTURA!
Risultato. Quasi tutti i presenti si erano voltati nella sua direzione.
Matt aveva ringraziato la scarsa conoscenza della lingua inglese che accomuna la gran parte degli italiani, ed aveva gettato una tale occhiataccia ad un gruppo di turisti tedeschi che questi si erano affrettati a voltarsi di nuovo riprendendo a parlottare tra loro animatamente.
-Sono qui per prendere la mia ragazza e non vado da nessuna parte senza la mia ragazza!- si era impuntato infantilmente.
Ma Gioia ormai lo conosceva abbastanza da sapere che, quando faceva così, c’era davvero molto poco da dire per convincerlo. Aveva sospirato e gli aveva detto che gli avrebbe fatto sapere quando sarebbero partiti.
E tutto questo succedeva esattamente un’ora prima.
 
Brian raggiunse a piedi la macchina per farsi riaccompagnare in Hotel. Stefan e Steve gli avevano appena dato buca, dopo avergli fatto perdere inutilmente un’altra mezz’ora ad aspettarli per poi decidere di restare lì. Tanto che senso aveva tornare indietro e poi dover fare le corse? Lui non ce la faceva più. Se trovava un altro ragazzetto indemoniato che gli chiedeva un autografo, rischiava seriamente di prenderlo a parolacce e non era il massimo per la sua immagine. Che già così…
Sbuffò, cercando in tasca le sigarette e l’accendino che era appartenuto a Stefan. Steve non aveva tutti i torti, decisamente quel giorno stava esagerando; contò le sigarette nel pacchetto e si ripromise che dopo quella non le avrebbe più toccate fino al concerto. Poi lo sapeva già che sul palco, con la tensione e tutto, non avrebbe resistito, quindi meglio non tirare troppo la corda con se stessi. Infilò il cilindro tra le labbra e litigò con l’accendino fino a che non ebbe ottenuto una fiammella sottile, che rischiò più volte di spegnersi sotto il ticchettare della pioggia.
“Un ombrello, Brian?”, si disse sorridendo ironicamente, “Magari evitiamo di prenderci una polmonite…”
Tanto più che faceva anche freddo. Non solo l’acqua, l’umido, la depressione, il malumore…No no, anche il freddo. Pungente e fastidioso, che s’insinuava sotto la giacca leggera, facendogli rimpiangere di essersi messo proprio dei vestiti così carini e poco utili per andare alle prove quel mattino e fare bella figura durante la mascherata per i media.
“Ecco, ora ammalati. Così, o Alex ti ammazza ed hai risolto i tuoi problemi in via definitiva; o peggio, decide di curarti con amore, pazienza e dedizione e te la ritrovi dietro, come una chioccia preoccupata, che si assicura tu abbia messo la maglia di cotone e abbia stretto bene la sciarpina intorno al collo.”
Non era sicuro di quale delle due fosse la prospettiva più orribile.
Espirò il fumo e, mentre raggiungeva l’auto scura al margine della zona del Festival, si domandò vagamente se avrebbe dato noia all’autista. Decise che non gl’interessava e s’infilò oltre lo sportello che l’uomo teneva aperto, mettendosi comodo sul sedile e controllando solo che il vetro che lo separava dall’abitacolo anteriore fosse ben chiuso. L’ultima cosa che desiderava quel giorno era scambiare due cordiali chiacchiere con chicchessia.
Si lasciò scivolare nell’abbraccio morbido del sedile, sprofondando nella pelle per sentirla scricchiolare contro di sé. Era stanco, gli arrivava l’eco di quella stanchezza in un effetto distorsivo, come se il sedile respingesse il suo contatto, la vicinanza con il suo corpo. Sorrise. Ci sono momenti in cui perfino essere rifiutati dagli oggetti può contribuire a ferirci, valutò. Poi, con le vibrazioni dell’auto in movimento, anche il sedile di pelle parve farsi più condiscendente, lasciandogli modo di posare il capo contro il poggiatesta e chiudere gli occhi.
C’era qualcosa che voleva adesso. Un desiderio sordo che saliva dallo stomaco ma che ancora non riusciva a focalizzare. Lo sentiva soltanto come qualcosa di bruciante contro il palato. Fame, ecco la sensazione che più si accomunava all’intensità di quel che provava. Si concentrò, per decifrare l’oggetto di quel desiderio, e lentamente nella sua mente si focalizzò l’immagine di qualcosa…di qualcuno.
Fu con questa idea in mente che raggiunse l’albergo. L’auto lo lasciò all’ingresso e lui scese con la stessa flemma con cui era salito e fece per accendersi nuovamente una sigaretta che sostituisse quella terminata in macchina, in un gesto assolutamente abitudinario che fu interrotto dal pensiero di quanto si era ripromesso solo pochi istanti prima di partire dalla location del Festival. Così la lasciò spenta tra le labbra, accontentandosi del tenue sapore di nicotina che gli concedeva anche così.
Cercò la chiave magnetica in tasca, mentre saliva a piedi le scale. Aveva voglia di camminare e lo fece fino a che il battente della porta non gli si parò davanti ad impedirgli il passo. Infilò la chiave nella porta, girò la maniglia, aprì, entrò e richiuse. Mentre scorreva i numeri nella rubrica del cellulare si avvicinò al mobile bar. Una pressione leggera sul tasto di selezione, un’altra. Avvicinò l’apparecchio all’orecchio ed aspettò.
La vodka aveva un sapore impalpabile, che si confondeva con quello dei suoi pensieri. Per un attimo, quando lei gli rispose, gli parve di sentire sui vetri di casa lo stesso ticchettare leggero delle gocce che picchiavano contro la finestra della sua camera lì in Hotel. Il suono scivolò fino a lui, insinuandosi nello spazio che la voce di Hellen lasciò libero; in quel breve frammento di attimo, Brian si vide solo, davanti ad uno specchio che gli rimandava un’immagine dell’appartamento che condividevano a Londra, freddo, buio e vuoto. La pioggia batteva sui vetri…
Fu felice quando lei zittì quel silenzio ticchettante con la propria voce.
-Brian? Stai bene?
Era ridicolo che gli chiedesse una cosa del genere! Quasi ridendone, si rese conto che in fondo aveva ragione lei: non l’aveva mai chiamata prima di un concerto. Era già troppo concentrato, troppo “altrove” perché lei potesse raggiungerlo.
Mandò giù il resto della vodka.
-Sì, sto bene.- la rassicurò sbrigativo e si versò nuovamente da bere.- Hellen…Tu e Cole cosa stavate facendo?
Ecco. Questo era ancora più ridicolo.
Nuovamente quasi rise di se stesso per quanto riusciva a trovarsi patetico in quel momento. Cos’era? Nostalgia? Semplice voglia di evitare che lei cominciasse a chiedergli del lavoro? Magari voleva solo riempire l’immagine di quell’appartamento vuoto di qualcosa che nel cadere al suolo non avesse il suono della pioggia. La risata di un bambino. La voce di una donna.
-Cullalo tu Cole!- lo prendeva in giro Hellen ogni volta che erano a casa insieme.- Io sono terribilmente stonata, lo sai.
-E’ una scusa per rifilarmi il Frignone Pannolone?!- rideva Brian, prendendo il figlio dalle braccia della compagna.
-Ovviamente sì.- concedeva lei semplicemente e poi, mentre già andava via, s’informava distratta.- Ti ricordi come si cambiano i pannolini, vero?
Quante volte, da quando era nato, Cole aveva dormito tra le braccia di suo padre? Troppo poche. E sarebbero state ancora meno man mano che il tempo fosse passato su loro tre e lui, pian piano, avesse smesso di essere un bambino. Forse era questo che voleva chiedere davvero: Hellen, Cole mi ama? Tu ci riesci? Se io non sono che un nome ed un’immagine alla televisione, voi come potete dire di avermi?
-Beh…Cole dorme adesso.- Si concentrò sulle sue parole, accorgendosi così dell’esitazione con cui lei aveva iniziato. Si accorse dei sentimenti che vibravano nella voce al telefono e comprese indistintamente che lei aveva capito, forse molto più di quanto lui stesso era riuscito a dirsi.- Oggi non ha fatto altro che agitarsi!- continuò Hellen in tono più fermo. E man mano che raccontava la sua voce perdeva quell’esitazione ed acquistava una vitalità contagiosa. Brian sorrise, abbandonando il bicchiere sul ripiano del mobile bar e raggiungendo il divano. Chiuse gli occhi mentre si sedeva ed ascoltava.- E’ una peste, Brian! Un disastro! Ha preso da te: non sta fermo un secondo, non sta zitto un momento…!
La pioggia aveva un rumore soffice e morbido, che finiva inevitabilmente per sparire quando qualcuno parlava a voce troppo alta.
“Dovresti impegnarti di più,” pensò Brian, “come speri che possa sentirti così?”
 
Osservava il soffitto. Era di una tonalità di bianco che tendeva al giallognolo. La ridotta quantità di luce esterna contribuiva a quell’effetto, certo. L’illuminazione meramente artificiale avrebbe reso giallognolo anche il bianco più chiaro, pensò. E poi pensò che non gli interessava minimamente il colore del soffitto, così abbassò il viso e tornò a puntare gli occhi azzurri sulle vetrate enormi che chiudevano l’accesso all’aeroporto. Era grigio. Il mondo era tragicamente grigio ed uniforme. E l’acqua copriva ogni cosa.
Quando squillò il cellulare lo cercò in tasca con una certa rassegnazione, non aveva davvero bisogno che lei gli confermasse ciò che già sapeva.
-Matt?
-Dimmi.- concesse rapido, facendosi del male da solo.
-Senti, qui continua a piovere sempre più forte…- iniziò piano Gioia.
-Gia. Anche qui.- ammise lui.
-…mi spiace…
-Mica è colpa tua.- Si sentì un cretino esattamente mezzo secondo dopo averlo detto.
Gioia non si stava certo scusando per la pioggia. Lei gli stava dicendo solo che sapeva come si sentiva, che lo condivideva…O forse non lo condivideva ma lo capiva. E voleva solo dirglielo e farlo sentire meno solo. Seduto come un imbecille in un aeroporto di una città che non conosceva, mentre intorno a lui parlavano una lingua di cui capiva a stento il suono e di sicuro non le parole.
Beh, ma non era sempre così in fondo? Si ricordò che una volta ne avevano parlato, lui e Dom, ed erano arrivati alla conclusione che gli aeroporti sono il posto in cui ti senti meno straniero quando sei in tour. Non sono davvero da nessuna parte, ma solo a cavallo tra un posto e l’altro. Dentro ci trovi chiunque, fuori c’è un mondo che magari non vedrai neppure mai… “Pensa alla gente che si ferma solo per uno scalo!”, aveva esclamato il batterista. Lui aveva riso allora, e si era sentito felice ed anche meno solo.
Ora però non c’era Dominic e non c’era Gioia.
-Che fai?...Vai al Festival?- provò ad insistere la ragazza, strappandolo alle sue considerazioni.
Guardò l’orologio. Era tardi. Troppo tardi. Decisamente…
-No, aspetto ancora un po’.- s’intestardì.
Un sospiro pesante dall’altro lato.
-Ok, Matt.- concesse lei.- Ti amo.
Sorrise. Sì, Gioia sapeva sempre quando dire “mi dispiace”, ed anche quando dire “Ti amo” perché avesse proprio quel significato lì, quello giusto e non uno dei tanti che poteva prendere in base alle circostanze.
-Vedi di fare in fretta!- la prese in giro, facendole sentire almeno parte di quel sorriso che lei gli aveva regalato.- Lo sai che potrebbero licenziarmi per questo?
La sentì ridere e si sentì improvvisamente meglio.
-Certo, Matthew Bellamy, ti sostituiscono con qualcuno che sia più puntuale, meno disordinato e meno casinista!- confermò lei.- Appoggerò la decisione della Warner, sappilo.
Riattaccarono solo perché Matt cercasse il numero di Dom in rubrica. Aveva bisogno di ricordare a se stesso che, in fondo, gli aeroporti sono l’unico posto in cui non hai motivo di sentirti straniero.
-Pronto?
-Dom…
-Matt?! Ma dove accidenti sei?!- lo assalì la voce dell’amico- Lo sai che ora è? Io e Chris ti stiamo cercando da un pezzo, siamo dovuti tornare di corsa al backstage…
-Dom, Gioia mi ha piantato.- interruppe Matthew quel flusso continuo.
-Oh! Nel senso che finalmente ha realizzato quanto sei totalmente assurdo e ti ha mollato?- s’informò il batterista con una flemma che riuscì a far montare la rabbia al collega, il quale arrossì violentemente ma non ebbe tempo di ribattere.- Era ora, Santo Cielo!- insistette Dominic.
-…Dom…me lo sono solo sognato,- iniziò Matt mantenendo un tono colloquiale- o una volta tu eri il mio migliore amico?
Ovviamente le risposta arrivò implacabile ed immediata.
-Sognato. Sto nella band con te solo perché così tu ti becchi tutti i problemi ed io posso darmi alla pazza gioia e basta.- spiegò Dominic rapidamente e senza alcuna pietà.
-Va bene, ora senti questa…GIOIA NON E’ QUI!- notificò veemente il cantante.
-…
Matt fissò perplesso il telefono, chiedendosi per un momento se per caso non fosse caduta la linea, poi lo riportò all’orecchio.
-Dom?- chiamò titubante.
-Ci sono ancora, Matt, ma aspettavo il resto.
-Il resto è che, come sempre, si è avverato esattamente quello che io avevo previsto e che tu e Chris ritenevate impossibile!- rincarò infastidito il leader dei Muse.
-Capito, te la sei chiamata come al solito.- ridusse tutto il batterista, provocando un nuovo eccesso di rabbia nell’altro.
-Non me la sono chiamata!- protestò Matt.- E’ solo che piove e piovendo gli aeroporti sono bloccati!- insistette come se fosse ovvio.
-Infatti, notoriamente in Inghilterra gli spostamenti li facciamo solo in bicicletta…
Per la seconda volta in quella conversazione Matthew Bellamy allontanò il cellulare dall’orecchio per osservarlo con sguardo critico. Magari aveva sbagliato numero e stava parlando con qualcuno che aveva una voce simile a quella di Dominic…
-…che…c’entra…?- provò a chiedere esitante.
-C’entra nella misura in cui un po’ di ottimismo da parte tua renderebbe la tua vita migliore e ti farebbe affrontare i normali inconvenienti che si presentano con più calma!- lo rampognò ben bene l’amico.- Ora, visto che le cose stanno come hai detto, che ne dici di rientrare? Non è che tu abbia proprio così taaanto tempo, sai?
Ci fu un momento di silenzio, che Matt impiegò per deglutire a vuoto mentre prendeva atto della veridicità di quell’ultima affermazione.
-Dom…magari Gioia ce la fa ancora e…
Un sospiro profondo dall’altro lato e ritenne più utile zittirsi, tanto più che Dominic riprese a parlare.
-D’accordo, Romeo, ora ti mollo anche io, così ho il tempo di inventare una balla plausibile per evitare che Tom ti stacchi la testa appena gli capiti a tiro.- E buttò giù in modo piuttosto brusco.
Matt sorrise, fissando lo schermo tornato azzurrino finché la luce non si spense. Si ripromise che in qualche modo avrebbe ripagato Dominic per tutto quello che faceva per lui, anche se sapeva che era quel genere di promesse che si fanno per non essere mantenute. Aveva perso da tempo il conto delle volte in cui lui e Dom si erano coperti a vicenda nel fare di quelle cazzate. Dai tempi della scuola ai giorni più recenti, non era cambiato nulla se non le persone a cui dover rendere conto: i genitori, gli insegnanti…Tom.
Lasciò scivolare l’apparecchio nella tasca della giacca, sollevando lo sguardo a girare una nuova occhiata circolare intorno a sé. Gettò in avanti il busto, la sala d’aspetto era quasi vuota, posò i gomiti sulle ginocchia ed incrociò le dita, osservando il cartellone degli Arrivi continuare ad affastellare ritardo su ritardo in un castello sempre più impossibile.
Proprio accanto a lui, qualche fila più in là, c’era un gruppo di ragazzi. Due ragazzi e tre ragazze in perfetta tenuta da concerto. Li guardò, sedevano distribuiti tra i sedili di plastica e gli zaini, buttati a terra a mo’ di cuscini. Non capiva nulla di ciò che dicevano, ovviamente, ma sentì che ridevano ed il suono della loro risata era qualcosa di universale.
Gli venne in mente quando erano lui, Dom e Chris e non erano famosi. Aspettavano come quei ragazzini, seduti in un prato, che cominciasse un concerto che avevano atteso a volte anche per tutto un anno. Si sentivano così elettrizzati che ogni cosa, anche la più stupida e banale, diventava all’improvviso importante e bellissima: loro tre, il sole sopra di loro. E se pioveva, come quella sera, anche la pioggia! Perché non faceva differenza, il gran giorno era arrivato e tanto bastava. Ridevano proprio come quei ragazzini.
Non era che adesso non si divertisse! Sarebbe stato ingiusto a dire che ora era meno piacevole di allora, che fare un concerto fosse meno esaltante che stare seduti ad aspettare con gli amici che si esibisse la sua band preferita! Non era per quello…
Ma quale che fosse la ragione, sentì lo stesso che li invidiava.
Fu una sensazione che si insinuò sottilmente sotto lo strato di insofferenza e di delusione che si andava accumulando con lo scorrere del tempo. Ci mise qualche momento a chiamarla con il suo nome, ed anche quando lo fece quella sensazione rimase qualcosa di estraneo mentre osservava il gruppetto che chiacchierava. Era lui a provarla, ma non era lui a sentirsene ferito; la esiliava in un angolo, con il senso di amaro e di fastidio che la accompagnavano.
Magari qualcuno di quei ragazzi sarebbe stato davanti al palco quella sera, considerò. In un gioco nuovo, un modo per passare il tempo, provò a concentrarsi, ad imprimersi nella memoria i loro volti per riconoscerli in mezzo alla folla. Non aveva nessun valore, è chiaro, eppure per un momento volle illudersi che sarebbe stato diverso se tra i ragazzi urlanti davanti a loro ci fosse stato uno di quei sette. Non tentò di spiegarsene la ragione, una simile idea si era formata così di getto che gli strappò un sorriso, ma, come quasi tutto ciò che di istintivo c’era nella sua vita, la assecondò.
Peccato che loro fossero proprio dei ragazzini. Come tutti. Con le loro magliette di gruppi metal, di cui faticava a ricordare i nomi, i ragazzi. Con i loro pantaloni a vita bassa ed i top ridottissimi le ragazze, che esibivano soddisfatte pance più o meno rotonde, ma ugualmente dotate di piccoli ombelichi occhieggianti da sopra l’orlo dei jeans.
Sì. Proprio come tutti.
La gelosia e l’invidia che provava divennero così vividi che gli fu impossibile anche solo pensare di staccare gli occhi da loro, ed ancora li osservava - di sottecchi e badando che loro non lo notassero - quando infilò la mano in tasca a prendere il cellulare. Il suo sorriso prese toni di amara rassegnazione nello scorgere il nome sul display lampeggiante. Forse furono le nubi fuori dell’aeroporto, pareva scesa la notte ed era tutto così buio che solo la luce artificiale dava un po’ di calore al mondo.
-Matt?
-Ciao, Gioia.- esordì pianamente.
Una delle ragazzine tirò fuori dalla borsa un cd. Vide gli altri sei stringerlesi attorno e la custodia girò di mano in mano sotto i suoi occhi. Ne seguì con lo sguardo l’altalenante passaggio, mentre aspettava che lei parlasse.
 -Matt…mi dispiace davvero tanto…ma è ufficiale: voli cancellati fino a domattina…- sussurrò Gioia in tono esitante.
Matthew spostò lo sguardo dalla custodia di “Black Holes and Revelations” per portarlo sul tabellone degli Arrivi e leggervi confermate le parole della propria compagna al telefono. Osservò lampeggiare le cifre dell’orario sul display accanto al tabellone.
-O.k., non fa nulla.- mentì pacato.- Ti amo.
Ora era uno di quei momenti in cui andava proprio detto.
-Domani sarò lì.- promise Gioia senza sapere cos’altro aggiungere.
-Lo so. Ti aspetto.- le concesse.
-…in bocca al lupo, Matt.
-Grazie.
Si alzò. Lasciando scivolare nuovamente il cellulare nella tasca. Una seconda ragazzina aveva un vecchio diario, pasticciato e sgangherato, lo teneva sulle gambe e ci scriveva su con una grossa penna rosa. Quando si avvicinò sentì il profumo fruttato dell’inchiostro, quello stesso profumo che si sente aprendo la borsa dei libri di una qualsiasi adolescente, le chiese la penna con un cenno. Nel loro silenzio stupito aprì la custodia di “Black Holes” e ne firmò il retro del libretto prima di restituirlo alla proprietaria.
Davvero non sarebbe mai riuscito a riconoscere uno solo di loro tra la folla, si disse uscendo, mani sprofondate nelle tasche. E davvero non aveva importanza per lui. Ma per loro sì. Anche solo per un momento, anche solo per quella notte, forse per qualche anno e poi basta. Altre cose sarebbero arrivate a soppiantare “la band rock in voga al momento sulla scena musicale internazionale”, quelle cose avrebbero avuto sapori nuovi, e sarebbero stati forse spiacevoli, forse meno. Ma neppure questo aveva davvero importanza. Per un istante solo il mondo intero poteva concentrarsi in due ore e nello spazio ristretto di un prato davanti al palco di un festival rock, quindi…perché non farlo diventare qualcosa di speciale?
-Sa che sono in ritardo mostruoso?!- esordì vivacemente raggiungendo la macchina a noleggio e rivolgendosi all’autista che lo aspettava in piedi con l’ombrello già aperto.
L’uomo sporse in avanti l’ombrello, coprendolo dalla pioggia e sorridendogli mentre apriva la portiera.
-Ah, a questo si può rimediare, Mr. Bellamy.- sminuì tranquillamente.
 
La caratteristica peggiore degli esseri umani è che nulla può ucciderli davvero.
Non è osceno?
Siamo immortali…sostanzialmente. Ma continuare ad illudersi non è affatto male, no?
Brian Molko camminava nel corridoio dell’albergo, passi lenti e volutamente trascinati. Il tappeto al suolo li rendeva inudibili e lui poteva attardarsi a giocare con i propri passi quanto più volesse. Erano le sette di sera. Il sole non esisteva più da un pezzo…all’incirca da quel mattino quando aveva cominciato ad annuvolarsi, ma ormai era davvero solo un ricordo. Lui era in ritardo per la riunione, per le ultime prove, per il sound check, per la seduta di trucco…era in ritardo per tutto, insomma. Se ne godette piacevolmente il sapore. Se ne infischiava alla grande delle stronzate di quelli del Festival, che aspettassero! Loro si sarebbero esibiti solo dopo le otto e fino ad allora lui sarebbe dovuto rimanere nel backstage a sorridere ad un mucchio di idioti di cui non gl’interessava nulla. Poteva fare tardi.
I dubbi cominciarono a venirgli solo quando vide la figura da lontano, in fondo al corridoio e proprio davanti agli ascensori. Rallentò ulteriormente, cercando di capire perché gli fosse così spiacevolmente familiare. Man mano che proseguiva e l’identità del tizio si faceva più nitida, capì anche quella sensazione e per un attimo fu tentato di imboccare le scale.
-Bellamy.- chiamò invece. E si domandò da solo per quale accidenti di motivo lo avesse fatto, desiderando ferocemente mordersi la lingua per quella sola parola.
Il ragazzo più giovane si voltò, regalandogli all’incirca la stessa espressione che avrebbe potuto riservare a qualcosa di incredibilmente brutto ed inaspettato, che fosse piombato nella sua vita all’improvviso. Brian s’incupì talmente tanto che decise, comunque fosse andata, che avrebbe preso quel dannato ascensore e, se al moccioso non andava bene, che si facesse lui le scale!
-…Molko…- registrò Matt in un tono indefinibile.
Brian gli si fermò accanto e considerò compiaciuto lo sguardo smarrito che Matthew gli rivolse a quel punto.
-Ciao. In ritardo anche tu?- domandò con un sorriso di pura circostanza.
Se i Muse si esibivano subito dopo di loro, allora dovevano essere lì all’incirca per la stessa ora. Quindi, sì, era in ritardo anche lui.
-No.- mentì secco Matt.
Dio, quant’era infantile!
Fu quasi tentato di dirglielo. Una roba del tipo: “sai, ho superato la fase del io sono più bravo di te alle elementari, che dici? Mettiamo da parte le divergenze e facciamo finta di sopportarci per…due minuti?”
-Beh, io sì.- lo informò invece, continuando a sorridere. E stavolta con più sincerità e maggior scherno.- Ti spiace se ti tengo compagnia?- chiese quindi, mentre il “dlin dlon” dell’ascensore li avvisava dell’apertura delle porte.
Si accorse della sua smorfia di disappunto, anche se Matt si affrettò a farla sparire e gli cedette addirittura il passo per entrare nel ridotto spazio dell’ascensore. Brian lo osservò mentre entrava anche lui e si voltava a cercare il tasto che li avrebbe portati al piano terra sulla pulsantiera accanto alla porta. Considerò che il caso fa davvero di tutto, a volte, per convincerti della propria esistenza: loro due erano scesi esattamente alla stessa ora, avevano pensato entrambi di servirsi degli scarni ascensori laterali per evitare il marasma che li aspettava nella hall dell’Hotel e si erano diretti addirittura al medesimo ascensore. Si chiese se non fosse necessario assecondare il caso e tentare di intrattenere una conversazione “normale” per quel breve tempo, ma, considerato che Matt dopo aver schiacciato il tasto del piano terra non si era più voltato nella sua direzione, immaginò che non avesse alcuna voglia di fingere civiltà a telecamere spente, per cui accantonò l’idea. Tanto più che non ne era maggiormente entusiasta del collega. Nel loro silenzio il ronzio degli ingranaggi dell’ascensore pesava come un macigno.
Finché, con un breve sussulto, la macchina si fermò. Le luci si spensero di colpo, ma le porte non si aprirono.
-…ma che…diavolo…?!- sbottò Matthew per primo, lasciando trapelare tutto il proprio stizzito disappunto.
Una luce fioca e vibrante pulsò un paio di volte, accendendosi poi con uno scatto. I due uomini furono investiti da una luminosità scadente, rossastra, proveniente da un punto imprecisato sopra le porte. Gli sguardi perplessi di entrambi si incrociarono nello spazio tra loro, subito dopo una rapida presa di coscienza della situazione in cui erano.
Bloccati in ascensore.
-Cattivo tempo.- sospirò Brian rassegnato, ascoltando, nel silenzio, il ticchettare confuso sopra di loro. Non più coperto dal rumore dell’ascensore, il suono delle gocce si propagava lungo il vano macchina per arrivare fino a loro amplificato in un sordo rumore metallico.- Deve essere saltata la corrente.- aggiunse il leader dei Placebo, spostandosi dal proprio posto, contro la parete dell’ascensore, e sollevando il viso a studiare la copertura di legno del soffitto di questo.
Matt non avrebbe saputo dire per quale ragione reagì a quel modo, ma, non appena l’idea che Brian Molko stesse per superare l’invisibile barriera mentale che aveva creato tra loro entrando in ascensore lo sfiorò, provò l’impulso fortissimo di spostarsi. E lo fece. Il più bruscamente e repentinamente possibile, tanto che non si stupì affatto che l’altro si voltasse a fissarlo con un’espressione assolutamente stranita e stupefatta in viso. Sfoderò la propria peggiore faccia tosta ed, ignorando a bella posta il buon senso che gli diceva di scusarsi e farla finita lì, ricambiò sfacciatamente lo sguardo dell’altro.
-Ragazzino, stai un po’ tranquillo!- sbottò dal canto proprio Brian.
Di umore nero com’era, gli ci mancavano solo le paturnie di un moccioso mentre erano chiusi in ascensore insieme! Che poi che accidenti gli pigliava?! Mica mordeva, cazzo!
Matthew sentì le guance diventare come brace. Ragazzino! Che andasse a dirlo a qualcun altro “ragazzino”! Lo superò con un movimento quasi altrettanto brusco della manovra di poco prima e si scagliò astiosamente contro le porte d’acciaio, provando inutilmente a convincerle ad aprirsi.
-Non posso restare bloccato qui!- ruggì resosi conto dell’assoluta inutilità della propria azione. “Accidenti a te, Matthew, che diavolo stai combinando?!”, trasmise il suo cervello rabbiosamente. Ovviamente la domanda cadde assolutamente inascoltata da quella parte delle sue capacità mentali che regolavano la facoltà di parola, perché, abbandonando il tentativo di forzare le porte, Matt si voltò di botto a fronteggiare l’altro, protestando vivacemente- E non chiamarmi “ragazzino”! Non lo sono affatto!
Brian lo fissò come se non capisse. Lo fece davvero, per circa dieci secondi, in cui studiò con attenzione il viso congestionato di Matt. E poi, semplicemente, gli scoppiò a ridere in faccia.
-Ehi!- ringhiò Matt.
-Ma ti sei sentito?!- lo prese in giro Brian, ancora sconvolto da quella reazione assurda.- Ma quanti anni hai? Tredici?! Non puoi restare bloccato qui? Davvero?- canzonò- Ah io, invece, ci posso passare la notte intera! Ma si da il caso che siamo bloccati qui comunque, quindi vedi di calmarti e piantala di fare il bambino!
Matthew aprì la bocca, intenzionato come non mai a mandarlo “a cagare”. Si concentrò ben bene, per dirglielo con chiarezza, in modo che lo comprendesse e se lo mettesse in fronte, prese fiato e…rimase in silenzio. Richiudendo di scatto le labbra e voltandosi imbronciato dalla parte opposta per non dover sopportare la vista di Molko un secondo di più di quanto fosse strettamente necessario, si lasciò andare a braccia conserte contro la parete e si mise a studiare con accanimento tutte le singole imperfezioni del legno.
Che cazzo si metteva a fare? Litigava con quello lì perché la giornata era andata storta?!
Accidenti!
Non bastava che Gioia gli desse buca, che piovesse a dirotto e lui fosse in ritardo mostruoso, che Tom lo stesse probabilmente aspettando già pronto a dirgliene quattro – ed ancora non aveva idea di cosa esattamente avrebbe detto lui per giustificarsi – che fosse bloccato in ascensore! No, doveva anche rimanere bloccato proprio con quello lì! Cioè, c’erano qualcosa come quaranta o cinquanta tra musicisti e cantanti a quel dannatissimo Festival e lui doveva restare bloccato in ascensore con il Re dei Rompipalle, Arronganti, Sbruffoni, Sottuttio! Se non era sfiga quella, allora Dominic e Chris avrebbero fatto bene a rivedere i propri principi quando glielo avesse raccontato!
-Ci metteranno al più qualche minuto, vedrai.
Si voltò a fissarlo, Brian non lo guardava già più, ma era stato gentile nel dire quella cosa.
Nel senso che aveva usato un tono insolitamente educato per dirla.
Adesso, in compenso, stava tirando fuori dalla tasca della giacca un pacchetto di sigarette. Matt si tirò dritto in meno di un secondo, ben deciso allo scontro, ma l’altro cantante lo precedette, mentre già sfilava una sigaretta e la infilava tra le labbra.
-Non ho nessuna intenzione di accenderla.- mise ben in chiaro Brian, continuando a non guardarlo. Sedette a terra, contro la parete opposta a quella di Matt, posò le braccia sulle ginocchia e sollevò lo sguardo ad incrociare quello dell’altro.- Non mi va più a genio che a te questa convivenza forzata.- gli concesse secco.
Il cervello di Matt trasmise chiaro il messaggio: fingi che non sia qui. Ritorna a fissare la parete e le meravigliose venature del legno. Fai uno studio accurato dei nodi di giunzione delle assi. Concentrati sulle splendide tonalità della moquette rossa a terra. Fai qualsiasi cosa, ma non sei obbligato e, soprattutto, è molto meglio che tu eviti qualsiasi motivo di discussione con Brian Molko. Lui non è una persona normale. Con una persona normale ci discuti, con un’isterica impazzita no. Se Gioia avesse il ciclo tu ti guarderesti bene dal provocarla, fai da conto che Brian Molko è come una donna eternamente mestruata…
-Magari sarebbe meno spiacevole, se qualcuno qui non avesse il vizio di andare in giro a buttare fango sui colleghi.- punzecchiò Matt, ignorando del tutto quei saggi consigli.
“Ora mi prende a parolacce”, sospirò rassegnato il cervello di Matthew Bellamy.
Ma Brian non lo prese affatto a parolacce. Si limitò a fissarlo in silenzio per qualche istante, inclinando graziosamente il capo da un lato, come se si stesse seriamente concentrando sulla figura di Matt e sulle sue parole. Alla fine, con un breve scrollare di spalle, fece notare in tutta tranquillità:
-Se do un giudizio sulla tua musica, non sto “buttando fango”. Qualcuno mi chiede cosa ne penso dei Muse ed io rispondo. Vuoi che ti dica che sei bravo? Non lo penso.
“E’ ragionevole”, concluse il cervello di Matt.
-O magari sei invidioso!- insinuò invece lui, pressante.
-O magari non me infischia un accidenti di sapere se sei più o meno figo di me, visto che tanto io di soldi ne faccio abbastanza comunque.- ritorse Brian senza scomporsi, ma adottando lo stesso tono petulante dell’altro.
Com’era quella storia dell’“ho superato la fase dell’io sono più bravo di te”? Forse doveva proprio dirglielo. Sospirò abbandonando il capo contro la parete, continuando a fissare Bellamy mentre questi, tornato silenzioso, evidentemente decideva la mossa successiva.
Ci doveva essere un qualche demone, o roba del genere, che lo odiava, pensò Brian. O magari aveva uno o due pianeti in opposizione quella settimana. Perché, davvero, una giornata così “no” non gli capitava da tanto di quel tempo che faticava anche a ricordarsene.
Tutta colpa della pioggia, la pioggia porta un sacco di problemi.
Giocherellò con la sigaretta tra le labbra, dicendosi speranzoso che magari il “ragazzetto” era soddisfatto così e lo avrebbe lasciato in pace. Pregò che avesse il buon senso di piantarla lì per quei cinque o dieci minuti che ci sarebbero voluti per tirarli fuori. In fondo, era partito dalla location del Festival dicendosi che non aveva voglia di scambiare “due amichevoli chiacchiere” con nessuno, figuriamoci che voglia aveva di litigare come uno scolaretto con un collega di trent’anni!
-…in ogni caso, se non ti piace la mia musica, puoi dirlo in molti modi.- riprese Bellamy all’improvviso. E Brian si lasciò scappare un sospiro d’impazienza e fastidio.- Non c’è bisogno di…
-Dire che è ripetitiva, che le vostre canzoni sono tutte uguali, ecc. ecc.- concluse brusco per lui.- Matt…- s’interruppe subito, fissandolo ed inarcando un sopracciglio.- Non ti secca se ti chiamo, Matt, vero?- s’informò, non senza una certa ironia.
Matthew avvampò. Gli seccava, eccome!
-No.- concesse però, voltandosi per non doverlo guardare in faccia.
-Beh, non avrebbe fatto differenza per te qualunque cosa io avessi detto.- spiegò Brian, senza peraltro utilizzare il nome per cui aveva appena avuto autorizzazione.
Matt non ci mise molto a realizzare ed ammettere con se stesso che era terribilmente vero.
Si sentì un autentico idiota, fatto e finito, perché si rese conto che aveva cercato l’approvazione di quell’uomo senza neppure stimarlo dal punto di vista professionale. Gli aveva dato fastidio che Molko dicesse al mondo intero ciò che pensava dei Muse, ma non aveva neppure avuto l’onestà mentale di accettare che dei Placebo lui stesso aveva un’opinione perfino peggiore. Con l’unica differenza, certo, che lui se l’era sempre tenuta per sé. E per pochi intimi.
-Sai qual è la verità?- chiese d’istinto, tornando a puntare gli occhi sul frontman dei Placebo. Che ovviamente scosse il capo ma non parve nemmeno particolarmente interessato a che lui sciogliesse quell’interrogativo, mettendolo al corrente della Verità.- Beh,- proseguì Matt, fregandosene bellamente dell’opinione dell’altro. All’improvviso era più importante per lui sputare fuori quella cosa che non tutto il resto. Il Festival, lo stupidissimo ascensore, il ritardo, l’assenza di Gioia. Doveva dirglielo, doveva parlare con lui faccia a faccia e dirglielo- la verità è che siete falsi.- asserì, quindi, cattedratico.- Siete un bel prodotto, certo, una perfetta costruzione discografica, ma dietro?- incalzò spietatamente- Cosa accidenti c’è in voi che appartenga alla musica?! Quella vera, voglio dire, quella che non si basa sulle provocazioni, sul fare scena, su…sull’ambiguità sessuale! Le vostre provocazioni servono a far parlare di voi, convincete masse di ragazzini di essere forti perché contestate il Sistema, ma ne siete un prodotto perfetto! Ecco qual è la verità!- concluse secco e deciso.
E si interruppe lì.
Più che altro perché si rese conto di ciò che aveva appena fatto e ne rimase talmente basito da non riuscire ad aggiungere nulla.
Nemmeno qualcosa che ridimensionasse gli insulti.
E già. Perché, incontestabilmente, lo aveva appena insultato.
Osservò in modo confuso Brian Molko mentre infilava una mano nella tasca della giacca e ne tirava fuori un sottile accendino d’argento. In tutta quella operazione gli occhi incredibili che lo avevano fissato in silenzio non si mossero affatto, continuarono a scrutarlo con la stessa pacata e gelida perfezione. Si ritrovò a considerare la bellezza da fondo di bottiglia di quegli specchi vuoti e freddi, si disse che erano davvero qualcosa per cui si poteva perdere la testa, ti perforavano l’anima e restavi muto sotto il loro sguardo.
Eppure, quando lui accese la sigaretta e ne espirò voluttuosamente una nuvola di fumo - sempre fissandolo, sempre scavandogli la pelle - Matt sorrise lo stesso e gli rispose.
-Questo è un punto per me.- fece notare.
-Bravo. Mettilo accanto a quelli che ho segnato io da quando ci siamo incrociati nel corridoio.- ribatté pacatamente Brian, sostenendo lo sguardo azzurro e limpido senza la minima esitazione.- Ora, Bellamy,- Non gli sfuggì il ritorno al cognome, evidentemente ogni tentativo di civiltà stava per essere messo definitivamente da parte. Ma si sbagliava ancora, perché un ultimo spiraglio, anche se necessariamente più sottile, Molko aveva intenzione di lasciarglielo.- abbiamo davanti a noi due scelte.- iniziò infatti il cantante con calma.- Possiamo continuare il gioco al massacro, ma ti avviso da subito che sono piuttosto bravo, o riprendere a fare finta che noi due si viva su due pianeti diversi. Scegli tu. Da parte mia posso dirti che non ho molta voglia di ingrassare ancora le tasche della mia terapista, quindi la pianterei anche.- concesse atono.
-Bene.- assentì Matt, sedendosi nel proprio angolo, in una posizione speculare a quella del collega, fatta salva l’assenza della sigaretta.
Qualunque cosa fosse successa, si ripromise il leader dei Muse riprendendo a fissare con ostinazione davanti a sè, la sua bocca sarebbe rimasta chiusa. Niente scuse, perché quello lì non le meritava di certo…e poi avrebbe dovuto quanto meno scusarsi per primo! ma non gli avrebbe detto altro. Nulla di nulla.
Potevano tranquillamente aspettare in silenzio.
Anche perché se proprio avesse dovuto dirgli qualcosa sarebbe suonata terribilmente come “spegni quella dannata sigaretta, ché se se vuoi ammazzarti hai tutto il diritto di farlo ma lontano da me!”…e non era il massimo per evitare il gioco al massacro promessogli da Brian. In cui non dubitava che fosse piuttosto bravo…
I minuti scorrevano lenti su di loro, espandendosi nel silenzio ovattato della pioggia e del legno. A Matt parve quasi di poter distinguere, in tutto quel ripetersi di suoni ciclici, il rumore della cenere nel cadere al suolo. Per un po’ lo ascoltò, finché non divenne l’unico suono che riuscisse ad udire davvero, e solo a quel punto si voltò, stupito, per dare concretezza fisica a quell’idea e riempire il suono nella propria mente con una presenza reale, seduta a pochi passi da lui.
Brian Molko intercettò il suo sguardo e Matthew Bellamy si rese conto che, con tutta probabilità, non aveva smesso un solo istante di fissarlo da quando lui si era seduto ed aveva dato inizio a quella tregua silenziosa. Si ritrovò impigliato negli occhi indefinibili dell’altro e non fu capace di sfuggirgli, sebbene fosse stato il suo primo istinto.
Molko gli parlò, lentamente, scandendo bene le parole, fissandolo da sotto le palpebre e pronunciando quelle poche sillabe mentre il fumo sottile della sigaretta saliva davanti al suo viso.
-Tu credi davvero che voi siate diversi da noi?- chiese.
La domanda cadde al suolo insieme alla cenere, ma era pesante e produsse un suono mille volte più forte. Assordandolo.
-…cos…?- mormorò dopo qualche momento. Era l’unica cosa che riusciva a pensare: prendere tempo.
-Sei stato esaustivo nella tua analisi del “problema Placebo”,- sorrise Brian spiegandosi- se può farti piacere saperlo, condivido quasi tutto. Ma visto che siamo qui, sono curioso. Tu credi davvero che i Muse siano qualcosa di diverso dai Placebo?
Considerò tutto quel discorso con molta attenzione. Cominciò proprio con il ponderare il modo in cui Molko glielo faceva. “Il problema Placebo”… “i Muse”… “i Placebo”…Parlava di quelle cose come se fossero lontane anni luce, ma stava parlando di sé e dell’uomo che gli sedeva davanti in, forse, tre metri quadri di moquette, legno ed alluminio.
-Davvero condividi ciò che ho detto?- ritorse Matt.
Brian rise. E la sua risata era di plastica come il suo volto, i suoi modi, il suo sorriso. Una plastica che non aveva nulla a che fare con la luce vivida negli occhi chiari e che disorientava talmente tanto da farti chiedere istintivamente se ci fosse qualcosa di vero in lui.
-Non è gentile rispondere ad una domanda con un’altra domanda.- fece notare molto educatamente Brian prima di portare la sigaretta alle labbra.
Il messaggio arrivò abbastanza chiaro a Bellamy. Se non aveva voglia di scendere su quel terreno e non si fidava almeno un po’ nel farlo, allora il discorso si chiudeva lì. Matt si voltò nuovamente, tornando a puntare lo sguardo sulle porte serrate dell’ascensore.
-Almeno noi ci proviamo a fare qualcosa che ci piaccia sul serio.- mormorò dopo un momento di riflessione- Proviamo a metterci del nostro nelle canzoni, quando suoniamo ai concerti…
-Ammirevole.- lo interruppe Brian, con lo stesso tono insapore che avrebbe utilizzato per dire “mela” o “secchio”.
Matthew si accigliò e tornò a voltarsi bruscamente verso di lui.
-Cos’è?- s’informò.- C’hai ripensato ed hai scoperto di avere voglia di litigare?! Stavo solo rispondendo alla tua domanda!- fece notare seccamente.- No, non mi sento un prodotto di consumo, perché quanto meno mi sforzo per non esserlo!-ribadì poi in termini più espliciti.
-E in che cosa si manifesterebbe il tuo sforzo, con esattezza?- lo incalzò Brian apatico.- Nelle interviste? Nelle ospitate in TV? Nei servizi fotografici sui giornali per teenagers…?
-Vedi solo questo?!- lo interruppe Matthew rabbiosamente.
-Tu cosa hai visto di me?- chiese Brian semplicemente, scuotendo il capo.
E Matt non seppe cosa rispondere. Ad essere onesti…Molko…non aveva tutti i torti…no?
-Benvenuto nel mondo reale, Bellamy, sei un prodotto di consumo come “Il Cantante dei Placebo”.- salutò Brian riportando elegantemente la sigaretta alle labbra ed aspirando una boccata, mentre si concedeva un mezzo sorriso di soddisfazione alla faccia stravolta del collega.
Quei ragazzini a cui aveva fatto l’autografo all’aeroporto…cosa sapevano di lui? Niente. E lui? Cosa sapeva di loro? Assolutamente nulla. E sarebbe stato così per sempre. Sarebbe stato così anche se quella sera li avesse visti tra il pubblico e li avesse riconosciuti. Estranei. Sarebbero rimasti tali anche se lui, Dom e Chris ad un certo punto avessero smesso semplicemente di suonare e si fossero seduti sul margine del palco dicendo loro “o.k., siamo qui. Facciamo due chiacchiere?”.
…Perfino lui, che aveva avuto in passato ed aveva ancora in quel momento, la possibilità di parlare a tu per tu con Brian Molko, stava lì a sputare giudizi e sentenze sulla scorta solo ed esclusivamente di quello che la televisione o le riviste gli avevano propinato. Perché non gli aveva soltanto chiesto cosa ne pensasse davvero dei Muse? Senza partire dall’assunto che la risposta sarebbe stata un insulto e, per questo, pensare bene di attaccare per primo, di aggredirlo per non essere costretto a difendersi.
-Quello che tu hai detto di noi…- provò adesso a spiegare.
Ma Brian ridimensionò i suoi pensieri ancora prima che si formassero.
-Era il mio giudizio sulla vostra musica, Bellamy.- ribadì soltanto.- Il tuo cos’era?
Davanti al silenzio dell’altro, Brian sentì le labbra incurvarsi da sole in un nuovo sorriso.
Finì di fumare, prolungando la stasi tra loro, spegnendo poi la sigaretta contro un angolo dell’ascensore dove la abbandonò incurante di tutto; sbuffò fuori l’ultima nuvola di fumo ancora senza voltarsi a ricambiare lo sguardo, che sentiva, invece, fisso su di sé. Solo quando si fu stufato di contemplare il solco lasciato dal mozzicone nel bruciare la moquette, si voltò ed incatenò a sé quegli occhi fondi come il mare.
-Parliamone onestamente, Bellamy.- concesse con calma.- Quando hai iniziato a suonare, era questo che volevi?
Ed onestamente Matthew valutò quanto l’altro gli chiedeva.
Quando aveva cominciato a suonare…Senza dubbio non sarebbe stato sincero nel rispondere che fin dall’inizio l’obiettivo che lui, Dom e Chris avevano perseguito non era stato il successo. Quando cominci, lo fai nella precisa speranza che un domani il tuo nome sia ricordato. Magari questa idea non si forma con precisione nella tua testa, non ha i connotati giusti a fartela identificare come “voglia di fama”, ma c’è, latente e nascosta. Quando è così, di solito finisci per essere semplicemente travolto dagli eventi e non riesci nemmeno a renderti conto che ciò che volevi è diventato realtà, perché non sai esattamente che era ciò che volevi.
Il punto è che loro tre lo sapevano dall’inizio cosa volevano. Ed era proprio quello: folle di ragazzini sconosciuti, urlanti sotto un palco. Persone che conoscessero a memoria le loro canzoni, che le cantassero a squarciagola insieme a loro, che saltassero, si agitassero e fossero felici solo perché loro erano lì e condividevano insieme la tensione, la gioia, l’esaltazione che nasceva dalla musica.
Eppure Matt seppe immediatamente che non era a quello che si riferiva la domanda di Brian. Così si prese tempo, aspettando di mettere ordine nei propri pensieri ed in ciò che provava in quel momento. Una giornata di lavoro massacrante, una serata passata in un aeroporto di una città che non sconosceva, solo in mezzo ad estranei, aspettando la persona che amava per scoprire una volta di più che su quel palco ci sarebbe salito senza di lei. Correre e correre, da quell’aeroporto all’albergo, da lì alla location del concerto, per esibirsi in poco più di un’ora e provare l’amarezza di quell’assenza, più forte di qualsiasi sorriso di circostanza intorno a sé…
-Io sapevo solo che volevo che la gente sapesse chi ero.
Matt si voltò a guardarlo. Brian aveva abbandonato la testa all’indietro, contro il legno che copriva l’ascensore, chiudendo gli occhi mentre parlava in tono stanco, le mani affondate nelle tasche dei jeans. Matthew si accorse che erano un vecchio paio di jeans usati e logori, dovevano avere diversi anni, probabilmente appartenevano a quel genere di indumenti cui ti affezioni e che usi talmente tanto da farli diventare una seconda pelle. Notare un simile particolare lo fece sentire meno a disagio, così, approfittando della momentanea cecità dell’altro, arrivò perfino a concedersi un sorriso. Gli venne quasi voglia di chiedersi se c’era una storia dietro quei pantaloni, di domandarglielo, ma sapeva che era una cosa talmente intima e confidenziale che non avrebbe mai ricevuto alcuna risposta, se non una probabile riapertura immediata delle ostilità per aver toccato un argomento tabù.
Brian ricominciò a parlare, strappandolo a quelle considerazioni e riportando l’attenzione di Matt sulle parole che uscivano lente dalle labbra socchiuse. Come ipnotizzato le fissò mentre sussurravano, scandendo appena le sillabe pronunciate in un modo talmente assurdo da suonare accattivante come pochi altri suoni.
-Volevo che mi ascoltassero. Non m’importava in che modo mi sarei fatto sentire, ma avrebbero dovuto ascoltarmi. Sentire quello che avevo da dire, anche se fosse stato stupido, o inutile, o fastidioso.- spiegò atono il leader dei Placebo.- Era come se sentissi dentro di me un fuoco inestinguibile che mi spingeva a gridare contro tutto e tutti, a fare qualcosa per buttare fuori ciò che provavo dentro.
-…era…?- ripeté Matt appena.
Brian inclinò il capo, socchiudendo gli occhi e sorridendo di un sorriso spento e malizioso, che gli diede la terribile idea di un grosso e vecchio gatto accucciato, che fissasse la preda con condiscendenza, concedendole un altro giorno perché tanto a lui stesso ne erano rimasti così pochi ancora da assaporare. Non era facile da sopportare uno sguardo così, si voltò per non doverlo sostenere.
-Andiamo, pensi che dieci anni dopo io sia ancora il ragazzino incazzato che ero a 26 anni?- chiese divertito Brian- Bellamy, io ho una donna, un figlio e due amici che contano su di me per qualsiasi cosa riguardi il nostro lavoro.- gli fece notare seccamente, senza nascondere un sarcasmo che Matthew intuì rivolto a se stesso- E se te lo stai chiedendo: sì, è lavoro. Ormai è solo lavoro.- affermò in conclusione, assolutamente sereno.
Stavolta fu lui, Brian, a distogliere gli occhi, fissandoli sull’inutile particolare individuato nel ripetersi ciclico delle viti che legavano assieme le assi di legno e la struttura di alluminio dell’ascensore. La difformità di un unico elemento divenne un’ancora a cui aggrapparsi mentre ci si lasciava andare un po’ di più al flusso dei pensieri, all’idea di estrometterli da sé, di farne partecipe qualcun altro. Un estraneo. Incontrato una sera in ascensore, con cui non si aveva nulla a che spartire. Se non un palco, tra qualche ora, davanti allo stesso pubblico.
-Mi sono arreso molto tempo fa all’idea di essere frainteso.- spiegò piano- Semplicemente “non capito”, sono diventato qualcosa che non era ciò che volevo. Sono diventato un viso che sorride in modo ammiccante da un poster appeso in una stanza di quattordicenne, un episodio al limite del surreale accaduto in concerto o durante un’intervista, una provocazione detta in un momento di rabbia…Tutto il resto scompare.
-Brian…- provò ad intervenire Matt, senza neppure accorgersi di come gli fosse uscito naturale, familiare quel “Brian”.
-Se stai per scusarti, risparmialo ad entrambi.- lo interruppe lui continuando a non guardarlo.- Sarebbe pietoso e, di conseguenza, assolutamente fuori luogo. Io dovrei ricominciare a disprezzarti e tu iniziare a farlo, e non sarebbe il massimo come finale di serata.
Matt convenne che probabilmente aveva ragione e si tenne per sé le scuse che aveva sentito affiorare alle labbra.
-Vedi, il punto è proprio questo: essere un personaggio pubblico significa essere un personaggio.- riprese Brian da dove era stato interrotto.- Non sei davvero tu, sei solo l’immagine che dai di te più o meno volontariamente. Cosa decidiamo di noi stessi? Nemmeno gli abiti che indosseremo sul palco, e spesso sono più importanti questi di quanto lo siano le canzoni che suoneremo.
-Però è quello che volevamo fare!- protestò amareggiato Matthew.
Brian lo fissò e, quando gli sorrise, il suo sorriso non aveva il sapore di plastica che Matt conosceva. No, gli sembrò quasi…affettuoso. Come la sua voce, quando gli parlò.
-Sono felice per te, Matt.- affermò con una sincerità che disarmò completamente l’altro.- Io non lo so più cosa volevo. E, ad essere del tutto onesto, non credo di sapere più nemmeno cosa voglio.
Cercò in tasca, tirando fuori nuovamente il pacchetto di sigarette, ormai rovinato e spiegazzato, ne cacciò fuori una delle due rimaste e la portò nuovamente alle labbra, posandovela con un gesto talmente usuale che strappò un sorriso a Matthew. Quante volte lo aveva visto fare una cosa del genere in concerto? In trasmissione, nei backstage…ovunque si fossero incrociati. Brian Molko portava la sigaretta alle labbra sempre con lo stesso, identico, elegante fascino, che da solo avrebbe potuto stregarti e farti pendere da quelle stesse labbra qualunque cosa avessero sussurrato. Pensarlo non gli provocò lo stesso fastidio che aveva provato fino a quel momento all’idea dell’artificiosità con cui il personaggio Molko era stato costruito. All’improvviso scorse in quel gesto abituale una fragilità nuova, di cui non aveva mai avuto la percezione, ed invece di sentirsi arrabbiato o stizzito, si sentì insolitamente vicino all’altro e…protettivo.
-Ti da fastidio?- domandò Brian con calma, mentre già cercava l’accendino nella tasca.
-No.- concesse Matt.
-Che ti chiami per nome.- si spiegò lui. Matthew lo vide tirare fuori il cellulare, e non l’accendino come si era aspettato.- Ti da fastidio? Con sincerità.
-Mi dava fastidio, ma ora no.- ammise- E poi l’ho fatto anch’io.
-Sì, me ne sono accorto.- sorrise Brian, studiando il display del telefono.- Niente da fare, siamo completamente isolati.- sospirò richiudendo il flick e rimettendo l’oggetto elettronico in tasca.- Ti annuncio che siamo ufficialmente fuori dai giochi, sono le otto e mezza.- riferì incolore.
-Non sembri particolarmente sconvolto…- notò Matt concedendosi una risatina rilassata.
-Per quel che vale, ammetto di aver fatto di tutto perché questo concerto andasse storto. Credo di essere solo stato esaudito.
Matt fissò l’altro abbandonare nuovamente il capo all’indietro, sistemandosi meglio contro l’appoggio scomodo della parete di legno e metallo, chiudendo poi gli occhi per riprendere a contare il tempo che scorreva. Distrattamente osservò il movimento casuale che Brian imprimeva alla sigaretta ancora spenta, giocandovi con le labbra.
Sì…c’erano particolari di quel personaggio che potevano incantarti e farti rimanere lì a studiarlo per ore, domandandoti cosa si nascondesse dietro quegli occhi incredibili, nei gesti misurati, nel sorriso finto e perfetto. Così perfetto e così finto da dare il capogiro.
-Noi siamo dei privilegiati, Brian.- sussurrò Matt. L’altro non aprì gli occhi, non si mosse, ma qualcosa in lui fece capire al frontman dei Muse che era comunque in ascolto, così continuò nello stesso tono tranquillo.- Forse è vero che la gente guarda a noi e non riesce a vederci, ma solo a vedere un’idea di noi che non ci appartiene, ma almeno ci guardano.- spiegò.- Dici che quando hai iniziato volevi solo che ti ascoltassero…Beh, credo siano in pochi a poter dire di avere un ascendente sul proprio pubblico solo vagamente analogo a quello che hai tu!- scherzò Matt.
Vide Brian sorridere e tornare a voltare il capo per fissarlo.
-Tu credi?- denigrò con una certa dose di ironia.
Matt non si offese, capì facilmente che non era rivolta a lui quell’ironia. Anzi, era evidente il nuovo tentativo di offrire spazio per una “pacifica convivenza civile”, la stessa che era stata offerta e rifiutata all’inizio. Beh, stavolta aveva proprio voglia di accettare. Si concesse una risatina d’assenso alla battuta di Brian e scrollò le spalle.
-Magari è vero, la percezione che diamo di noi stessi agli altri difficilmente ci rappresenta.- ammise Matthew pacato- Ma in fondo, per chi non è così?
-Non lo so.- convenne Brian stancamente.
-Insomma, io non credo che il senso di solitudine e di incompletezza che proviamo siano una nostra esclusiva.- continuò Matt. E si perse da solo, senza accorgersene, nel filo di quei pensieri- Una conseguenza inevitabile di ciò che ci ritroviamo a fare come lavoro…- considerò, soffermandosi lui stesso sull’idea che ne nasceva e contemplandola, sul fondo uniforme del legno che tornò ad impegnare il suo sguardo.- Io credo che sia così per tutti, invece. Prima o poi, con più o meno forza, ma così per tutti. Per noi è solo come se il mondo intorno facesse da cassa di risonanza, amplificando il suono delle nostre parole ma anche il silenzio che risponde.
Stupito s’interruppe.
In un momento si rese conto di qualcosa che non era riuscito ad afferrare in quell’aeroporto. Non era rimasto lì per aspettare Gioia, era rimasto seduto per ore ad aspettare semplicemente qualcuno. Qualcuno che lo riconoscesse, che gli andasse incontro agitando una mano e lo salutasse chiamandolo semplicemente per nome. Matt, ed in quella parola ci mettesse tutta una serie di concetti, e quella serie di concetti, tirate le somme, fosse lui, e quelle somme, quel “Matt” e quel qualcuno fossero uno specchio, in cui vedersi riflesso e potersi riconoscere. E sapere di esistere vedendosi riflesso in qualcun altro.
Non aveva forse cercato di fare lo stesso quando aveva visto i ragazzini seduti vicino a lui? Non aveva cercato di dare loro un volto per farli smettere di essere semplicemente un’immagine sul fondo di un palco? Eppure, per quanto si sforzasse, loro non erano uno specchio…loro erano… diversi. Diversi da lui. Diversi da chiunque. Non riflesso, ma a loro volta somme di concetti differenti a cui guardare. Per domandarsi: chi sono? Io, loro, noi tutti. Chi siamo? Cosa fa di noi quello che percepiamo? E quello che vedono gli altri? Dove sta la differenza? Dove sta l’incomprensione?
Perchè non posso guardare in mezzo ad una folla e riconoscere i loro volti?
-E’ un po’ stupido, Brian.- esordì lentamente Matt, continuando a seguire quei pensieri come ormai si era lasciato andare.- Cercare di riconoscersi negli altri, non è già negare loro la possibilità di riconoscersi in noi?
Sentì il fruscio che il corpo di Brian produsse nello spostarsi.
Coprì il rumore del temporale e, nell’assenza di quel suono, Matt si accorse dei tuoni che rimbombavano contro il metallo. Si voltò, incontrando nuovamente quello sguardo impossibile, indecifrabile. Per un momento non gli sembrò così assurdo ed incomprensibile, per un momento gli parve quasi che fosse lo specchio che aveva cercato in Gioia. Per un momento gli parve quasi di non essere solo, né diverso da lui, da quell’uomo che gli sedeva accanto, né distante da lui, da quell’essere umano che gli respirava vicino.
-Basterebbe ascoltare.- capì.
La luce pulsò di nuovo, un paio di volte ancora come il battito di un’agonia. Si spense e loro smisero di vedere. Ma non di sentire. Non di percepire il respiro dell’altro, di sentirlo sulla pelle, di provare la sensazione di quella vicinanza.
Basterebbe ascoltare. Fermarsi ed ascoltare.
Provare.
Tendere una mano e sentire, con il tocco leggero delle dita, la vicinanza e la consistenza. L’assoluta somiglianza che è quasi uguaglianza.
Sapore di tabacco. Non lo sentiva dai tempi della scuola, quando era un ragazzino e suo padre fumava in cucina la sera. Gli dava noia e protestava sempre che spegnesse la sigaretta, suo padre si sentiva a disagio ed andava fuori a finire di fumare. Ora provò solo nostalgia e gli sembrò bello assaporare il tabacco, anche semplicemente nel respiro di un altro.
Era proprio vero, c’erano cose di quel personaggio che potevano lasciarti senza fiato, imbambolato, e farti fare le più grandi sciocchezze. Come annullare le distanze e sentire la morbidezza della pelle, la freschezza levigata contro la fronte, immaginare quelle labbra grandi e morbide, disegnate, a pochi millimetri dalle proprie, pensare che sono belle ma soprattutto hanno il profumo di qualcosa che conosci…e solo per questo, già sentirsi meno soli. Anche al buio.
Anzi. Forse solo al buio. Ché ci sono cose che la luce del sole cancella. Che la pioggia rende ovattate. Che le persone tendono a dimenticare.
Rimasero così, fronte contro fronte, nello scorrere dell’acqua sopra di loro, e, quando sentirono il rumore degli ingranaggi forzati dall’esterno, si allontanarono.
La luce delle torce elettriche diede loro fastidio, si tirarono indietro per sottrarsi, mentre voci concitate e preoccupate chiedevano ripetutamente se fosse tutto a posto. Risposero, perché era logico farlo, ma non provarono né pensarono nulla nel farlo. Più tardi, in piedi nella hall con i membri delle rispettive band ed i due manager attorno, si fissarono in silenzio attraverso l’intero spazio ingombro di poltrone. Qualcuno da una parte e dall’altra spiegò loro che il Festival era stato annullato, c’era stata una specie di alluvione ed avevano evacuato la zona. Perfino i pompieri avevano avuto difficoltà ad arrivare all’Hotel mentre venivano a liberarli. Una frana o un cedimento del manto stradale, non avevano capito bene.
Ascoltavano ma non interessava a nessuno dei due.
Passando l’uno accanto all’altro per salire alle camere si sorrisero debolmente.
-Ci si vede, Bellamy.- salutò Brian per primo.
Matt ricambiò il cenno che l’altro gli fece con la mano.
-Sì, certo.
Nessuno dei due rispose agli sguardi interrogativi degli amici.
 
La caratteristica peggiore degli esseri umani è che non esiste nulla che possa ucciderli davvero.
Per quanto il mondo si accanisca, per quanto lo facciano le persone che abbiamo intorno, per quanto ogni singolo frammento della nostra esistenza possa ostinatamente scegliere di conficcarsi dentro il petto e lentamente affondare inesorabile…la vita continua lo stesso. Il respiro anima il nostro corpo anche quando sembra che non ci sia aria che attraversi i polmoni ed il cuore batte anche quando preme tanto forte da sembrare scoppiare.
Ed invece non scoppia. Ed invece respiri. Ed invece…
La caratteristica migliore degli esseri umani è che non esiste nulla che possa ucciderli davvero.
Anche quando pensi che oggi hai davvero toccato il fondo, basta molto poco perché il fondo diventi solo un nuovo punto di partenza. A volte un naturale cambio di luce, un tono di azzurro o di giallo, rosso, arancione, valgono a rendere ogni cosa meno fredda. Perfino la pioggia. Non sai nemmeno come succede. Un istante prima sentivi che il mondo era lì lì per soffocarti ed il momento successivo alzi la testa, guardi avanti.
E sorridi.
Non sai perché, non sai che senso abbia. È stata una canzone alla radio, è stato un raggio di sole attraverso le nuvole, è stata semplicemente l’aria stessa che respiri ancora, ma è successo e sei di nuovo vivo.
-…Mr. Molko…
Batté le palpebre, prendendo coscienza di sé in un tempo che gli parve infinito e che divenne dolorosamente lungo quando dovette anche prendere coscienza del posto in cui era. Macchina, riconobbe dall’odore di pelle e di plastica. Il suono scricchiolante del sedile mentre si tirava dritto gliene diede conferma ed il viso discretamente stupito dell’uomo chino all’interno dell’abitacolo quella definitiva. Ricordò l’auto, ricordò l’autista che aveva ignorato nell’entrarci, ricordò perfino l’ombrello nero che lui reggeva quando gli aveva aperto la portiera e che reggeva anche adesso nel tenergliela aperta per farlo scendere.
Si era semplicemente addormentato in macchina.
Dicesse ancora Alex che non era così stanco da fare tutti quei capricci!
-Siamo arrivati all’Hotel, Mr. Molko.- ribadì l’uomo come se il concetto non fosse già chiaro da sé.
Brian valutò la possibilità di rispondergli un acido “davvero?! Pensavo che ci fossimo fermati a fare pipì!”, ma si disse da solo che non aveva motivo per sfogare su un onesto lavoratore gli effetti collaterali della propria gastrite. Così uscì dall’abitacolo mentre l’altro si tirava educatamente indietro e rimase un momento a sistemarsi la giacca e riprendere fiato, coperto dal provvidenziale ombrello.
-Brian.
Rialzò il capo. Perché era chiaro che era una mera allucinazione uditiva. Non c’era una sola ragione valida per cui…
Nonostante quella rapida razionalizzazione, il “Brian” appena pronunciato con voce femminile bastò a fargli accelerare i battiti del cuore a mille. Bruscamente scostò l’orlo del riparo di tela, che gli copriva la visuale dell’ingresso all’Hotel, pochi metri più in là, e puntò gli occhi ansiosamente alla ricerca di quel viso.
Ed ancora non ci credeva quando la vide.
E ci credette ancora meno quando vide che sorrideva, reggendo tra le braccia suo figlio.
-…Hellen…- mormorò strozzato.
Non avrebbe saputo dire nemmeno come ci fosse arrivato, ma in pochi secondi era lì con lei e la stringeva a sé, coprendola di baci e continuando a ripetere il suo nome come una specie di incantesimo o formula magica.
E lei rideva, Cole protestava stizzito da tanta irruenza paterna e lei rideva e tentava di schernirsi, chiedendo che la mettesse giù e risultando tutt’altro che efficace, mentre Brian cercava inutilmente di convincersi che non stava sognando.
-Che cosa ci fai tu qui?!- sbottò Brian rendendosi conto, finalmente, dell’utilità di permettere a quei due di riprendere fiato.
Ma non le staccava le mani di dosso, tenendola per le spalle come se avesse paura che a lasciarla andare sarebbe semplicemente svanita. E lei gli sorrideva ancora, cullando Cole perché smettesse di agitarsi inutilmente tra le sue braccia.
-Alex, Stef e Steve erano preoccupati per te.- spiegò Hellen semplicemente.- Così mi hanno trovato un posto sul primo volo.
-Erano preoccupati per me?- ripeté Brian, realizzando in quel momento quanto fosse stato…idiota nel credere di poter imbrogliare quei tre con una delle sue peggiori performance da attore comico. Gli fece bene pensarlo, quando sorrise lo fece semplicemente per la felicità di averla lì e per la consapevolezza di non essere mai stato davvero solo.- Sono un coglione.- ammise semplicemente.
Lei lo fissò senza capire subito. Ma poi dovette farlo, perché ricambiò il suo sorriso e aggiunse soltanto.
-Dovresti fare una statua a quei tre, se la meritano!- ridendo divertita.
-Dovrei farla a tutti voi.- affermò Brian. Ed allungò le braccia, accennando in direzione di Cole.- Sgancia mio figlio!- ordinò perentorio, con aria così infantile da fare ridere di cuore Hellen.- Tu te lo sei coccolata abbastanza!- protestò.
-Sei una cosa impossibile, Brian!- esclamò Hellen, mentre gli passava il bambino e si appendeva comodamente al braccio del proprio compagno, per avviarsi verso l’ingresso dell’Hotel.
-Allora, com’è andato il volo?- s’informò lui, sistemandosi in spalla il bambino.
Cole gorgogliò felice in segno di saluto e si gettò immediatamente alla caccia di qualsiasi cosa potesse essere trasformata in un improvvisato ciuccio da infilarsi in bocca per assaggiarne il gusto. Il risvolto della giacca del padre, una ciocca di capelli, prontamente sottrattagli per evitare che si avvelenasse con il gel. Brian sorrise fissando il volto da scimmiotto del figlio e scoccandogli un bacio sulla fronte.
-Mah.- esordì Hellen colloquiale.- Un po’ di turbolenza per la pioggia.- ammise, tirando poi un’occhiata al cielo, un istante prima di superare la soglia dell’Hotel.- Speriamo che smetta, no? Rovinerà il Festival.
Brian ci pensò su, fissando Cole che continuava a ridere e gorgogliare, soddisfatto di sé per essere riuscito a catturare uno dei bottoni della giacca, che ora tirava allegramente per potersene impossessare a dispetto dell’indumento cui era ancora attaccato. Poi guardò Hellen, che distrattamente si sistemava dietro le spalle le ciocche pesanti di lunghi capelli neri, in un gesto talmente naturale e banale da risultare semplicemente bellissimo. Sorrise, senza che nessuno dei due lo vedesse, e si strinse al petto il bambino, carezzandogli la nuca coperta di cortissimi e morbidi ciuffi neri.
-Non lo so, Hellen.- mormorò semplicemente.- In fondo…un po’ di pioggia che male vuoi che faccia?- le chiese appena.
Lei si voltò ad incrociare il suo sguardo felice e, sorpresa, lasciò andare i capelli che ricaddero in un mare lucido. Brian pensò che era davvero fortunato ed anche questo fu un pensiero gratificante, così come lo fu il sorriso di Hellen che rispose al suo ed il peso della sua presenza, quando gli si appoggiò contro la spalla sospirando soddisfatta.
-Ma sì!- esclamò facendogli eco.- Un po’ di pioggia che male può fare?
 
Anche quando credi che pensare ad un domani, uno qualunque, per qualunque ragione, basta a farti desiderare di sederti e restare immobile, lasciare al tempo lo spazio ed il diritto di correrti addosso e cancellarti.
Anche in quei momenti basta davvero poco.
Qualcuno che ti chiama per nome. Un sorriso regalato da uno sconosciuto. Il semplice battito d’ali di una farfalla proprio accanto a te, su un fiore che non avevi visto passandoci troppo vicino.
Ti accorgi che il mondo ha sfumature che non credevi possibili e quelle sfumature sono tutte belle. Anche quelle di grigio o di nero, o anche solo il bianco fondo ed uniforme. Ogni sfumatura del mondo vale la pena di viverla.
Allora lasciamo perdere ed andiamo avanti. Ricominciamo da dove avevamo pensato di fermarci e vediamo oltre.
Semplicemente, continuiamo a vivere.
Fu il tocco gentile di una mano calda a svegliarlo. Si scosse sulla sedia, si era addormentato senza nemmeno accorgersene, appisolato tutto storto sulle dannate poltrone del dannato aeroporto. Ma quel tocco era dolce e lui non si allarmò, schiudendo gli occhi per incontrare il suo sorriso e la carezza piena del palmo sulla guancia.
-Ciao, Matt. Sei proprio un bambino.- salutò Gioia con affetto.
Lui ricambiò entrambi. Sorriso ed affetto, imprigionando le dita di lei tra le proprie e la guancia.
-Ciao, principessa. Sei tu che mi lasci qui solo e stanco.- fece notare.
Lei si tirò indietro, ma senza essere brusca, sforzandosi invece di imprimere in un tono allegro la forza di ciò che sentiva e che risuonò intatta anche in quelle semplici parole, con cui lo accompagnò mentre lui si tirava in piedi.
-Uff, sai che temevo che non sarei riuscita a venire!- esclamò. Matt s’impadronì d’autorità del manico del trolley, che li seguì scodinzolando mentre uscivano dalla sala d’aspetto.- Hanno annullato almeno sei voli prima del mio.- raccontò Gioia.
-Avrei fatto la figura dell’idiota con quattro riviste diverse ed almeno un paio di televisioni, che domani avrebbero dovuto titolare “Matthew Bellamy abbandonato dalla sua donna, dopo aver passato l’ultima giornata di prove in vista del concerto a pensare a lei invece di lavorare!”.- rispose Matt in tutta tranquillità.
Gioia gli scoccò un bacio sulla guancia, ridendo.
-Questa la mettiamo insieme a quella del licenziamento della Warner, Mr. Bellamy!- asserì divertita.
Raggiunsero l’auto nera che li aspettava all’uscita degli Arrivi. Quando li vide arrivare insieme, l’autista sorrise loro:
-Tutto a posto, Mr. Bellamy?- s’informò gentilmente.
Per tutta risposta il frontman dei Muse strinse con orgoglio la propria donna, che lo fissò stupita mentre lui gonfiava il petto come un gallo.
-Matt!- sbottò Gioia.- Ma che ti prende?!
Lui la guardò, fingendo di non capire con la sua aria più innocente e fanciullesca.
-Niente!- affermò, strappandole una nuova risata.
Gioia scosse il capo sconsolata e s’infilò in macchina per prima, seguita dalle risate dei due uomini impegnati nella sistemazione del bagaglio.
-Non crescerai mai!- ribadì da lì dentro, giusto un momento prima che lui la raggiungesse e si sedesse con un saltello al suo fianco.
-E allora?- s’informò Matt con un sorriso smagliante e soddisfatto. Poi si rivolse all’autista.- Lo sa che sono in ritardo mostruoso?- domandò candidamente.
Lui si voltò a guardarlo.
-A questo c’è rimedio.- assicurò prima di mettere in moto. Mentre l’auto scivolava fuori del parcheggio, l’uomo si voltò di nuovo.- Che dice? Accendiamo un po’ di radio?
-Stavo per suggerirglielo io.- confessò Matt.
Nell’aria si diffusero le note del non meglio identificato successo dell’estate, Gioia si sporse a fissare il cielo fuori del finestrino, osservando le nuvole che rovesciavano su di loro enormi gocce di pioggia, lente e gravi. Facevano un contrasto curioso con il motivetto veloce e allegro della canzone e la ragazza si trovò a sospirare pesantemente.
-Chissà se smetterà per stasera…- mormorò un po’ dispiaciuta.- Rovinerà il concerto!
-Naaah!- sminuì Matt scrollando le spalle.- Basta cantare un po’ più forte.- assicurò in modo assolutamente privo di senso.
E Gioia lo fissò perplessa, studiando il suo volto assurdamente soddisfatto.
Per poi dirsi che non aveva davvero importanza e buttargli le braccia al collo, e baciarlo ridendo.
-Sei davvero una creatura impossibile, Matthew Bellamy!- lo denigrò, arruffandogli i capelli.
 
MEM
2007
“Diverso da me…”
 
 
Nota di fine capitolo dell’Autrice dai Sommi Poteri per scusarsi con il mondo intero:
 
Ci deve essere un principio della fisica o della matematica che spiega il mio irrazionale ficcarmi in situazioni dalle quali non sapere come uscire.
Vi rendete vagamente conto che questa storia non ha mai avuto senso? Dal primo momento in cui ho iniziato a scriverla e per un motivo che mi sfugge totalmente ha fatto esattamente “il cavolo che voleva”!
Risultato? Io non so neppure che ci ho scritto dentro.
Sembra il testo di una canzone dei Placebo! Sul serio!!! E non mi sto facendo un complimento…
 
Vabbè. A parte questo, come colonna sonora/sottotitolo si becca anche una canzone dei Placebo, perché l’illuminazione…o presunta tale, per la trama l’ho avuta proprio mentre la ascoltavo.
Coloro che non hanno mai sentito “Haemoglobin” da “Black Market Music” la ascoltino, sapendo che:
a)      è il manifesto dell’emokidding nel mondo. E non c’è un  solo motivo valido per stupirsene;
b)      non ha assolutamente alcun senso, come quasi tutte le canzoni dei Placebo, ma come tutte le canzoni dei Placebo contiene frasi ed immagini che da sole farebbero perdonare a Brian testi ben peggiori di questo;
c)      ha il suono di pugno nello stomaco o di un grido trattenuto. Davvero. Sembra un grido che ti cresca dentro e gorgogli sul fondo dello stomaco, nel vano tentativo di uscire fuori. Ma non esplode mai, senti la rabbia che ti raggiunge e che ti preme contro, ma non esce. Potete sentirla milioni di volte (se vi sta venendo il dubbio che io l’abbia fatto, adesso potete considerarla una certezza) e vi darà sempre la stessa sensazione di rabbia soffocata.
 
Detto questo, Signori! L’Autrice dai Sommi Poteri si accomiata, scusandosi per il delirio e sperando che almeno sia valso a qualche momento di sano divertimento.
Un bacio ed alla prossima.
 
  
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